Federica Florio
“Era così semplice il mondo cento anni fa, molto prima che in Bosnia i bosniaci si mettessero a sparare ai bosniaci, e a questo punto nessuno ci ha capito più niente.” (p. 9)
Sono queste alcune delle frasi con cui inizia l’ultimo libro di Goran Vojnović, Zbiralec strahov (“Il collezionista di paure”, 2022), pubblicato in Italia nell’ottobre 2023 dalla casa editrice Forum. La traduzione e la postfazione sono state curate da Patrizia Raveggi, che si era già occupata in precedenza di altre opere dello stesso autore, tra cui Čefurji raus! (“Cefuri Raus! Feccia del sud via da qui!”, 2015) e Jugoslavija, moja dežela (“Jugoslavia, terra mia”, 2018).
Goran Vojnović, nato a Lubjana, classe 1980, è un affermato regista e scrittore del panorama culturale e letterario sloveno. Negli ultimi anni è risultato finalista per molti riconoscimenti, fino a vincere con Jugoslavia, terra mia il Premio Angelus nel 2020 per la migliore opera mitteleuropea tradotta in polacco. Fa parte di quella generazione che ha vissuto il crollo della Jugoslavia durante il periodo adolescenziale: un evento estremamente drammatico in una fase della vita già di per sé critica. Come tanti suoi coetanei – e non solo – porta su di sé i segni del trauma della guerra e della perdita della propria identità, rendendoli protagonisti delle sue opere.
Link al libro: https://forumeditrice.it/percorsi/lingua-e-letteratura/s-confini/il-collezionista-di-paure
Il collezionista di paure è una raccolta di diciotto racconti suddivisi in cinque sezioni. Più che di racconti, forse si potrebbe parlare di saggi o riflessioni, di pensieri messi per iscritto nel tentativo di trasformarli in una valvola di sfogo, in acchiappasogni che possano catturare le paure che per anni lo hanno accompagnato. Sono stati quasi tutti scritti e pubblicati tra il 2014 e il 2021 su diverse piattaforme e in diverse lingue, finché non sono stati rielaborati per l’edizione libraria, che ha visto la luce in Slovenia nel 2022. Con uno stile narrativo influenzato dall’esperienza da sceneggiatore, Vojnović ripercorre le tappe della propria vita, dall’infanzia ai giorni nostri, ridefinendo il proprio rapporto con il conflitto che ha lacerato la sua terra natia, costringendolo a rivalutare continuamente la propria identità e a riflettere su di essa. La disgregazione della Jugoslavia ha comportato non solo il crollo di uno Stato, ma anche di una cultura ricca e piena di sfaccettature: sono nati confini dove prima era riconosciuto un unico popolo e molti sono diventati stranieri nelle loro stesse case.
L’emigrazione è uno dei temi centrali dell’opera. Il giovane Vojnović, ancora adolescente, si ritrova ad affrontare il disagio della non-appartenenza, della mancanza di una Patria che possa riconoscere come sua. Arriva a definire la sua estraneità come vera propria essenza, fino a giungere alla formula “Non appartengo, dunque sono” (p. 21). Nel racconto Un ragazzo al ballo della scuola, i suoi compagni gli affibbiano l’appellativo cefur, termine dispregiativo sloveno che veniva utilizzato per indicare gli immigrati provenienti dalle Repubbliche meridionali dell’ex Jugoslavia. Infatti, malgrado sia nato e cresciuto a Lubjana, Vojnović è figlio di immigrati: il padre viene dalla Bosnia, la madre dall’Istria croata. Indossa l’etichetta di cefur con orgoglio, quasi trasformandola in uno scudo, ma il senso di non appartenenza continua a logorarlo, perché difatti non ha mai lasciato la sua terra natia. Non è un apolide, non è stato bandito da nessun luogo; al contrario, continua a vivere nel luogo in cui è nato, nello stesso appartamento di sempre. Quando parla di Patria, si riferisce a “una geografia emozionale, a uno spazio che è reale e non lo è, che in parte esiste ancora e in parte non esiste più, che scompare e riappare allo stesso tempo” (p. 18).
