Federica Florio
“[…] non apparteneva a nessuno, e anche se fosse appartenuto a qualcuno sarebbe stato comunque colpevole.” (p. 8)
È impossibile mantenersi neutrali quando si viene travolti dalla guerra, specialmente se quest’ultima ha le tragiche dimensioni del secondo conflitto mondiale. Lo sanno bene i tre protagonisti di Nebbia e chiaro di luna, “Magla i mjesečina” in originale, di Meša Selimović. Il romanzo, piuttosto breve, è stato pubblicato per la prima volta nel 1965 a Sarajevo. Lo scorso marzo, dopo cinquantotto anni, la casa editrice Bottega Errante ha deciso di pubblicarne la versione italiana, con la traduzione di Dino Huseljić.
Link al libro: https://www.bottegaerranteedizioni.it/product/nebbia-e-chiaro-di-luna/
Meša Selimović, all’anagrafe Mehmed Selimović (1910-1982), è uno degli scrittori più importanti della scena jugoslava dell’epoca, ma anche uno dei meno compresi dai lettori italiani. Autore di racconti, romanzi e sceneggiature, per la maggior parte ispirati all’esperienza della guerra, Selimović riversa nei suoi libri il pessimismo e il fatalismo nei riguardi della vita, assieme alla ferma condanna del conflitto bellico. Lo si potrebbe quasi definire un visionario, dal momento in cui nelle sue opere è possibile prevedere in un certo senso la fine della Jugoslavia – in particolare nei due romanzi più famosi, Il derviscio e la morte (“Derviš i smrt”, 1966) e La fortezza (“Tvrđava”, 1970), entrambi ambientati nella Bosnia ottomana.
Il rapporto dell’autore con la storia del paese natale è innegabile e traspare in ogni opera. Selimović nasce a Tuzla, nell’attuale Bosnia ed Erzegovina, da una famiglia bosniaca musulmana di discendenza serba. Frequenta l’Università di Belgrado fino al 1934, anno in cui decide di insegnare al ginnasio nella sua città di origine, dove rimarrà fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Partecipa attivamente alla resistenza partigiana antifascista, esperienza che lo segnerà profondamente e che influenzerà molti dei suoi racconti. Nebbia e chiaro di luna è ambientato proprio in questo drammatico periodo storico, in un paesino senza nome nell’entroterra jugoslavo.
Al momento della pubblicazione, il romanzo venne spesso descritto come “opera partigiana”, ma si tratta di una definizione fortemente limitante e piuttosto superficiale, per non dire errata. Scopo dell’opera non è infatti schierarsi, bensì farsi portavoce della gioventù intrappolata in una guerra dalle dimensioni enormi, che non prevede vincitori né tantomeno eroi.
La storia è quella di Ljuba e Jovan, una coppia di contadini costretta ad ospitare un gruppo di giovani volontari diretti al fronte per respingere i nazisti. Tra questi miliziani vi è anche un giovane ferito, che viene affidato alle cure di Ljuba; con il passare dei giorni, l’incontro risveglierà il ricordo della vita passata e il desiderio di un futuro diverso, slegato dalla tragica monotonia del presente.
