Intervista a cura di Domenico Scagliusi
Esiste un’arte contemporanea sul Gulag e le repressioni sovietiche? In un momento in cui, nella Federazione Russa, diventa sempre più difficile affrontare questi temi, questa serie di interviste si propone di far conoscere al pubblico occidentale le opere di artisti, ormai emigrati all’estero, per i quali la memoria delle repressioni sovietiche è diventata oggetto di ricerca creativa. Le opere di Aleksey Shchigalev sono una dimostrazione interessante degli strumenti di cui l’arte dispone per elaborare il passato familiare e collettivo. Nella sua opera, un posto importante occupa la volontà di sottrarre lo spazio circostante all’oblio, di trasformare la sua storia, spesso celata o nascosta, in memoria viva. Alla nostra domanda iniziale, Aleksey replica a sua volta: “E di cos’altro si dovrebbe occupare l’arte?”
Aleksey Shchigalev è nato nel villaggio di Ust’-Čёrnaja, nella regione di Perm’. Ha completato gli studi presso l’Università Federale degli Urali, specializzandosi in “attrezzature e macchine metallurgiche”. Ha iniziato la sua carriera come street artist. Nel 2014, ha cofondato il collettivo indipendente “Dom Gruzčika”. Dal 2018 al 2020 ha studiato presso l’Istituto di Arte Contemporanea di I. Bakštein. Dal 2023 vive e lavora a Parigi. Sito dell’artista: https://shchigalev.com.
Questa intervista è stata realizzata presso il Centro di Slavistica della Sorbona (Centre d’Études Slaves – 9, rue Michelet 75006 Paris) il 29 marzo 2024, nell’ambito della mostra Mémoire en travail (dal 28 marzo al 5 aprile 2024). La mostra era parte della conferenza intitolata L’art et le Goulag : lire et interpréter les documents des persécutions staliniennes, organizzata da Nadja Podzemskaja e Luba Jurgenson – ITEM (CNRS/ENS), Eur’Orbem (Sorbonne-Université/CNRS) e Mémorial France.
La versione russa di questa intervista la si può leggere qui.
Domenico Scagliusi: Nell’ambito di questa mostra, hai presentato due progetti legati alla storia delle repressioni sovietiche: “Shchigalev Danil Antonovich” (un’opera strettamente connessa al tuo passato familiare) e “Sortirovka”, in cui fai riferimento, piuttosto, dell’esperienza collettiva di eventi storici. Potresti presentare brevemente queste due opere?
Aleksey Shchigalev: Sì, il primo lavoro riguarda la storia del mio prozio, il fratello di mio nonno. Questa idea mi è venuta nel 2018, quando ho trovato il suo dossier nell’Archivio di Stato di Perm’. Era nato nel 1911 nel villaggio di Berestovenka, vicino a Kharkiv. La sua famiglia è stata vittima della dekulakizzazione nel 1931 [il termine indica l’espropriazione dei beni e, più in generale, la repressione violenta dei cosiddetti kulaki ai fini della collettivizzazione agricola. “Kulak” è un termine dispregiativo che designava i contadini in possesso di un appezzamento di terreno o di strumenti per il lavoro agricolo, N.d.R.] e inviata nella regione degli Urali, nel villaggio di lavoro di Novoe Ugležženie, creato a posta per gli specpereselency [il termine designa le vittime delle deportazioni forzate che ebbero luogo nel corso dell’epoca staliniana, N.d.R.]. Nel 1937, Danil fu arrestato. Secondo il dossier amministrativo era accusato di spionaggio al servizio della Polonia. Il 9 febbraio dell’anno successivo fu fucilato nel poligono conosciuto con il nome di “Kilometro 12” vicino a Ekaterinburg. Ora, a Perm’, c’è un monumento alla memoria delle vittime delle repressioni sovietiche, inaugurato nel 1996…
DS: Se ho ben capito, il tuo progetto consisteva appunto nel copiare su carta le lettere presenti sull’iscrizione che si trovava su questo monumento e usarle per scrivere il nome, il cognome e il patronimico del tuo prozio. È così?
