A cura di Martina Greco e Martina Mecco
In occasione del centenario dalla morte di Lenin abbiamo intervistato Guido Carpi, professore ordinario di letteratura russa presso l’Università L’Orientale di Napoli e studioso di Vladimir Ul’janov. Guido Carpi è autore di diversi contributi dedicati al rivoluzionario russo, tra cui i due volumi editi da Stilo Editrice Lenin. La formazione di un rivoluzionario – Lenin. Verso la rivoluzione d’Ottobre (recensiti da Andergraund Rivista qui) e la sua ultima fatica per Carocci Editore, Lenin. Il rivoluzionario assoluto. Insieme al Prof. Carpi abbiamo cercato di ricostruire alcuni aspetti della figura di Lenin e di indagare il lavoro di ricerca svolto dallo studioso.
Ringraziamo naturalmente il Professore per averci concesso questa intervista.
AR: Buongiorno e grazie di aver accettato la nostra proposta per un’intervista! La prima domanda tocca corde forse più personali. Quando ha iniziato a occuparsi di Lenin e cosa l’ha spinta a iniziare questo percorso di ricerca?
GC: Buongiorno! Cosa mi abbia spinto, è presto detto: vengo da quella storia lì, anche se non sono mai stato granché come militante. Quella del comunismo – da Marx a Lenin e da Lenin in poi – è una storia molto ricca e variegata, fatta, a mio parere, di momenti luminosi e di grandi tragedie: una sorta di labirinto in cui, quale che sia la direzione presa, si finisce sempre nella stanza centrale, non si può sfuggire all’incontro col “Minotauro” Lenin.
Di Lenin mi sono sempre interessato in un modo o nell’altro, e non solo a causa della mia provenienza politica, ma anche perché non penso che si possa studiare la cultura del Novecento russo/sovietico senza conoscere il retaggio dell’artefice dell’Ottobre: qualsiasi cosa se ne possa pensare nel merito, sarebbe come studiare Dante senza avere letto San Tommaso.
Quando ho deciso di scriverne una biografia? Quando mi sono trasferito a Napoli: una città dura, classista, ma che come tutti i luoghi del genere produce degli anticorpi molto forti. A Napoli, in particolare al centro sociale Ex OPG “Je so’ pazzo”, ho conosciuto un mondo di militanza giovanile radicale che prima mi era ignoto: mi sono chiesto cosa potevo fare per loro, come dare un mio contributo, ed ecco che mi è venuta l’idea. Infatti, nei primi due volumi che ho scritto per la casa editrice Stilo (ospite della collana “Pagine di Russia”, diretta dall’amico Marco Caratozzolo) ho allargano il punto di vista a tutto il mondo della militanza giovanile in cui Volodja Ul’janov si è venuto formando, alla psicologia, all’identità, alle motivazioni di queste nuove figure di attivisti, alle metamorfosi da loro subite da una stagione politica all’altra: senza conoscere quel mondo non si possono capire il pensiero e l’azione di Lenin, perché è a loro che si rivolgeva, ed è da loro che traeva forza come un novello Anteo. Penso che la mia ricerca possa essere uno strumento utile per chi oggi si affaccia al mondo dell’impegno politico radicale: le circostanze sono molto diverse, ma chiunque voglia tentare di cambiare il mondo deve innanzitutto porsi il problema di come organizzarsi, e per fare che cosa. Voglio anche esprimere il mio apprezzamento per le case editrici che mi hanno ospitato: la già citata Stilo e Carocci. Non hanno avuto paura di “sporcarsi le mani” con libri dove certo l’impostazione ideale di base è tutt’altro che dissimulata.
AR: Aveva già in mente che tipo di immagine del personaggio intendeva trasmettere al suo futuro lettore? Quest’immagine è cambiata nel corso della ricerca e/o con il procedere della scrittura? E, a tal proposito, quanto è complesso cercare di “umanizzare” o, in altre parole, “demitizzare” Lenin?
