Niccolò Gualandris
A un anno di distanza dall’edizione italiana di Orsi danzanti (Tańczące niedźwiedzie, 2014) la casa editrice Keller riporta nelle librerie italiane Witold Szabłowski con il reportage Come sfamare un dittatore (Jak nakarmić dyktatora?), pubblicato in polacco nel 2019 e tradotto in italiano da Marzena Borejczuk.
Link al libro: https://www.kellereditore.it/2023/08/25/come-sfamare-un-dittatorewitold-szablowski/
Come sfamare un dittatore è strutturato in modo simile al precedente Orsi danzanti, ella cui prima parte Szabłowski indagava il fenomeno degli orsi ammaestrati in Europa centrale e orientale, estintosi definitivamente tra il crollo dell’Unione Sovietica e l’entrata nell’Unione Europea di alcuni di quei paesi che ne facevano parte. Nella seconda parte del reportage l’autore allargava lo sguardo alle testimonianze di vita di alcuni cittadini di vari paesi dell’ ex-blocco sovietico, di Cuba, dell’Albania e altri di “paesi non allineati” durante la Guerra Fredda per tracciare un suggestivo parallelo tra la condizione degli orsi liberati incapaci di adattarsi alla vita in natura e la delicata transizione politica e sociale di una grossa parte del mondo che ha dovuto repentinamente adattarsi all’economia di mercato e alla democrazia liberale. Il nuovo reportage di Szabłowski mantiene dunque questa dimensione internazionale spaziando su quattro continenti, alla ricerca dei cuochi che hanno sfamato alcuni dei dittatori più sanguinari del secondo Novecento.
L’indice del libro si presenta nella forma di un menù e ogni capitolo compone, dalla colazione al dopocena, una giornata scandita dai pasti a base dei piatti preferiti di Saddam Hussein, Idi Amin, Enver Hoxha, Fidel Castro e Pol Pot. Quello del giornalista polacco è un viaggio avventuroso e disturbante nelle cucine dei Capi, alla conoscenza delle figure misteriose e affascinanti di chi ha avuto l’onere (e per alcuni, l’onore) di sfamare i dittatori.
L’esperienza dell’autore come aiuto-cuoco, in gioventù, sta all’origine di questa curiosità:
“[N]on mi sono mai dimenticato di quanto possono essere affascinanti i cuochi. Sono poeti, fisici, medici, psicologi e matematici. Tutto questo in una sola persona. La maggior parte di loro ha vissuto una vita fuori del comune. È un mestiere che logora. Non tutti sono tagliati per farlo, e io ne sono la prova.” (p. 22)
Mosso dalla volontà di far rientrare la cucina nella propria orbita di vita di giornalista e scrittore, Szabłowski intraprende vari viaggi per il mondo nel corso di quattro anni, alla ricerca dei cuochi, alcuni ritiratisi a vita privata, altri ancora in attività, per scoprire “cosa gorgogliasse nelle loro pentole mentre si decidevano le sorti del mondo” (p. 22). Il risultato di questi incontri è una “storia del Ventesimo secolo dalla porta della cucina” (p. 24), uno sguardo laterale, piacevolmente ironico e al tempo stesso venato da momenti di tensione rappresentativi della tragicommedia umana del Secolo Breve.
La prosa di Szabłowski, accattivante e agile, scorre piacevolmente accompagnando il lettore in un itinerario che tocca molte delle domande che possono sorgere spontanee sull’argomento: “il piatto giusto può influire su una decisione politica?”, “quanto rischia la vita il cuoco di un dittatore?”, “che legame si instaura tra un cuoco e il Capo?”, “quali erano le idiosincrasie alimentari di Saddam Hussein?” Su quest’ultimo punto l’autore raccoglie la testimonianza del cuoco personale di Saddam, il quale racconta della convinzione del dittatore di essere il miglior grigliatore di carne del Paese, come ne è convinto ogni uomo iracheno. Una cena preparata dallo stesso Saddam in onore dei propri ospiti rischia di essere la fine (di carriera e probabilmente di esistenza) del povero Abù Alì quando, colto di sorpresa dalla quantità di tabasco nella carne, si concede una ambigua smorfia alla quale l’ospite subito replica pericolosamente: “cosa c’è… non ti è piaciuto?”.