AS: Sì, è una tecnica chiamata “Estampage”. L’ho fatto perché su quel monumento non ci sono i nomi delle vittime. Allo stesso tempo, però, le lettere dell’iscrizione mi sembravano formare una massa enorme dalla quale potevano emergere i nomi di molte persone.
DS: Se questa opera è legata alla storia della tua famiglia, nel progetto successivo, mi sembra che tu abbia voluto esprimere, invece, una tua certa posizione politica…
AS: Sì, è così. Questo progetto è iniziato quando il Museo d’arte contemporanea PERMM mi ha chiesto di curare una mostra sulla stazione ferroviaria della città di Perm’. L’amministrazione locale delle ferrovie si era rivolta al museo in occasione del 75º anniversario della vittoria nella “Grande Guerra Patriottica” [nome con il quale, nel discorso ufficiale russo e sovietico, è chiamata la Seconda Guerra mondiale, N.d.R.]. La mostra doveva illustrare i successi del sistema ferroviario durante la guerra. Io, però, non avevo voglia di contribuire a questa autocelebrazione.
Così ho deciso di interessarmi ad altri aspetti della storia della ferrovia in relazione alla guerra e mi sono imbattuto nel libro dello storico Oleg Lejbovič La guerra attraverso gli occhi dei prigionieri di guerra, che raccoglie oltre 200 fascicoli di prigionieri di guerra russi che tornavano nella regione di Perm’ (allora chiamata Molotov) dalla Germania. In pratica, le stazioni ferroviarie fungevano da punti di filtraggio. Circa due milioni di persone tornavano a casa in quel periodo dopo la fine della guerra: bisognava accoglierle e controllarle, perché i prigionieri di guerra erano sospettati di spionaggio. L’NKVD aveva delegato parte del lavoro anche ai reparti di trasporto delle stazioni ferroviarie. Il loro compito era di interrogare i prigionieri di guerra e decidere se inviarli nei lager sovietici. La mia idea consisteva quindi nel prendere le domande che gli venivano poste dagli agenti e a collocarle sulle mappe della rete ferroviaria dell’URSS, ordinandole in base alla lunghezza delle righe.
Mi era sembrato importante discutere anche di questi aspetti. Come dire? Per qualcuno era semplicemente una routine quotidiana, un lavoro come un altro… Come ogni mezzo di trasporto, la ferrovia raccoglie un sacco di storie diverse: qualcuno andava al fronte, qualcuno tornava dal fronte, qualcuno veniva trasportato in ospedale, qualcun altro veniva evacuato… E tutto questo confluiva in un unico spazio. Un groviglio di destini in movimento. Secondo me, questo era molto più interessante della celebrazione di presunti successi.
DS: Sono d’accordo. Ma, evidentemente, a Mosca non molto, visto che, se ho ben capito, ti hanno vietato di partecipare alla mostra. Avevi già messo in conto che il tuo progetto potesse essere rifiutato?
AS: Allora, in realtà, il progetto era stato approvato dall’amministrazione ferroviaria locale di Perm’, poi a livello della filiale territoriale di Ekaterinburg. Ma quando tutto è arrivato a Mosca, l’amministrazione centrale ha deciso di bocciarlo. Fin dall’inizio, ero cosciente che il mio progetto fosse probabilmente un po’ troppo ambizioso, ma non avevo voglia di rinunciare a un tema che mi interessava così tanto. Certo, mi sarei dovuto aspettare questo rifiuto, ma ero troppo entusiasta di ciò che avevo trovato. Per fortuna, sono comunque riuscito a esporre questo lavoro. Nella biblioteca dell’Università di Nanterre e in Russia, a Ufa. Si trattava di un’organizzazione privata: il Museo di Arte Contemporanea “Zaman”. Sarebbe stato impossibile fare altrettanto in un’istituzione statale. Ora, lì, monitorano tutto molto attentamente. Ad esempio, a Perm’ c’è una Galleria d’Arte Nazionale. È un edificio grande, sulla riva del fiume, con una guglia. Il museo è collocato letteralmente in una chiesa. Prima di ogni inaugurazione, il prete visita la mostra e ispeziona le opere, per essere sicuro che non ci sia nulla di “antireligioso”. Ci sono già stati casi in cui alcune opere sono state rimosse.