GC: A dire il vero, sulle prime avevo un’idea piuttosto vaga di chi fosse Lenin come “tipo umano”: la sua immagine risentiva troppo di una monumentalizzazione e mitizzazione ossessiva che io, ahimé, a differenza di voi, ho ancora fatto in tempo a vedere in atto. In questo senso mi ha certamente aiutato la memorialistica dei suoi primi compagni, in particolare nelle prime edizioni su rivista, dato che a partire dalla fine degli anni Venti tutto questo materiale è stato a sua volta omologato e censurato. Non che di per sé mi importasse “demitizzare” Lenin: esiste infatti una sterminata produzione da me definita “leninofagia” (leninoedstvo) il cui unico scopo è dare della sua figura una versione macchiettistica e/o criminale: cito a tale proposito i libri particolarmente infelici di Hélène Carrère d’Encausse e di Yuri Felshtinsky. Ma certo, cogliere i tratti peculiari del carattere di Il’ič mi ha aiutato anche a comprendere alcune molle profonde del suo agire: mi hanno da subito colpito il modo di costruire il proprio rapporto con la cerchia assai ristretta degli intimi, l’estrema caparbietà politica unita a una fortissima timidezza nelle questioni personali, la scaltrezza mefistofelica in certe cose e un certo qual candore infantile in altre, la carica utopistica smisurata e allo stesso tempo una “normalità” priva di qualsiasi allure romantica o di atteggiamento bohémien.
Faccio un esempio. Quando nel giugno 1917, al primo congresso di un Soviet ancora dominato dai socialisti moderati, Lenin esclama dall’ultima fila la famosa frase: C’è! Quel partito c’è!, tutti si voltano a guardare. I delegati operai e contadini se lo immaginano come una specie di Jack Sparrow: alto, olivastro, con i lunghi capelli crespi, e quando subito dopo sul palco sale la semplice e sorridente figuretta del capo bolscevico, con la pelata bella lucida, molti si chiedono “E Lenin dov’è?”
AR: Per portare avanti questa ricerca si sarà dovuto confrontare con una consistente mole di materiale. È stato un vantaggio o una difficoltà? Come si è orientato per mettere ordine a tutte le fonti che ha consultato? Esiste una differenza quantitativa e/o qualitativa tra i documenti dedicati alla persona di Vladimir Ul’janov e quelli dedicati al rivoluzionario Lenin?
GC: È stato un massacro! Intanto, io non sono uno storico di formazione, ma uno storico della letteratura: per quanto avessi già una certa cultura di base in merito, l’intera struttura me la sono dovuta costruire dalle fondamenta. In secondo luogo, la mole di fonti è allo stesso tempo insormontabile e molto infida: va operata un’accurata selezione per scendere sotto la spessa cortina omologante e propagandistica costruita nei decenni. Faccio un esempio: l’edizione italiana delle Opere in 45 volumi (1955-1970) venne condotta per lo più sull’edizione dell’epoca di Stalin: ogni documento ivi presente va dunque confrontato con la 5° edizione sovietica in 55 volumi (1967-1981), molto più completa, col volume supplettivo uscito già nel 2000, in epoca postsovietica e con le 40 Miscellanee leniniane (Leninskie sborniki), specie quelle degli anni Venti, dove si trovano ulteriori abbondantissimi materiali “silenziati” nel periodo staliniano. Vi sono poi edizioni speciali, come quella dedicata alle due conferenze del 1912 (menscevica a Vienna, bolscevica a Praga): un passaggio politico fondamentale passato sotto silenzio in epoca sovietica perché legato al reprobo Trockij. E ancora: i verbali dei congressi e delle conferenze di partito, i verbali delle organizzazioni locali, una memorialistica sterminata…
Ma la vera croce e delizia del mio lavoro è stato il Carteggio (Perepiska) fra i ‘centri’ direttivi via via guidati da Lenin (a partire dalla redazione dell’”Iskra” nel settembre 1900) e i membri dell’intera rete di attivisti. Le pubblicazioni della serie sono iniziate nel 1969 e si sono poi dipanate di volume in volume per migliaia di pagine di corrispondenza fra centinaia di militanti, fino all‘ultimo volume che sarebbe dovuto uscire nel 1991 ma rimase inedito a causa del crollo dell‘URSS e della chiusura dell‘Istituto del Marxismo-Leninismo presso il Comitato centrale del PCUS, responsabile per l’edizione della serie. Il Carteggio è fondamentale proprio per vedere cosa pensavano e come lavoravano allora i bolscevichi “di base”: la memorialistica successiva, scritta già dopo l’Ottobre, offre infatti un quadro deformato degli eventi precedenti anche quando l’autore ha le migliori intenzioni; ma se vai a leggere le lettere scritte sul momento, emerge un quadro psicologico e fattuale molto più vivido e aderente alla realtà. Posso dire con un certo orgoglio di essermela smazzata tutta, quella maledetta Perepiska, cogliendo fior da fiore: sono riuscito addirittura a scovare in archivio le bozze dell’ultimo volume inedito, che infatti ho abbondantemente citato!