Altro grande saccente risulta essere Fidel Castro, sempre impegnato a spiegare agli altri come svolgere al meglio il proprio lavoro. A tal proposito, il suo cuoco personale racconta l’ossessione del Comandante per la sua prodigiosa mucca Ubre Blanca, la cui produzione di latte era documentata giornalmente dal quotidiano di stato “Granma”. La volontà di competere con i paesi esteri portò Fidel a istituire un’equipe scientifica per la creazione di un animale ibrido che potesse garantire a Cuba il primato nell’industria lattifera. Il Lìder Màximo, lungi dall’essere un genetista affermato, dispensava quotidianamente consigli e istruzioni per l’allevamento, l’ibridazione e l’inseminazione dei bovini.
Empatia, fortuna, abilità e improvvisazione sono il filo conduttore di questa accorata panoramica sul rapporto dialettico tra cuoco e dittatore, rapporto che vede il bilancio di potere mutare in favore dell’uno o dell’altro a seconda delle situazioni, fino a capovolgersi quando il piatto giusto al momento giusto riesce a salvare un momento sull’orlo della crisi oppure, al contrario, a riaffermarsi prepotentemente quando il cuoco commette un inavvertito errore o è sospettato di avvelenamento.
Sorprendentemente, Come sfamare un dittatore è anche un libro di ricette in cui sono dettagliatamente descritti i procedimenti per cucinare ciasciuno di quei piatti favoriti che danno il nome ai singoli capitoli: zuppa di pesce alla ladrona per Saddam Hussein, capra al forno per Idi Amin, sheqerpare per Enver Hoxha, pesce in salsa di mango per Fidel Castro, insalata di papaia per Pol Pot. Questa apprezzata attenzione non solo cattura la curiosità del lettore ma aggiunge ulteriore valore documentario al reportage. Al di là dell’aspetto culinario, i colloqui rielaborati da Szabłowski hanno la capacità di illuminare alcuni aspetti meno documentati delle vite di alcune delle figure più influenti dello scorso secolo e di umanizzarle, aspetto sempre utile quando ci si approccia alla Storia per non rischiare di sfociare nell’analisi astratta.
Infine, vi è la problematizzazione della soggettività. L’autore si pone il problema della veridicità dei racconti degli intervistati, sia di quelli che si dichiarano tutto sommato soddisfatti della loro attività e che conservano un ricordo positivo dell’esperienza, sia di chi si spreca in elogi e negazionismo delle atrocità commesse dai propri datori di lavoro o, al contrario ne è rimasto profondamente traumatizzato. Tuttavia, non è detto che la verità stia sempre nel mezzo: se ci sono circostanze in cui risulta doverosa una smentita o un approfondimento, è anche vero che molte delle testimonianze non possono e non potranno mai essere verificate. Szabłowski ritiene legittimo restituire al lettore l’immagine dipinta dai cuochi, affinché essi possano narrare la propria versione della storia nelle modalità che preferiscono e che il loro racconto mantenga la coerenza interna che anni di rielaborazione e rimuginio hanno reso possibile.
Il senso critico e la cultura del lettore sono dunque sempre ingaggiati, in una lettura che si presenta solo superficialmente come disimpegnata e curiosa, celando al contrario interrogativi profondi. Al netto delle precedenti considerazioni, dunque, “non ci resta che fidarci dei cuochi, allo stesso modo in cui ci fidiamo di loro quando mangiamo ciò che cucinano. E, in fondo perché no, ricordarli così come vogliono essere ricordati.” (p. 307)
Apparato iconografico: