“È una vera e propria campagna di liquidazione, non basta scappare”: intervista a David France, regista di “Welcome to Chechnya”

Intervista a cura di Claudia Fiorito

 

Lo scorso 30 novembre la Corte Suprema russa ha dichiarato il “movimento internazionale LGBT” organizzazione estremista illegale in Russia, di fatto legittimando a livello governativo la repressione e persecuzione dei membri della comunità LGBTQ. Gli atti di violenza avvenuti in Russia sono stati oggetto nel corso degli anni di denunce internazionali, intensificatesi soprattutto a partire dal 2017. Negli ultimi anni il giornale russo “Novaja Gazeta” ha ripetutamente riportato (“Andergraund Rivista” ha tradotto da “Novaja Gazeta” questo articolo), quelle che a tutti gli effetti erano, e sono, spedizioni punitive nei confronti dei membri della comunità LGBTQ, spesso culminanti nella morte delle persone coinvolte, soprattutto nella regione della Cecenia

Per un approfondimento sulle ultime decisioni della Corte Suprema russa, si segnala questo articolo di Maria Chiara Franceschelli per “Valigia Blu”.

David France è regista e scrittore statunitense con base a New York, autore del film documentario Welcome to Chechnya (“Benvenuti in Cecenia”) del 2020 ( “Andergraund Rivista” ha scritto del film qui). Assieme alla sua troupe, France ha seguito le attività di volontari di associazioni a sostegno della comunità LGBTQ in Cecenia, nel tentativo di portare fuori dalla regione le persone perseguitate. Dopo l’uscita del film, nel 2022 il progetto Welcome to Chechnya si è evoluto in un podcast, Svoboda (ne) za Gorami (“La libertà (non) è all’orizzonte”), che dà voce alle persone LGBTQ in Russia e nella zona del Caucaso.

Trailer al film: https://www.youtube.com/watch?v=_2KMm49B6pE

Link al progetto: https://www.welcometochechnya.com/

Abbiamo intervistato David France, che ringraziamo per aver accettato il nostro invito.


 

Claudia Fiorito: A partire dal 2017, grazie ai primi reportage di “Novaja Gazeta” in Russia, come quelli di Elena Milašina, le informazioni sulle cosiddette “purghe” ai danni della comunità LGBTQ hanno iniziato a circolare. Masha Gessen, attivista e giornalista russo-americanə, ne ha scritto sul “New Yorker”, e in Europa la notizia ha avuto una grande risonanza in Paesi come la Francia e la Germania, purtroppo non destando clamore nel dibattito pubblico in Italia. La domanda è: una volta a conoscenza di quanto stava accadendo, come vi siete rivolti ai gruppi di attivisti che operano in Russia? Qual è stata la loro reazione nel sapere che un regista americano voleva venire fisicamente in Cecenia a girare un documentario sulle loro attività?

David France: Non ho reagito immediatamente alle notizie emerse nell’aprile 2017. Ho letto gli articoli di cronaca al riguardo e, come dicevi a proposito dell’Italia, negli Stati Uniti la notizia è passata rapidamente in secondo piano. Ricorderai l’inizio molto caotico dell’amministrazione di Donald Trump: molti reporter e media si sono lasciati, credo, intrattenere eccessivamente da Trump e dal suo arrivo molto insolito sulla scena nazionale. I giornali hanno smesso di parlare della questione cecena verso il mese di aprile in Nordamerica, mentre so che hanno continuato in Germania e in parte anche nel Regno Unito.

Masha, essendo interessatə a questioni molto specifiche dato il proprio background, si è recatə in loco per il “New Yorker” nel giugno del 2017 e ha pubblicato il suo articolo poche settimane dopo: si trattava di un reportage che non riguardava solo il genocidio che stava avvenendo in Cecenia, ma anche il modo in cui la comunità LGBTQ in Russia ha risposto in generale, in assenza di qualsiasi tipo di protesta locale o internazionale. E ha risposto costruendo questa rete di rifugi, che serviva a mantenere le persone al sicuro per poi farle uscire da Groznyj, in Cecenia, dalla Repubblica, e infine dalla Russia, perché era chiaro fin dall’inizio che si trattava di persone perseguitate dall’apparato di sicurezza ceceno che aveva intenzione di riportarle indietro. È una vera e propria campagna di liquidazione, non basta scappare: il governo ceceno opera secondo questa disumana filosofia che in qualche modo la persecuzione delle persone LGBTQ “purificherebbe” il sangue dei ceceni.

I protagonisti del reportage di Masha mi sembravano persone straordinarie, che stavano dedicando la loro vita a cercare di fare qualcosa per aiutare. Si trattava di un nuovo punto di vista su questa storia, incredibilmente affascinante per me; così, dopo aver letto il reportage, ho chiamato Masha e lə ho chiesto: “Possiamo farne un documentario?” e Masha mi ha risposto: “Probabilmente no”. Il problema riguardava i pericoli che avrebbe comportato e il fatto che non c’era modo di mostrare nemmeno i volti delle persone che venivano salvate, perché se si fosse saputo che non erano morte le loro famiglie avrebbero subito forti pressioni per cercare di trovarle e riportarle indietro.