AR: Lenin è un personaggio rilevante anche sotto un aspetto puramente linguistico e fu un riferimento importante anche nei dibattiti che animavano le cerchie di filologi e linguisti russi dell’epoca. Quando lei terminò il suo secondo volume uscito per Stilo disse che quella interruzione (il 1917) segnava l’inizio di un “nuovo Lenin”. Se cambia, come cambia il linguaggio di Lenin dopo lo spartiacque linguistico che fu la Rivoluzione d’Ottobre? Che differenza esiste da un punto di vista linguistico fra il Lenin di “Iskra” e quello post rivoluzionario?
GC: Si tratta di una questione molto complessa, perché nel proteismo linguistico di Lenin sta, credo, una delle chiavi del suo grande carisma politico. Mi viene in mente il racconto di Isaak Babel’ La mia prima oca, pubblicata proprio sul numero del “Levyj Front Iskusstv” uscito in morte di Lenin (dove si tiene il dibattito fra linguisti a cui facevate riferimento) e poi confluita nel ciclo de L’armata a cavallo. Il protagonista-narratore del racconto legge al plotone di cosacchi rossi un articolo di Lenin sulla “Pravda”, cercando “l’arcana curva della retta leniniana”, e i cosacchi paragonano Lenin a una gallina, che trova la verità come un chicco nel mucchio al primo colpo, guidato da un istinto infallibile. Quello di Lenin è un linguaggio ora elastico e inclusivo ora apodittico ed esortativo, che in una certa misura affianca la grande decostruzione della lingua letteraria russa classica, da Tolstoj a Majakovskij… Ma è davvero una questione rognosissima, e preferisco rimandare il lettore a un mio articolo in merito uscito sia in italiano che in una versione russa più completa: Karpi G., Političeskij jazyk Lenina: idioma “Partijnost'” (“Novoe literaturnoe obozrenie”, 2021, vol. 171, pp. 38-60) e Carpi G. Il linguaggio politico di Lenin. L’idioma «partiticità» (“Il pensiero politico”, 2019, vol. 3, pp. 423-448).
AR: Nell’immaginario collettivo Lenin è un uomo d’azione, ma dietro questo atteggiamento si cela un componente riflessiva. Oltre alla dimensione politica di questa fase riflessiva, ci possiamo immaginare Lenin come un avido lettore? Al di là dell’eco černyševskiana del Che fare?, come ce lo dobbiamo immaginare? Dopotutto Lenin nel 1905 pubblica su “Novaja žizn'” il suo articolo Partijnaja organizacija i partijnaja literatura.
GC: Quell’articolo – dettato dall’urgenza propagandistica del periodo – è stato in seguito fonte di innumerevoli angherie nei confronti dell’autonomia della letteratura. Ma in esso, Lenin si riferiva alla letteratura politica, non alla fiction! Quanto a lui, nei formulari burocratici alla voce “professione” scriveva proprio: “letterato” (literator). Naturalmente, voi sapete meglio di me che nella Russia ottocentesca “letterato” è qualcosa che ingloba i concetti di “uomo di lettere”, “studioso” e di “pubblicista”, ma va anche oltre: è un termine contiguo a intelligent, ossia colui che nutre un senso di responsabilità altissimo nei confronti di quelle masse popolari grazie ai cui sacrifici egli e quelli come lui hanno potuto studiare. Ecco perché in Russia il letterato travalica di continuo il confine fra la produzione di “storie” (quale che sia in esse il tasso di fiction esplicita), la predicazione ideologica e un’espressione molto diretta del vissuto che spesso assume la forma di un qualche tipo di militanza: Černyševskij, certo, ma anche Herzen, Saltykov-Ščedrin o Nekrasov, che si torturò tutta la vita per il fatto di essere anche un abile uomo d’affari. Ma anche letterati certo non “di sinistra” come Dostoevskij, Mel’nikov e Leskov ritengono, a loro modo, di “servire il popolo”. E si pensi alla predicazione dell’ultimo Tolstoj!