DS: Perché, secondo te, lo Stato in Russia è ostile alla discussione su questi eventi storici? Come te lo spieghi?
AS: Beh, mi sembra ovvio. Non vogliono che ci sia alcuna forma di trasparenza…
DS: Anche se parliamo di fatti accaduti quasi un secolo fa?
AS: Nel caso specifico della mia opera, penso non volessero che il ricordo di questi eventi macchiasse le celebrazioni della gloria della ferrovia.
DS: Queste sono state le tue prime opere sul tema?
AS: No, uno dei primi progetti che ritengo importanti è stato l’opera “Delo” [In questo contesto, la parola russa delo designa il caso giudiziario, N.d.R.]. A Perm’, c’era un edificio in cui cento anni fa era stato aperto il primo commissariato di polizia della città. Adesso è stato demolito e penso abbiano già costruito qualcosa di nuovo. Ma, nel 2019, questo posto era coperto da una rete da cantiere. E su quella rete, ho ricamato la parola “дело” (delo). È un riferimento all’espressione russa podšit’ delo [letteralmente, “cucire un caso giudiziario”, N.d.R.], che significa falsificare, fabbricare delle prove per condannare una persona innocente. Poi ho fatto una cosa simile nel Museo di Mosca: questa volta era uno schema che mostrava come fabbricare un caso giudiziario. L’ho chiamato “Deloproizvodstvo” [letteralmente, “fabbricazione di un caso giudiziario”, N.d.R.].
DS: Mi sembra che questa tua opera, così come quella sul tuo prozio, siano un tentativo di sottrarre la memoria all’oblio. Per esempio, la gente che passava davanti all’edificio sapeva che si trattasse del primo commissariato di polizia di Perm’?
AS: Per niente. Lo sai solo se ti interessi di certe cose.
DS: Ti prefissavi sin dall’inizio una certa finalità pedagogica, ovvero quella di far conoscere certe cose alla gente?
AS: Sì, certo. Volevo che almeno si chiedessero “che cos’è questo posto?” Poi, non so quanta gente abbia effettivamente visto l’opera. Ma era abbastanza conosciuta da chi si occupa d’arte. È rimasta lì per molto tempo: due o tre anni. Poi, si è tutta rovinata e l’abbiamo tirata giù.
C’è un altro progetto che ho fatto, legato a questo tema. Si chiama “Cancelled Knowledge”. Questa installazione consiste in una mensola su cui è posto l’unico volume dell’Enciclopedia Sovietica degli Urali, pubblicato nel 1933. Negli anni ‘20 e ‘30 sono state pubblicate un sacco di queste enciclopedie locali. Ho trovato questo libro a casa dei miei genitori e qualche tempo dopo mi sono chiesto, “Perché c’è un solo volume?” Era evidente che mancasse qualcosa, perché l’enciclopedia si interrompeva alla lettera “B” [in russo, la lettera “В”, che si pronuncia “V”, è la terza lettera dell’alfabeto, N.d.R.]. Così, ho scoperto che l’enciclopedia non era mai stata terminata, perché i membri della commissione editoriale erano stati arrestati. Questo non fu un caso isolato. Entro l’anno 1937, la ricerca storica a livello locale cessò praticamente di esistere in quanto tale. Molte enciclopedie sono rimaste incompiute per sempre.
DS: In che momento hai iniziato ad interessarti alla memoria delle repressioni sovietiche? Hai notato dei cambiamenti nell’atteggiamento delle autorità nei riguardi dell’arte su questo tema, nel corso del tempo?
AS: All’inizio, facevo arte di strada, graffiti… Poi mi sono avvicinato all’arte contemporanea e abbiamo creato un collettivo indipendente. Ho iniziato a interessarmi alle repressioni sovietiche soltanto in un secondo momento, quando ho cominciato a notare le ingiustizie e la repressione violenta perpetrata dal regime attuale. Da allora, sono maturato, mi sembra. L’importanza di questo problema l’ho sentita solo col tempo, non subito.
