Il poeta che preferiva l’ultima fila tra artisti e banditi. “…e così via…” di Boris Ryžij

Sara Deon 

 

Manca tenerezza alla mia poesia
ma voglio che ci sia tenerezza. (p. 79)

 

Lo scorso dicembre, grazie al lavoro dell’editore Il Ponte del Sale, è stata data alle stampe la seconda edizione di …I vsë takoe… (“…e così via…”, 2000) di Boris Ryžij, in una veste nuova con traduzione e cura di Laura Salmon. La comparsa in Italia dell’unico volume pubblicato in vita dall’autore, a San Pietroburgo nel 2000, è particolarmente significativa, giacché in Europa il nome di Ryžij non è particolarmente noto, nonostante la sua più significativa fama in Russia. Al lettore italiano che volesse approcciarsi alla produzione ryžiana, infatti, le possibilità fino a tempi recenti non erano numerose: si potevano trovare le sue poesie nell’antologia La nuovissima poesia russa, edita da Einaudi nel 2005 a cura di Mauro Marini o nel volume Poeti russi oggi, pubblicata da Libri Scheiwiller nel 2008 e curata da Annelisa Alleva. O, ancora, al lettore italiano sarà capitato di recitare dei versi di Boris Ryžij cantando il brano Sudno del gruppo bielorusso Molčat Doma.

Il ritorno nelle librerie italiane del volume di poesie di Ryžij segnala, dunque, un passo importante per l’editoria nazionale, che riaccoglie uno dei poeti russi più importanti della sua generazione, a cavallo tra il tramonto sovietico e l’alba dell’era post-sovietica.

Link al libro: https://ilpontedelsale.com/product/e-cosi-via/

Copertina di ...e così via...


 

In Enciclopedia dei Morti, Danilo Kiš descrive l’autore fittizio Mendel Osipovič come “un poeta di circostanza della vita”. Se nel corso del tempo il nome di Boris Ryžij è stato associato ai titoli più disparati, dal “poeta-hooligan” all’ultimo dei poeti sovietici, la definizione di Kiš risulta altrettanto pertinente, perché da un lato esprime la natura profondamente reale e materica della sua poesia, dall’altro inserisce l’io lirico al centro dei micro e macro-eventi del poeta russo, nel suo orizzonte tanto immaginifico quanto concreto. 

La storia del poeta siberiano ha inizio l’8 settembre del 1974 a Čeljabinsk: Ryžij nasce in un’agiata famiglia dell’intelligencija russa, il padre è un noto geofisico e la madre un medico epidemiologo. Fin dall’infanzia, il piccolo “Borik” – come lo chiamavano in famiglia per differenziarlo dall’omonimo padre – cresce in uno spazio sicuro e confortevole, dove il padre e le sorelle maggiori lo introducono alle fiabe popolari e ai capolavori della letteratura russa, sedimentando fin dalla tenera età la concezione del linguaggio poetico come lingua madre.

È l’anno 1980 a segnare un significativo mutamento nella vita della famiglia Ryžij, quando si trasferiscono da Čeljabinsk a Sverdlovsk, capitale degli Urali e che nel 1991 verrà ri-nominata Ekaterinburg, dove il padre era stato nominato direttore del più importante centro di ricerca geomineraria della Siberia. Tuttavia, per un errore burocratico, alla famiglia viene assegnato un appartamento in un quartiere alla periferia della città, Vtorčermet, un grigio rione operaio che diventerà per il giovane Boris luogo d’elezione per le sue prime sperimentazioni poetiche. A Vtorčermet, infatti, si legherà la vita del ragazzo-poeta fino agli studi superiori, quando conoscerà Irina Knjazeva, che pochi anni dopo diventerà sua moglie. È nel corso degli anni Ottanta che Boris inizia a sperimentare con la poesia, la forma e la lingua letteraria, ma si appassiona anche – sulla scia del padre – alla biologia, così come alla musica dei conterranei Nautilus Pompilius, dei DDT e degli Zvuki Mu, alla boxe, judo e pugilato, sport di combattimento indispensabili anche per difendersi nei cortili e lungo le strade del suo quartiere di periferia.

La fine dell’età dell’innocenza del poeta coincide con i mutamenti drammatici del suo Paese: quando il 26 dicembre del 1991 viene decretato lo scioglimento dell’Unione Sovietica, per Ryžij l’esito è devastante, tanto che lo commenta scrivendo: è scomparsa ogni cosa bella che appena appena era agli albori” (p. 109). Si tratta quindi della fine di un’era di promesse, spezzata quando ancora nella sua fase germinale. A mutare con l’inizio degli anni Novanta è anche il ruolo della letteratura come valore universale del popolo sovietico, ed è in questo tempo di seconda mano che lo scrittore post-sovietico si trova privato della devozione del popolo russo, in competizione con le nuove propaggini del dikij kapitalizm (il capitalismo selvaggio).  

 

È negli stessi anni che conosce il poeta coetaneo Oleg Dozmorov, che rimarrà fino alla morte il suo più caro amico. Insieme a lui, Ryžij stabilisce le tappe di una poetica comune: innanzitutto, prosaicizzare la poesia, ricorrendo a un lessico colloquiale, volgare, gergale, tanto che Jurij Kazarin descrive la poesia di Ryžij come assolutamente nuova e allo stesso tempo assolutamente familiare. In secondo luogo, entrambi si prefiggono la concretizzazione del cronotopo del contenuto, grazie all’uso di toponimi, antroponimi e prototipi reali, nonché riferimenti all’epoca della narrazione. In terzo luogo, non in ordine di importanza, per i due è cruciale valorizzare l’ingenuità, la cantabilità e la musicalità, quest’ultima – come già sottolineato – uno degli aspetti più cari al poeta siberiano.