Quanto al Lenin lettore, i suoi gusti erano molto classici, ottocenteschi: non sopportava i futuristi, ad esempio, anche se di Majakovskij citava ridendo davanti ai compagni la poesia Mania delle riunioni, dove si mette in burletta l’ossessione assembleare che regna nel partito. Peccato invece che Lenin non abbia mai letto Machiavelli, che tanto aiuterà il nostro Gramsci a definire il concetto di “egemonia” e una nuova teoria marxista dello Stato. A proposito: Lev Trockij invece Il principe se lo era letto, e durante la rivoluzione fa proprio il motto: “Colui che vuole fare dove sono assai gentiluomini una repubblica, non la può fare se prima non gli spegne tutti…”
AR: Questa intervista esce proprio all’indomani del nostro settimo numero Utopie Distopie. Spesso si fa riferimento a una dimensione utopica della società russa postrivoluzionaria, smentita dalle opere letterarie di quegli anni (penso solo ai diari di Ivan Bunin, alle terribili descrizioni bulgakoviane della Belaja gvardija) – quanto c’era e c’è di utopico nella figura leniniana?
GC: Come ho già detto, in lui di utopico c’è sicuramente tantissimo, come ci sono anche zone d’ombra: ad esempio il più che disinvolto utilizzo della violenza, anche se va detto che nel contesto della violenza di massa organizzata dallo Stato – da tutti gli Stati! – nel 1914-18 e in un Paese in sfacelo, invaso e in preda a conflitti incontrollabili, senza quei metodi i bolscevichi non sarebbero durati un giorno. Lenin fece anche errori di valutazione che ebbero conseguenze molto gravi: primo fra tutti l’incapacità di comprendere il ruolo della nuova burocrazia sovietica in ascesa, che lui considerava un mero cascame del vecchio regime e che invece stava diventando l’embrione di uno Stato nuovo, con tutte le conseguenze che ne derivarono.
Eppure, in Lenin c’è un elemento di impareggiabile lungimiranza: l’idea da lui stesso definita dello sviluppo capitalistico ineguale, dove metropoli sviluppata e periferia coloniale e semicoloniale concorrono in modo diverso e complementare alla lotta per un generale affrancamento dell’uomo da ogni forma di sfruttamento e alienazione. Esso segna il passaggio dal modello di sviluppo storico lineare e concentrico (proprio anche di molto socialismo ottocentesco, influenzato dal positivismo) a una concezione globale del progresso umano come molteplicità di varianti allo stesso tempo differenti e fra loro interdipendenti. È un’intuizione che recupera anche Gramsci nei già citati Quaderni e che Ernst Bloch, negli anni più bui del trionfo dei fascismi in Europa, riformulò così: “la storia non è un’entità che avanza rettilinea in cui il capitalismo sarebbe l’ultimo stadio, quello che avrebbe superato tutti gli stadi anteriori. Essa è piuttosto un’entità pluriritmica e plurispaziale, con zone non ancora sufficientemente padroneggiate e ben lontane dall’essere portate alla luce, superate“.
Fino al 1917, il movimento socialista era roba di soli “bianchi”: europei o al limite nordamericani; dopo l’Ottobre, Lenin formula con maggior chiarezza i termini della correlazione in cui dovrebbero avvenire i processi di liberazione nei vari contesti, e dichiara dal palco del II congresso della Terza Internazionale comunista (o Komintern) che la fase capitalistica di sviluppo dell’economia nazionale non “è inevitabile per i popoli arretrati che oggi si emancipano”, e “anche là dove è quasi assente il proletariato”, individua il soggetto rivoluzionario nei soviet dei contadini, di concerto con quei segmenti della borghesia che sapranno assumersi un ruolo “rivoluzionario nazionale”. Insomma: in Asia la rivoluzione – non potendo certo scaturire da un capitalismo ancora assente – avrà una funzione “preventiva” rispetto all’instaurarsi del capitalismo stesso.