Attraverso uno scambio continuo di voci, i tre protagonisti – la coppia e il giovane partigiano – danno vita a una narrazione di luci e ombre, determinando un equilibrio assai precario in cui lo sfondo della guerra perde sempre più la sua consistenza, lasciando spazio ai drammi personali. Si potrebbe affermare che i veri antagonisti del romanzo siano proprio i ricordi, tanto che le due fazioni – partigiani e occupanti nazisti – appaiono quasi indistinguibili agli occhi del lettore. Per Ljuba e Jovan sono solo un elemento di disturbo, estranei che pretendono e tolgono, lasciandosi alle spalle incertezze e dolore, nonché la perenne angoscia di venire additati in futuro come dei traditori. Schierarsi è impossibile, e dichiararsi neutrali è un desiderio irraggiungibile:
“[…] sarebbe stato bello poter appendere sul tetto una bandiera bianca e non levarla mai, perché tutti sapessero che lui non era in guerra con nessuno, ma quello era, naturalmente, soltanto un folle desiderio, perché a quel punto sarebbe stato in guerra contro tutti, e neanche la sua dura pelle avrebbe potuto sopportare tanto.” (pp. 8-9)
Come accennato in precedenza, i partigiani, al pari degli occupanti, non sono valorosi eroi e non vengono esaltati come tali. Per questo motivo, Dino Huseljić si è riservato la scelta di tradurre con il termine “soldati” i miliziani di entrambe le fazioni, sia per il contesto storico del movimento di liberazione jugoslavo sia per sottolineare l’intenzione da parte del narratore di creare una separazione netta tra la popolazione e i combattenti. I partigiani vengono infatti percepiti alla stregua dei miliziani nazisti, in quanto:
“[…] vivevano da banditi da non si sa quando, senza casa e senza riposo, infliggendo e sopportando la paura […] si sarebbero incattiviti e avrebbero dimenticato l’ordine umano, si sarebbero abituati a dare poco valore alla propria e alla altrui vita.” (pp. 7-8)
Ognuno dei tre protagonisti è caratterizzato da un tormento personale e da una voce diversa con la quale esprimere il proprio dolore e la delusione per una vita che non ha esaudito le aspettative giovanili. Jovan, che riveste i panni del contadino legato inscindibilmente alla sua terra, si aggrappa alla rievocazione della vita dei campi e del placido mondo rurale prima dell’arrivo delle milizie. Sua moglie, invece, si ritrova ad affrontare le memorie risvegliate dalla presenza del partigiano: ricorda la felicità dell’amore giovanile e della vita di città. Tale risveglio, tuttavia, è tutt’altro che dolce: in Ljuba si alternano momenti di appagamento e di frustrazione, dovuti rispettivamente alla riscoperta dei sentimenti e alla consapevolezza di essere rimasta intrappolata in una vita ben diversa da quella che si era immaginata.
Fa da sfondo alla tragedia umana proprio la luna, che illumina, seppur a metà, i pensieri dei personaggi e ne nasconde le intenzioni. Il candore della sua luce crea un netto contrasto con le ombre dell’anima, che rimangono ben celate e protette da occhi indiscreti. Nonostante il narratore sia onnisciente, il lettore si ritrova a procedere per tentativi per comprendere i reali desideri e le paure di Ljuba, Jovan e il partigiano, e la descrizione della luce lunare non fa che enfatizzare questa ambiguità: “La notte era luminosa e calda di chiaro di luna. E propizia per qualsiasi cosa, per il riposo, per la tristezza, per il peccato, per il male.” (p. 120)
Ritratto di Meša Selimović su un francobollo serbo
Nebbia e chiaro di luna è sotto vari aspetti un’opera propedeutica, un’anticipazione della produzione letteraria più complessa di Selimović. È una prosa quasi sperimentale, con cambi repentini della narrazione. Variando i punti di vista, l’autore riesce a descrivere i tre personaggi in modo intenso e dettagliato, dando a ognuno una voce propria. Il linguaggio più “cittadino” del partigiano si intreccia a quello “rurale” di Jovan, creando un idioma che a sua volta viene interiorizzato da Ljuba, assumendo tratti provocatori e beffardi.
La raffinatezza della scrittura si contrappone allo stile veloce e senza pause, che ricalca il flusso di coscienza. Lo stile di Selimović è caratterizzato dal susseguirsi di frasi intervallate quasi esclusivamente da virgole; in questo modo, il lettore non può che percepire l’angoscia, la frenesia e la continua sensazione di pericolo a cui i protagonisti sono sottoposti, nonché la perenne speranza di salvarsi. Ciò che emerge, al di là dell’incomunicabilità tra i tre personaggi, è una musicalità nostalgica che ha il compito di creare l’atmosfera notturna e anticipatoria promessa dal titolo stesso dell’opera.
Apparato iconografico:
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