In un’intervista a Dozmorov a proposito di Ryžij, l’amico poeta menziona alcune memorie della loro giovinezza, quando si raccontavano a vicenda aneddoti relativi ai vicini legati alla criminalità organizzata. La differenza tra i due amici, sottolinea Dozmorov, è che per Ryžij quegli individui non erano un mero oggetto di leggende locali, bensì persone che amava, vicini di scorribande, teppisti e malavitosi del quartiere, soggetti con cui era cresciuto e ai quali nel suo spazio poetico poteva finalmente donare una voce. 

Nell’ultima fila c’erano birra e sigarette.

In prima fila non mi siederò mai. (p. 90) 

La scissione, comunemente considerata dicotomica tra alto e basso, benessere e povertà, viene annullata dal poeta nella sua opera: come scrive nella postfazione all’opera Laura Salmon, quella di Ryžij non è una poesia che si sviluppa per contrasto, bensì una poesia che lo annulla. Nei suoi versi è assente ogni giudizio moralista, i suoi eroi poetici appianano ogni confine tra la vita dei poeti e quella dei banditi. 

È la materia quotidiana fornita dall’esistenza difficile nel grigiume di quel quartiere a plasmare la poetica e la visione del mondo di Ryžij in un tempo di profondi sconvolgimenti: Boris non cerca la poesia fuori dal suo fatiscente rione, come fuga immaginaria dal reale, ma la trova proprio a Vtorčermet: nell’ennesimo bicchiere di birra bevuto come nella birra fosse la quiete” (p. 101), nei sorrisi senza denti, in un umido reclusorio per drogati, in una testa fracassata da un poliziotto, tra le braccia di una ragazza dove si ferma il tempo. Poeta parte degli emarginati e mai al di sopra di essi, ciò che appare come leitmotiv della raccolta è il canto di sé e della sua gente, teppa di Sverdlovsk: poeti e banditi. (p. 29) 

Propinaci, Paša, la tua schifezza:

anche dovesse scoppiarmi la testa, 

su quel motivo da far ribrezzo 

si adagerà uno splendido testo. (p. 19) 

 

Tuttavia, è proprio quando il poeta sta godendo del suo maggiore successo letterario che l’equilibrio da lui rappresentato, già flebile, si rompe. Poco prima dell’alba del 7 maggio del 2001, il ventiseienne Boris Ryžij si toglie la vita impiccandosi con la sua vecchia cintura da judo. 

Come scrive Jurij Kazarin (2016) a proposito del poeta,la poesia uccide solo i poeti autentici. Per quanto suoni paradossale, il poeta e la poesia si consumano a vicenda, il poeta si sacrifica per la poesia: Boris esisteva e viveva interamente nella poesia” (p. 17). In un’intervista, Ryžij enfatizzò lo statuto per cui ogni poeta ha bisogno di una tragedia ma come, a detta sua, essere un poeta costituisca già di per sé una tragedia. Gli anni Novanta e l’aumento della fama del poeta coincidono, infatti, con il periodo in cui la sua depressione e la dipendenza alcolica si acuiscono, aggravando la sua incapacità di accettare con mesta rassegnazione l’insensatezza dell’esistenza. Di fronte al crollo dell’Unione Sovietica, il fallimento dell’uomo e dell’idea, Ryžij si scopre incapacitato a immaginare un futuro possibile. Nell’epoca atomizzata che si delinea di fronte a lui, tanto il poeta quanto l’uomo di Sverdlovsk non trovano più un posto per sé.

Bella, tu mi devi amare:

il tempo presto finirà 

e di vivere, mi pare, 

già quest’oggi non mi va.” (p. 55)

Sebbene la storia di Boris Ryžij abbia avuto inizio nel settembre del 1974, essa non si è esaurita il 7 maggio del 2001. Il suo volume …e così via… condensa il rapporto tra sincera delicatezza e ruvida realtà della sua poetica: rivolgendosi spesso a una seconda persona singolare immaginaria e confidenziale, nel metro tradizionale il poeta ha trovato spazio per i derelitti, i malavitosi, le delusioni e disillusioni quotidiane. A questi ha conferito una dimensione poetica, tanto legata alla provincia industriale quanto a un’esperienza più ampia e universale, un messaggio che ritorna nelle ultime parole scritte da Boris Ryžij nel suo biglietto d’addio che è anche l’ultimo, coerente testamento della poetica che ha attraversato la sua troppo breve vita: Ho voluto bene a tutti. Dico sul serio. Il vostro Boris. (p. 112)  

 

Bibliografia: 

Jurij Kazarin, Poėt Boris Ryžij, Mosca-Ekaterinburg, Kabinetnyj učenyj, 2016.

Apparato iconografico: 

Immagine di copertina: https://www.thewisemagazine.it/2019/11/09/cammino-eterno-dolore-tragedia-boris-ryzhy/ 

Immagine 2: https://internopoesia.com/2017/05/06/boris-ryzhy-2/ 

Immagine 2: ​​https://www.nakanune.ru/news/2020/03/21/22568683/