È difficile oggi percepire la portata dirompente di tale programma, che – così come la stessa fondazione del Komintern, suscitò un’enorme impressione nei paesi coloniali: una forma dialettica di concepire l’internazionalismo e l’antimperialismo (termini svalutati e resi anche un po’ buffi da decenni di dogmatismo politico) che sarebbe necessario riscoprire oggi, naturalmente in forma diversa e attualizzata.
AR: Nel suo libro lei sottolinea le fratture tra il populismo ottocentesco e il leninismo, sostenendo al contempo che Lenin sfrutta la tensione utopica generata dai populisti per innestarvi la propria idea di società perfetta. Cosa ne pensa della tendenza, che ha caratterizzato parte delle riflessioni post-sovietiche, ad interpretare la rivoluzione d’Ottobre come evento non di rottura ma di continuità con il resto della storia russa? Penso ad esempio allo storico-letterato Vladimir Šarov che legge la rivoluzione come ennesima espressione del millenarismo russo, o al critico Dmitrij Bykov per il quale essa non è altro che un’ulteriore conferma dell’eterna oscillazione tra anarchia e totalitarismo tipica del passato nazionale. Si tratta chiaramente di forzature e generalizzazioni di carattere storiosofico, ma quanto c’è di vero in queste interpretazioni?
GC: Mi paiono forme di misticismo antistorico, peraltro non molto originali, dato che cose simili le scrivevano già Nikolaj Berdjaev e compagnia bella negli anni Venti. La storia si analizza considerando gli eventi nella complessa concatenazione che li ha generati, e non andando a cercare improbabili parallelismi e antitesi di tipo paradigmatico. Nel 1917 lo Stato russo si è sfasciato: 1) nel lungo periodo, perché scontava secoli di rachitismo civile ed era governato da una classe politica e da strutture istituzionali anacronistiche e senescenti; 2) nel medio periodo, perché le modalità dell’abolizione della servitù della gleba aveva lasciato ai contadini una drammatica fame di terre e aveva innescato uno sviluppo economico tanto veloce quanto sbilanciato; 3) nel breve periodo, perché l’urto della Grande guerra stava facendo implodere il sistema Paese da dentro prima ancora che al fronte: su questo, consiglio la breve ma lucida esposizione di Giovanna Cigliano nel suo La Russia contemporanea: Un profilo storico (3° ed. 2023).
È l’intero organismo economico e sociopolitico che inizia a sfaldarsi. È un processo complesso che si innesca fin dal 1915, ma per limitarci alla fase terminale, possiamo enumerare almeno alcuni fattori determinanti che non sono certo generati dai bolscevichi, ma che, al contrario, rendono inevitabile il corso successivo degli eventi: il primo fattore è quello socio-economico: l’economia di mercato comincia a dissolversi, i rapporti di scambio commerciale fra città e campagna si spezzano, le regioni economiche si chiudono su se stesse, i contadini scatenano rivolte diffuse ed espropriano le terre dei latifondisti, l’autogestione operaia delle fabbriche è spesso resa obbligata dalla totale disorganizzazione del sistema.
Il secondo fattore è politico: gli interessi di classe si esprimono in forma sempre più nuda e immediata, senza alcuna possibilità di ricomposizione politico-irstituzionale. Proseguire o meno la guerra? Consentire o meno ai contadini l’esproprio dei latifondi? A chi far pagare il prezzo della ricostruzione? Come definire il rapporto fra Heartland russo e periferie allogene dell’Impero? Su questi temi, non vi era mediazione possibile.
Il terzo fattore è militare. Lo Stato perde il monopolio della violenza: mentre l’esercito si disgrega, già nell’estate 1917 si formano i nuclei armati di quelli che sarebbero poi stati gli attori della guerra civile: battaglioni d’assalto come nucleo dell’Armata bianca, la guardia rossa come nucleo della futura Armata rossa e infine le truppe nazionali, soprattutto ucraine.
