Nel settembre 2023 è stato dato alle stampe per i tipi di Edizioni Intra il volume Russia incatenata. Viaggio tra le prigioni della letteratura e della realtà di Francesca Legittimo.d L’autrice insegna attualmente letteratura e lingua russa presso lo IULM e la SSML Carlo Bo di Milano. Tra le sue pubblicazioni precedenti si segnala La sfinge russa, saggio sulla cultura russa uscito per Hoepli nel 2020.
Link al libro: https://edizioni.intra.pro/prodotto/russia-incatenata/
Spesso, approcciandosi a una letteratura, ci si chiede come districarsi in essa, quali percorsi seguire, a quali testi avvicinarsi. Ancor più spesso, avvicinandosi alla letteratura russa il lettore sceglie un percorso attraverso i grandi “classici”, prediligendo opere che hanno avuto una determinata diffusione o una specifica tradizione nella sua cultura di partenza. Prendendo a riferimento il contesto italiano, due esempi, a tal proposito, sono Anna Karenina di Tolstoj o Le notti bianche di Dostoevskij, la cui diffusione è dovuta anche alle trasposizioni cinematografiche che hanno reso loro (più o meno) giustizia, dalla più recente Anna Karenina di Joe Wight con Keira Knightley e Jude Law (2012) a Le notti bianche in bianco e nero di Luchino Visconti (1957) che si chiude con un giovane Mastroianni intento ad accarezzare un cane di fronte a un distributore di benzina Esso. Un’altra possibilità consiste nel proiettarsi in un nuovo contesto letterario procedendo attraverso un percorso basato sull’evoluzione di un genere (ad esempio, quello fantascientifico), o immergendosi appieno in una stagione letteraria precisa, si pensi solo a quante possibilità il Novecento russo offre. Un’ulteriore modalità corrisponde, infine, a un approccio basato su temi specifici, topoi che permeano lo sviluppo di una determinata letteratura. All’interno del panorama russo sono molti i temi che si possono identificare e attraverso i quali costruire percorsi di lettura. Ad esempio, un tema quanto mai interessante è quello del rapporto generazionale tra padri/madri e figli, il quale, trovando il suo autore di riferimento in Ivan Turgenev con il celebre Otci i deti (“Padri e figli”, 1862), si ripropone in opere come Žizn’ i sud’ba (“Vita e destino”) di Vasilij Grossman, Na zolotom kryl’ce sidelo (“Sotto il portico dorato”, 1987) di Tat’jana Tolstaja o Medea i ee deti (“Medea”, 1996) di Ljudmila Ulickaja. All’interno del suo saggio, Legittimo propone un percorso attraverso la storia della letteratura russa basato su un’indagine del topos della prigione, elemento presente in abbondanza da Avvakum alla contemporaneità:
“E così la prigione risulta sempre presente nell’immaginario collettivo, sia come luogo concreto sia come allegoria dell’impossibilità a priori della libertà.” (p. 139)
La prigione è una dimensione tremendamente attuale nella quotidianità del regime putiniano, si pensi solo a quanto siano diventati importanti “gli ultimi discorsi”, i poslednie slova, pronunciati nei tribunali russi da parte dei condannati – alcuni dei quali raccolti in italiano nel volume Proteggi le mie parole, curato da Sergej Bondarenko e Giulia de Florio per i tipi di E/O nel 2022. Recita bene, a tal proposito, il sottotitolo scelto da Legittimo: “viaggio tra le prigioni della letteratura e della realtà”.