DS: Quindi sono queste ingiustizie, queste “nuove repressioni”, come le hai chiamate, che ti hanno spinto a interessarti a questo tema.
AS: Sì. Da allora questo tema ha assunto un posto sempre più importante nella mia ricerca artistica. Quando vedi che la polizia nasconde della droga addosso ai giornalisti per poterli arrestare… Di cos’altro si dovrebbe occupare l’arte, se non di questo? Non potevo semplicemente andarmene in giro e dipingere quadri astratti. Adesso, questo tema mi interessa sempre di più. È sempre più attuale. Visto che lo Stato si rifiuta di parlare di certe questioni, sono gli artisti si assumono questo compito.
DS: Hai detto che all’inizio facevi graffiti. Qual è stata la tua esperienza? Una cosa che mi ha colpito a Mosca è che ci sono relativamente pochi graffiti per essere una grande città.
AS: Sì, ora ridipingono subito tutto. Ce ne sono ancora molti nelle aree ferroviarie, lungo i binari. Perché quelle sono zone più libere dal controllo dello Stato. Ma, in città, coprono subito tutto. Quando ero a Mosca non mi interessavo più tanto all’arte di strada. Era già nel 2015. Perm’, invece, era una città “devastata”. Era la città più “imbrattata” di tutte, secondo me. Ma ora coprono tutto anche lì. Si sono messi davvero in fissa contro i graffiti. Hanno già convocato in commissariato molti artisti per prendere i loro dati personali. Questo succedeva già due o tre anni fa, prima della guerra. Si è tutto molto intensificato, da questo punto di vista. Quando lo spazio intorno inizia a diventare sterile, quando iniziano a cancellare tutto ciò che considerano inappropriato, è un segnale molto allarmante.
DS: Qual è la risposta del pubblico alle tue opere? Ci sono state persone che ti hanno detto, per esempio, “Grazie al tuo lavoro ho iniziato ad interessarmi alla storia della mia famiglia”? O persone che, in generale, hanno visto il tuo lavoro non solo come un’opera d’arte, ma anche come un modo per stabilire un contatto con il proprio passato familiare?
AS: Me lo dicono spesso, sì. Per esempio, non molto tempo fa, quando ho partecipato ad una mostra ad Ufa. La curatrice mi ha raccontato che la mediatrice, che si occupava delle visite guidate, è rimasta molto colpita dalla mia opera, perché suo nonno era finito anche lui in un campo di filtraggio al ritorno dalla guerra. Spesso mi dicono, “Anche qualcuno della mia famiglia è stato represso”. E iniziano a raccontarmi le loro storie. Recentemente, qualcuno mi ha detto che suo nonno era, come dire…, dall’altro lato: era un sorvegliante del campo. Mi sembra che ciascuno abbia, in un modo o nell’altro, qualche connessione con il Gulag.
DS: Ci sono state persone che, al contrario, ti hanno criticato? Del tipo, “Che vergogna, perché ti occupi di queste cose?”
AS: Penso che certa gente non vada alle mostre.
DS: In generale, pensi che la tua generazione sia più interessata a questi temi, rispetto, per esempio, ai tuoi genitori?
AS: Qualcuno un giorno mi ha detto che ci si inizia a occupare del passato soltanto alla terza generazione. Di solito, i figli delle persone coinvolte non hanno molto interesse per il passato dei propri genitori.
DS: Pensi che sia davvero così?
AS: Sì. I miei genitori non hanno mai mostrato questo tipo di interesse. Tranne mio padre, forse. Negli ultimi anni, si era molto interessato a questi temi. Anche lui, in fondo, non sapeva nulla. Mio nonno ha scoperto che fine aveva fatto suo fratello solo nel 1962, quando è stato riabilitato. Ha ricevuto un certificato che diceva che Danil era stato fucilato. Mio padre aveva sentito delle storie, ma non sapeva granché. Quando ho recuperato i documenti dall’archivio, ho scoperto di essere stato il primo della famiglia a farlo. Cioè, quei documenti erano rimasti lì tutto questo tempo, ma nessuno di loro si era preso la briga di occuparsene. Avrebbero potuto semplicemente andare in archivio e fare richiesta. Mi sembra che la generazione dei miei genitori fosse occupata da altri problemi: come guadagnarsi da vivere, sistemare i figli. Grazie a Dio ora possiamo affrontare queste questioni. Anche se penso che molti dei miei coetanei non si interessino al passato. Io ci sono arrivato attraverso l’arte. La vita in qualche modo mi ha portato a questo. Mio prozio è stato represso… Oppure, ho trovato dei libri a casa dei miei genitori… Ora ho scoperto che altri due miei parenti sono stati deportati…
DS: Come lo hai scoperto?