L’insurrezione di Ottobre rappresenta lo sbocco, o meglio uno dei possibili sbocchi di tali processi: in alternativa, erano del tutto plausibili sia un esito di tipo “asburgico”, con la disintegrazione dell’Impero in una pletora di staterelli, sia un esito di tipo “messicano”, con un caos endemico e una guerra civile strisciante fra militari e movimenti contadini privi di autentico respiro politico. Ma il processo di dissoluzione della precedente forma-Stato, di per sé era comunque inevitabile. Il ruolo di Lenin è unico e insostituibile proprio nella capacità di imprimere una direzione a questi processi di dissoluzione caotica, trasformandoli in spinta creativa, in costruzione di un nuovo impianto civile: non esistevano “alternative soft” di sbocco della rivoluzione; tali alternative, nel contesto di frantumazione dell’intero sistema-paese, semplicemente non avevano alcune possibilità di riuscita. Non c’è niente di peggio di un’autorità in via di dissoluzione che si mette a martellare progetti irrealizzabili ed editti inapplicabili, e la stessa Assemblea costituente – riunitasi un solo giorno per poi essere sciolta dai bolscevichi – era composta in maggioranza dai partiti dell’ex governo provvisorio, che non avevano trovato alcun accordo nel corso del 1917 e non lo avrebbero trovato certo a inizio 1918, nel quadro complessivo di uno sfascio ormai quasi totale. In determinati momenti storici, gli sviluppi non vengono dettati solo da chi vuole insorgere, ma anche dall’ottuso gruppo di potere che vuole perpetuare una situazione senza speranza.
E dunque, con l’Ottobre Lenin non strappa il comando a un potere precedente, che ormai esiste solo in forma virtuale, ma riesce nel miracolo di imporre un carattere di “caduta controllata” a un’intero organismo economico, sociale, statale in via di dissoluzione, e al tempo stesso sa plasmare – per quanto a tentoni – un nuovo quadro istituzionale, un nuovo gruppo dirigente, un nuovo linguaggio amministrativo, giuridico, pubblico, trovando il modo di realizzarli in piena corsa, di individuare i soggetti sociali che possano farsi carico di tale slancio costruttivo.
Questo “doppio binario” distruttivo/creativo mostra secondo me quanto sia fallace il manicheismo in cui molti storici della rivoluzione si esercitano. Non credo nei tentativi di separare nel processo rivoluzionario un iniziale “lato luminoso” libertario e democratico da un “lato oscuro” di violenza e coercizione, destinato infine a trionfare, con Lenin che fa la parte del cattivo Darth Vader. La rivoluzione non è una marcia trionfale di grandi valori di libertà e giustizia, artificiosamente interrotta dai cattivi bolscevichi, ma è un processo multivettoriale integrato, dove ogni tendenza interagisce con ogni altra in modo inestricabile, e dove i bolscevichi sono gli unici a garantire all’intero processo uno sbocco costruttivo. Si noti che quando parlo di “sbocco costruttivo” io non do un giudizio di merito: “costruttivo” come sinonimo di bello o di giusto. Intendo costruttivo semplicemente come funzionale alla costruzione di qualcosa.
Una precisazione sul rapporto di Lenin con la tradizione populista. Noi che abbiamo letto Il populismo russo di Franco Venturi abbiamo dello sviluppo del pensiero rivoluzionario in ottocentesco una visione panoramica, d’insieme che i concreti attori primo-novecenteschi non avevano né ritenevano necessario avere. Da quella tradizione, Lenin prendeva ciò che gli faceva comodo e quando gli faceva comodo: ora le tattiche di cospirazione giacobina, ora un’enfasi degna di Bakunin sullo spontaneismo delle ribellioni contadine… Ma l’elemento della tradizione populista che fin da giovane lo condizionerà per sempre è l’idea di Pëtr Tkačëv che siano la presa del potere e la dittatura rivoluzionaria lo strumento indispensabile per regolare, centralizzare e dinamizzare i tempi di sviluppo in un paese arretrato: è questo il nucleo centrale del leninismo, che lo distinguerà sempre sia dal menscevismo anche più radicale, sia addirittura da altre correnti del bolscevismo stesso, quale ad esempio il gruppo di Bogdanov.