Nel 1940 scriveva Anna Achmatova, qui nella traduzione di Michele Colucci:
“Davanti a questa pena piegano i monti,
non scorre il grande fiume,
ma sono saldi i lucchetti del carcere,
dietro di essi ‘le tane dell’ergastolo’
e un’angoscia mortale.“
Requiem, tra i più celebri di Achmatova, è uno componimento che riesce a incanalare le sensazioni che la dimensione della prigione suscita in colui che ricopre il ruolo di testimone esterno. Si vedano dunque alcune tappe del percorso che Legittimo intraprende nel suo saggio attraverso questa dimensione che anela a “un’angoscia mortale”. Partendo dal Seicento di Avvakum, capostipite non solo del topos letterario della prigione ma della letteratura russa tout court, Legittimo si sposta poi all’Ottocento con Dostoevskij, il cui sottosuolo non è poi tanto distante dalla tana della Vita dell’Arciprete, come osservava lo stesso Andrej Sinjavskij. Dopo la discesa nel sottosuolo dostoevskiano – in cui non mancano riferimenti danteschi -, viene affrontato l’altro grande “maestro” della prosa russa ottocentesca, Lev Tolstoj. L’analisi di Legittimo si concentra su un testo maturo della produzione tolstojana, Voskresen’e (“Resurrezione”, 1899), in cui a dominare sono i concetti di libertà e giustizia, tanto cari all’autore. Con Tolstoj viene introdotta una questione importante, ovvero il fatto che la prigione viene intesa non solo come luogo “fisico”, ma assume anche una dimensione metaforica esistenziale dove la cella è rappresentazione di una vita afflitta da impedimenti e repressioni. Un’efficacie resa di questo concetto è dato dal componimento di Aleksander Wat W czterech ścianach mego bólu (“Nelle quattro pareti del mio dolore”, 1956). Parafrasando i versi del poeta polacco, l’esperienza del dolore implica un completo distacco dalla realtà e viene resa attraverso una stanza buia, priva di vie d’uscita, dove anche la morte – percepita quasi come un sollievo – sembrerebbe non avere alcuna possibilità d’entrare. Contestualmente al topos del carcere, il panorama letterario russo presenta l’ampio bacino della produzione concentrazionaria legata al Gulag. Difatti, parafrasando quanto scrisse Aleksander Gladkov, il tempo della poesia permea anche le prigioni, in quanto finché vi è poesia l’uomo è uomo fino in fondo (“čelovek do konca čelovek“). Nel scegliere la modalità con cui approcciarsi a questa complessa fase della letteratura russa del Novecento, Legittimo decide di concentrarsi sui suoi due grandi protagonisti, Aleksandr Solženicyn e Varlam Šalamov. L’aspetto più interessante di questi due capitoli è l’insistenza su un confronto tra la concezione del lager nei due autori:
“Solženicyn era persuaso del fatto che un nuovo assetto politico e sociale, più giusto, non avrebbe più prodotto tali orrori quali i campi di lavoro forzati; il suo è un pessimismo storico, quello di Šalamov – cosmico. Forse per questo motivo Solženicyn ha avuto successo molto prima di Šalamov: gli uomini sono riluttanti ad affacciarsi sull’abisso. E la Kolyma è una metafora del vuoto, del non-essere.” (p. 88)
Tra i diversi autori che si impegnarono in un confronto con Solženicyn vi è Sergej Dovlatov, il quale, presa posizione sul fatto che con l’autore dell’Arcipelago si fosse esaurito il tema del lager, si accinge a descrivere non le carceri politiche, ma quelle penali – dalla cui esperienza lo scrittore può astrarsi dal reale e comprenderla meglio (p. 9). Inoltre, per Dovlatov la prigione si estende oltre le sue istituzioni concrete, in Zona. Zapiski nadziratelja (pubblicato nel 1982 e edito in italiano da Sellerio col titolo “Regime speciale”) scriveva: “Secondo Solženicyn il campo di prigionia è l’inferno. Io invece penso che l’inferno siamo noi“. Passando per Iosif Brodskij e sottolineando temi fondamentali come quello dell’emigrazione interna o dell’incondizionata accettazione del destino, Legittimo si affaccia agli anni zero, selezionando personaggi che, per ragioni differenti, appaiono controversi: dall’oligarca Michail Chodorchovskij agli scrittori Eduard Limonov e Zachar Prilepin. In riferimento a Obitel’ (“Il monastero”, 2014 – romanzo molto discusso sia per il suo valore letterario che per le posizioni politiche del suo autore), Legittimo risolve il mosaico di riferimenti che legano il romanzo di Prilepin ad altre opere affrontate precedentemente. Il risultato è un dialogo prolifico tra i protagonisti della monografia, già presente in altri passaggi come in quello in cui l’autrice mette in relazione Una giornata di Ivan Denisovič e la Resurrezione tolstojana. Questa prima parte della monografia prettamente letteraria è un percorso attraverso capitoli che, dialogando fra loro con uno stile scorrevole e chiaro, costruiscono un percorso efficacie.