AS: C’è un registro delle vittime delle repressioni della regione di Perm’. E lì sono riportati questi due casi giudiziari: quello del mio bisnonno e del trisnonno dal lato materno; il primo nato nel 1871, l’atro nel 1907. Per il momento, ho ancora la possibilità di parlarne con mia madre. Quando parlo con i parenti, registro sempre, come stai facendo tu ora con me, e certi argomenti vengono fuori continuamente. Per esempio, ho cominciato a capire cos’era successo a mia madre. Suo nonno era stato espropriato e trasferito letteralmente a cento chilometri di distanza, in un altro villaggio. Il regime aveva bisogno di deportare la gente anche solo di pochi chilometri.
DS: Hai già qualche progetto in merito? Oppure per il momento ti interessa semplicemente capire che cosa è successo?
AS: Sì, prima di tutto, è interessante capire che cosa è successo. Anche mio zio, per esempio, è ancora vivo e mi ha raccontato molte cose. Tra l’altro, mio zio ha prestato servizio nell’esercito nel 1968 e ha partecipato alla repressione della Primavera di Praga in Cecoslovacchia. È stato tre mesi in Sassonia, in Germania, nella foresta al confine con la Cecoslovacchia. Mi ha raccontato un sacco di storie pazzesche. Come, per esempio, quella di un tizio che era stato schiacciato accidentalmente da un carro armato della sua stessa unità. Si era ubriacato ed era uscito di notte dal suo carro armato. E proprio in quel momento, il comandante stava pattugliando la zona con un altro carro armato… Insomma, al mattino hanno trovato soltanto la sua mano con un orologio al polso. Dopo, stando a quello che mio zio mi ha raccontato, hanno raccolto i suoi resti e li hanno portati via.
DS: Mi sembra che il fatto che tu citi questo episodio adesso non sia un caso. Secondo te, le repressioni sovietiche e l’occupazione della Cecoslovacchia fanno parte di una stessa storia?
AS: Penso di sì. Come dire, qualcuno ha occupato un Paese straniero, mentre qualcun altro è stato represso dal proprio Paese… Tutto questo, all’interno di una stessa famiglia.
DS: Mi sembra che in entrambe i casi, si tratti anche di un certo rapporto particolare al valore della vita umana.
AS: Sì. Per esempio, vedi, c’è una lista ufficiale dei soldati morti durante la repressione della Primavera di Praga, e quella persona lì non l’hanno inserita. Mio zio ne è sicuro. Lo conosceva personalmente. Erano nello stesso carro armato. Non poteva non notare che non fosse presente nella lista.
DS: Hai intenzione di fare qualcosa su questa storia adesso che sei in Europa?
AS: Sì, sono appena stato in quella foresta in Sassonia. Ho girato in bicicletta e parlato con la gente. Sono andato un po’ nella biblioteca locale, nei musei e negli archivi. Ma devo imparare il tedesco per parlare di più con la gente del posto. Ho già un’idea di cosa fare. Ho iniziato a fare alcuni schizzi con la stampante 3D. Ma credo sia necessario fare almeno un altro viaggio. Mio zio mi ha parlato molto di un certo trampolino dal quale si lanciavano con gli sci. Pensavo di aver trovato quel posto. Ma ora, studiando delle vecchie mappe, ho scoperto che c’era anche un altro trampolino. Molto probabilmente è di quello lì che si tratta, mentre la prima volta devo essermi sbagliato.
DS: Grazie mille