AR: Lei parla spesso di Lenin come di una figura in contrasto con l’attuale retorica putiniana, eppure il suo legame con l’esperienza sovietica potrebbe renderlo inviso a chi oggi combatte l’espansionismo russo. Come si colloca un personaggio del genere in un contesto che assiste alla formazione di nuove identità nazionali nello spazio post-sovietico? È d’ispirazione perché sostenitore del diritto all’autodeterminazione dei popoli o d’intralcio perché legato a un periodo storico soggetto a rivisitazioni critiche e post-coloniali da parte dei Paesi dell’ex Unione che vogliono prendere le distanze dalla Russia?
GC: Non sono io che ne parlo spesso: è Putin che è fissato! E non solo quando si tratta di Ucraina: in relazione alla Prima Guerra mondiale, ad esempio, il presidente russo ha affermato che la stavano vincendo loro, ma che è arrivata la “pugnalata alle spalle” da parte dei bolscevichi, notoriamente agenti tedeschi; quando nel giugno 2023 Evgenij Prigožin ha tentato di marciare su Mosca con la sua Compagnia Wagner, Putin lo ha paragonato a Lenin che torna a Pietrogrado nel suo treno piombato (anche se il paragone più calzante sarebbe l’avanzata su Mosca dell’Armata bianca di Denikin nel 1919).
Putin, del resto, ha tutte le ragioni di prendersela con uno che poco prima di uscire di scena proponeva di costruire la futura Unione Sovietica sulla base di una sorta di affirmative action a discapito dei russi etnici, perché “occorre non solo l’uguaglianza formale. Occorre compensare, in un modo o nell’altro, con il proprio comportamento e con le proprie concessioni verso gli allogeni, quella sfiducia, quella diffidenza, quelle offese che nella storia passata gli sono state provocate dal governo della nazione ‘grande potenza’”; e ciò perché “l’internazionalismo da parte della nazione dominante, o cosiddetta “grande nazione”(sebbene sia grande solo per le sue violenze, grande soltanto come è grande Deržimorda), deve consistere non solo nell’affermare la formale uguaglianza tra le nazioni, ma anche una certa ineguaglianza che compensi da parte della nazione dominante, della grande nazione, l’ineguaglianza che si crea di fatto nella realtà”.
Noto soltanto come ancora nel periodo della Perestrojka, quando sorsero i primi contenziosi etno-nazionali, chi protestava si appellava sovente ai “principi leninisti” dell’autodeterminazione nazionale: lo fecero i kazaki nel rifiutare un segretario generale etnicamente russo, lo fecero gli armeni del Nagorno-Karabakh che volevano riunirsi alla madrepatria, lo fecero gli osseti in funzione antigeorgiana. È nel periodo postsovietico che l’atteggiamento verso Lenin è diventato nevrotico: si eliminano i monumenti alla chetichella, si camuffa il Mausoleo durante le grandi parate, nei manuali scolastici se ne parla in termini vaghi e criminalizzanti, ma l’ombra di Lenin sguscia fuori a ogni snodo storico: è un continuo “ritorno del rimosso”, tipico sintomo di nevrosi.
Vorrei dire due parole a proposito del dibattito de- e/o post-coloniale da voi evocato. In ambito anglofono e francofono sono temi trattati da molti decenni, a cui hanno partecipato grandi intellettuali, da Frantz Fanon a Edward Sa’id; per quanto riguarda invece lo spazio est-europeo c’è ancora tutto un apparato concettuale da definire: per noi slavisti non è nemmeno tanto chiaro, a tutt’oggi, in che termini si debba porre il concetto di “affinità/alterità” fra le nazioni e le culture slave (a proposito, ne scrivo in un intervento che uscirà sul prossimo numero di “Studi slavistici”). Quanto al concetto di “colonialismo” applicato a quelle realtà – e in particolare allo spazio imperiale russo – la confusione è ancora maggiore: infatti, se in relazione all’Asia Centrale e a parte della Transcaucasia la categoria sembra attinente, già in merito alle province baltiche e alla Georgia il rapporto col centro era di tipo diverso, mentre la questione ucraina mi pare totalmente irriducibile alla categoria di “colonia”.