Particolarmente rilevante è il capitolo che dà il titolo al libro, “Russia incatenata”, nel quale l’autrice, riprendendo un approccio già presente ne La sfinge russa, riflette circa alcuni aspetti legati alla dimensione della prigione meno afferenti al contesto prettamente letterario. Ad esempio, Legittimo fa riferimento al fenja, il gergo criminale e carcerario di epoca zarista, mostrando come esso, vantando un numero rilevante di vocaboli, possa essere a tutti gli effetti considerato una lingua autonoma, tanto da poter essere utilizzato per tradurre interi componimenti. Inoltre, vi è un riferimento alla subcultura carceraria e all’influenza che essa esercita nei confronti della quotidianità, soprattutto in un contesto in cui l’assottigliarsi della distanza tra le due porta a una criminalizzazione della seconda:
“Perché se è vero che la linea di demarcazione tra prigione e ‘mondo libero’ si è fatta sempre più labile, ciò non ha condotto, purtroppo, ad una umanizzazione della vita carceraria, ma piuttosto ad una criminalizzazione della vita quotidiana, fenomeno esploso a partire dagli anni ’90, quelli che vengono chiamati gli ‘anni selvaggi’.” (p. 137)
In contrapposizione a una mancata “umanizzazione” della dimensione carceraria, Legittimo sottolinea l’emergere di un altro fenomeno, ovvero una progressiva mitizzazione di questa, si pensi solo ai cult della cinematografia russa prodotti tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila. Il prototipo di questo fenomeno è rappresentato dai film di Aleksej Balabanov, dall’intramontabile Danila, il protagonista di Brat (“Il fratello”, 1997), al più grottesco Žmurki (“Mosca cieca” 2005) che, concludendo il ciclo balabanoviano del “banditskoe kino” (cinema dei banditi), narra la vicenda ambientata a Nižnij Novgorod dei gangster Sergej a Sajmon. Esempi di questa mitizzazione si possono trovare anche nei prodotti della serialità destinata al piccolo schermo, come il cult anni duemila Brigada (2002) di Aleksej Sidorov o la più recente Slovo Pacana. Krov na asfalte (“Parola di ragazzo. Il sangue dell’asfalto”, 2023) di Žora Kryžovnikov, serie che dalla sua uscita ha destato non poche polemiche, ricevendo anche l’accusa del Roskomnadzor di aver in qualche modo “romanticizzato la criminalità” (si segnala qui l’articolo di Ksenia Filimonova per “Valigia Blu”). Una buona panoramica di questo fenomeno che tocca gli ambiti della musica e della cultura è offerta da Romano Marra in un articolo pubblicato su Est/ranei, Dai selvaggi anni Novanta agli stabili anni Duemila: protagonisti, eroi e outsiders. Come spiegato da Legittimo, questa fascinazione è “basata fondamentalmente sull’idea che dietro le sbarre finiscono non i ‘malvagi’, ma i ‘disgraziati‘” (p. 136).
Russia incatenata è un volume apprezzabile tanto per l’idea da cui l’autrice lo struttura sia nel modo in cui si dispiega. Il risultato che ne deriva è un modo di intendere la storia della letteratura russa, in particolare della produzione in prosa, che non aderisce a forme “accademiche”, ma che prova a districarsi in una complessa polifonia di voci. Un saggio, quello di Legittimo, adatto tanto agli esperti del settore quanto ai non avvezzi alla letteratura russa, spalancando una prospettiva di indagine innovativa. Per un bilancio finale, le opere evidenziate da Legittimo seguono un fil rouge coerente e potenzialmente ampliabile in ulteriori percorsi d’indagine. Sarebbe infatti possibile, e senza dubbio rilevante, costruire un discorso parallelo attraverso la prima grande “assente” della monografia, ovvero la poesia – come scrive Marina Cvetaeva: “Da lontano il poeta prende parola / Le parole lo portano lontano“. Inoltre, vi sono anche altre forme che, anche per la loro natura di generi “flessibili” nell’assumere non solo una funzione testimoniale ma anche estetica, risultano oggetti adatti a un’analisi analoga. Ad esempio, i già citati poslednie slova o il genere epistolare, che nell’ambito della letteratura concentrazionaria contiene esempi come il più noto Pavel Florovskij o il carteggio di Aleksej Losev e Valentina Loseva, Radost’ na veki. Perepiska lagernych vremen (“La gioia per l’eternità. Lettere dal gulag /1931-1933/”), pubblicato da Guerrini in collaborazione con Memorial Italia nel 2021. Sono anche le seconde grandi “assenti” della monografia, le autrici, ad essere oggetto di un potenziale ulteriore sviluppo, ad esempio Put’ (“Il mio cammino. 1936-1956”, 2012) di Olga Adamova-Sliozberg o Moja Sibir’ (“La mia Siberia”, 1998) di Anastasija Cvetaeva. Tuttavia, queste “assenze” – giustamente inserite tra virgolette – non svalutano il lavoro di Legittimo in Russia incatenata, ma apportano valore a un’analisi ragionata e produttiva.
In chiusura alla monografia l’autrice inserisce una prefazione in cui decide di accludere un’esperienza personale, ovvero l’incontro con Ol’ga Romanova, la quale “ha fondato un’associazione chiamata ‘Russia dentro’. In realtà in russo la denominazione suona ‘Russia seduta’ (Rus’ sidjaščaja) perché in prigione si sta seduti: il verbo è strettamente connesso con la tipologia delle prime carceri russe, quelle dei tempi di Avvakum” (p.157). Una conclusione che, avvalendosi della stretta dipendenza tra elementi storico-culturali e linguistici, rimarca ancora una volta il labile confine tra letteratura e realtà. In conclusione, è forse questo l’elemento centrale di Russia incatenata, la capacità dell’autrice di porre l’enfasi su come quella del carcere sia una dimensione rappresentabile come un nodo in cui letteratura e realtà si condizionano a vicenda.