L’insicurezza dovuta alla definizione della propria identità si riflette direttamente sulla lingua. Anche la sua lingua d’origine, di fatti, si è disintegrata al pari dello Stato jugoslavo, facendo però molto meno rumore. Costretto a fare i conti con il multilinguismo, l’autore si ritrova a comprendere quattro lingue diverse – croato, bosniaco, serbo e montenegrino – ma il suo idioma, quello con il quale è cresciuto, non esiste più, o almeno non esiste ufficialmente. Si sente così costretto a modificare il proprio modo di parlare in base agli interlocutori, rimodulando accenti e modificando di volta in volta il lessico, alla continua ricerca del termine più appropriato. È costretto, in questo modo, a tradurre se stesso e ad auto-correggersi, senza mai potersi fidare del tutto di se stesso. Risulta arduo perfino trovare il modo giusto per riferirsi alla Jugoslavia senza essere accusati di mitizzare il passato:
“Quando usavo il termine ‘Jugoslavia’ per definire la mia terra natia, dovevo sempre sottolineare che non stavo parlando dello Stato della Jugoslavia, che non stavo parlando di quella sfortunata federazione socialista che ancora oggi, trent’anni dopo la sua sanguinosa disintegrazione, continua a creare agitazione e turbamento. […] Ma non mi ascoltavano, e sono stato etichettato come jugonostalgico. Io, che avevo undici anni quando quello Stato è crollato, e che ero riuscito a legarmi emotivamente solo alle nazionali jugoslave di calcio e pallacanestro.” (p. 17)
Altro tema centrale, che appare a più riprese nei racconti di Vojnović, è l’Unione Europea. L’autore ne parla in modo spietato, dando voce al rancore, alla delusione e alla rabbia che i suoi compatrioti – se possono definirsi tali – covano nei confronti dei vicini europei. D’altronde, è impossibile parlare del conflitto balcanico senza citare la strage di Srebrenica, quando oltre ottomila cittadini bosgnacchi vennero massacrati nel mese di luglio del 1995. Una carneficina avvenuta sotto gli occhi dell’ONU e dei vicini Stati europei che continuano a definirsi giusti e umanitari, a ripetere da settant’anni “never again”, salvo poi distogliere lo sguardo nel momento in cui l’orrore dei genocidi torna a ripetersi. La denuncia dell’autore nei confronti dell’apatia europea non è che l’ennesimo urlo di dolore di un popolo che ha perso la fiducia nella rete che dovrebbe collegare le varie nazioni in una rete di collaborazione e di difesa dei diritti umani. Impossibile, dunque, non confrontare la disgregazione della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia con quella dell’Unione Europea, per quanto possa sembrare assurdo e incomprensibile. Eppure, come fa notare Vojnović, c’è chi è già pronto, almeno inconsciamente, e questa possibilità, soprattutto coloro che sono testimoni dell’esperienza jugoslava: è difficile farsi sorprendere dopo aver sperimentato gli orrori di una guerra civile genocida come quella avvenuta in Bosnia. L’immagine che prevale nei racconti è dunque quella di un’Unione che sta diventando sempre più estranea a se stessa, troppo disgregata e troppo lontana dal resto del mondo; troppo lontana da Srebrenica, dalla Palestina, dall’Ucraina e da qualsiasi altro conflitto. In altre parole, “un continente remoto che non vuole capire un tempo che si è fermato e un dolore che non si placa” (p. 72).
L’analisi storica e sociologica di Vojnović appare tanto dura quanto lucida. L’utilizzo di racconti brevi, che spesso appaiono come mere riflessioni, si rivela senza dubbio una scelta azzeccata, consentendogli di esprimere liberamente timori e dubbi che molti covano, senza eccessi e senza cedere alla scabrosità. Benché rischi a volte di risultare ripetitivo, Il collezionista di paure fa dello stile fluido e semplice dell’autore il suo cavallo di battaglia, nel tentativo di avvicinarsi alla mente di chi legge. Facendo leva su eventi ancora troppo recenti per essere dimenticati – o forse no? – crea un’immagine precisa e aspra del mondo che lo circonda, delle incomprensioni identitarie e dei timori che continuano a seguirlo ovunque vada.
Apparato iconografico:
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