Dati i tempi, bisogna stare molto attenti a intraprendere simili studi sulla base di categorie ermeneutiche sufficientemente meditate e non sull’abbrivio di un eroico furore pur sorretto da nobili intenti, anche perché rischiamo di subire il condizionamento delle due narrazioni in conflitto, a mio parere ugualmente tossiche. Da una parte, l’ideologia putiniana presenta “i russi” come una categoria ontologica e sovratemporale alla cui comunità di destino “gli ucraini” imprescindibilmente partecipano anche se non lo sanno, per amore o per forza: basterà dare loro una serie di energici sgrolloni perché siano costretti a ricordarsene. D’altra parte, in campo ucraino si va elaborando – e non dal febbraio 2022! – una narrazione secondo cui “ucraini” e “russi” sono ontologicamente opposti e inconciliabili: europei, illuminati e civilizzati gli uni, asiatici, ottenebrati e barbarici gli altri. In questa ottica, tutte le fasi storiche vissute dai due popoli in una qualche forma condivisa vengono visti come pura e semplice oppressione coloniale, e tutti coloro che a qualsiasi titolo hanno combattuto contro “i russi” fanno bene o male parte dell’album di famiglia, per quanto aberrante possa essere stato il loro operato: ricordo le recenti, incresciose ovazioni tributate dal parlamento canadese al reduce delle Waffen-SS Jaroslav Hunka, alla presenza di Volodymyr Zelens’kyj.
In un simile contesto ideologico, il dibattito sulla “decolonizzazione” minaccia di essere condotto non secondo discernimento, dialettica e indagine storica, ma a colpi di kuval’da, se non peggio.
AR: Come immagina un’ipotetica ricezione del suo libro in Russia?
GC: Un lettore russo interessato al tema ha, ovviamente, la possibilità di accedere a risorse bibliografiche sterminate. Ma, come ho appena detto, la “sindrome Lenin” ha in Russia un carattere nevrotico o addirittura schizofrenico: la mummia riposa nella sua teca di cristallo come un novello mago Merlino, il Paese è ancora disseminato di suoi monumenti, la regione di Pietroburgo si chiama Leningradskaja, a capodanno tutti guardano il film Ironija sud’by, dove “Leningrad… Leningrad…” è un mantra continuamente ripetuto, ma i bambini imparano a scuola che quest’uomo era nient’altro che una spia tedesca, una specie di Terminator mandato dal feldmaresciallo von Hindenburg a massacrare la Patria. In un simile contesto, forse il punto di vista più distaccato di uno straniero potrebbe forse essere di una qualche utilità.
Inoltre, recuperare e ripensare i concetti di militanza, organizzazione politica, radicalismo sociale, internazionalismo e antimperialismo sarebbe di vitale importanza in un Paese che, prima ancora di un deficit di democrazia, soffre di una società civile atomizzata e di un sistema economico ingiusto, sbilanciato e senza alcuna tutela sociale o garanzia sindacale. Rimettere al centro della lotta politica le rivendicazioni sociali sarebbe utile anche per un’opposizione a Putin che per il momento non offre alcuna alternativa al liberismo sfrenato che funesta il Paese dal 1992 e che a mio parere blocca ogni progresso civile: lo stesso Aleksej Naval’nyj, nell’ultimo intervento prima della morte, ha criticato in modo duro e circostanziato le privatizzazioni selvagge degli anni Novanta, mostrando così di abbracciare una tendenza almeno potenzialmente socialdemocratica (vedine l’analisi da parte del mio amico Giovanni Savino).
AR: Concluderemo con una riflessione che ci riporta ad oggi, ai lettori che si affacciano alla figura di Lenin in occasione del centenario. Ripellino rendeva i versi di Majakovskij con un “Lenin è vivo / non un urna”! (Ленин / итеперь /живее всех живых), la Russia e gli altri Paesi nati dalla dissoluzione dell’URSS sono cosparsi di pamjatniki come la monumentale diga kyrgyza di Kirkov. Che ruolo ha oggi Lenin e, nello specifico, che funzione assume nei confronti del lettore italiano?
GC: Questo non devo dirlo io oggi a parole, ma dovrà mostrarlo il “lettore italiano” (e non solo italiano) con le sue lotte future.