Quindi ho proposto di iniziare almeno una conversazione con degli attivisti in Russia, e Masha ha organizzato una videochiamata criptata con le persone del rifugio principale a Mosca, che non parlavano inglese. Io non parlo russo, quindi Masha ha tradotto per noi. Si sono fidati di Masha, perché io e ləi ci conosciamo da decenni, e alla fine mi hanno invitato in Russia per provare a capire cosa potessimo fare. Siamo stati con loro per un paio di settimane, e abbiamo iniziato subito a filmare: la nostra promessa alle persone nel rifugio era che non avremmo rivelato i loro volti o le loro identità, ma non sapevamo ancora come avremmo fatto. Non volevamo girare interviste con persone nell’ombra, con cappucci o altri travestimenti: volevamo essere presenti nella realtà delle loro vite. E fortunatamente, grazie alla fiducia che ci siamo guadagnati con Masha, le persone ci hanno permesso di farlo e di trovare un modo.

 

 

CF: Trovo molto interessante la dinamica dietro le fasi di ripresa e produzione del film. Fin dall’inizio sembra essere una missione impossibile: innanzitutto, immagino, a causa della barriera linguistica. Poi, l’impossibilità di girare con una vera e propria troupe, e infine la necessità di garantire l’anonimato delle ventidue (!) persone coinvolte. Ci sono stati momenti particolarmente difficili da girare? Immagino, soprattutto quando si è dovuto filmare in spazi pubblici.

DF: Abbiamo girato un po’ negli spazi pubblici di Mosca e San Pietroburgo, ma non molto, perché le persone erano tenute nei rifugi per evitare di essere scoperte. Riallacciandomi ad un’altra questione nella tua prima domanda, i volontari stavano mettendo in piedi più di un semplice sistema di rifugi: stavano operando un sistema di salvataggio. Ho iniziato le riprese proprio all’interno dei rifugi, per cui incontravo le persone solo dopo che erano riuscite a scappare grazie a questo straordinario modello di attivismo. Così ho iniziato a chiedere a David, uno dei volontari presenti nel film, di portarmi con lui.

C’è stata una lunga trattativa: abbiamo discusso a lungo di come fare in modo che non solo la mia presenza non comportasse alcun rischio aggiuntivo per lui, la sua squadra di attivisti e le persone che stavano cercando di salvare, ma che potesse addirittura essere vantaggiosa per loro e in qualche modo aiutarli. Una volta d’accordo, ho inoltre dovuto garantire alla mia casa di produzione che se mi fosse successo qualcosa ci sarebbe stata una risposta immediata. Solo dopo tutto questo siamo stati in grado di metterci al lavoro: è stato spaventoso e incredibilmente difficile, ma mi sono sempre sentito la persona meno in pericolo rispetto allə giovanə coinvoltə nelle operazioni di salvataggio.

 

CF: Perché è stato necessario camuffare digitalmente le persone che sono riuscite ad arrivare in Occidente? Significa che anche ora non sono davvero al sicuro?

DF: È proprio così. A seguito della Prima e della Seconda Guerra Cecena vi è stata un’ampia diaspora di ceceni nel mondo: sono molto ben organizzati e governati, in un certo senso, ancora dalla leadership della Repubblica. Come tutti, in Cecenia, hanno ricevuto l’imperativo di partecipare a questo genocidio. Se qualcuno trova una persona cecena al di fuori dell’organizzazione della diaspora si chiede perché, si domanda: “Di chi si tratta?”, e se riesce a farla coincidere con un qualsiasi filmato che abbiamo girato, può immediatamente farla rapire – lo abbiamo visto accadere – e riportare in Cecenia. Quindi le vittime non sono al sicuro in nessun luogo del mondo, e probabilmente non lo saranno mai.

Per questo motivo, abbiamo offerto loro una sorta di “programma protezione testimoni”: man mano che imparavamo a conoscere i loro rischi, abbiamo visto che potevamo aiutarli a raccontare le loro storie senza che ne corressero di ulteriori. Ci è voluto un po’ di tempo – perché non conoscevo la cultura, soprattutto quella cecena – per comprendere appieno il pericolo in cui si trovavano queste persone e come la leadership dittatoriale in Cecenia fosse [e sia ancora oggi] attenta a far sì che le proprie direttive vengano eseguite.

Non solo abbiamo coperto i volti, i nomi e le voci delle persone, ma non abbiamo nemmeno rivelato dove queste si fossero spostate, anche se il documentario le segue in altri paesi. Inoltre, abbiamo usato espedienti registici per includere “falsi indizi” in tutto il film su dove potessero essere. A volte abbiamo dovuto cambiare i vestiti delle persone in post-produzione; altre volte abbiamo dovuto cambiare qualcosa di più, come gioielli o qualsiasi elemento specifico del loro aspetto che potesse suggerire che si trattasse di loro; c’è un ampio utilizzo di VFX.

Un altro esempio: quando abbiamo seguito alcuni di loro nei loro nuovi appartamenti, abbiamo dovuto fare attenzione ad ogni cosa, ad ogni pixel dell’inquadratura, per vedere se c’era, per esempio, un olio d’oliva che viene venduto solo in un determinato paese o regione, e l’etichetta poteva rivelarlo. Quindi, toglievamo l’etichetta o ne applicavamo una nuova. Lo stesso abbiamo fatto con tutti i prodotti o gli elettrodomestici. A volte c’erano persino persone che attraversavano la scena, la cui sola presenza suggeriva, etnicamente, il luogo in cui ci trovavamo. Quindi, dovevamo rimuovere queste persone dal film, per evitare che costituissero degli indizi sul paese in cui andare a cercare le persone perseguitate.

 

 

CF: Maksim Lapunov è stato il primo omosessuale ceceno vittima di violenze a decidere di farsi avanti e portare il suo caso alla Corte Europea dei Diritti Umani. L’analisi del suo caso è stata rallentata a causa della pandemia. Cosa è successo dopo?

DF: La denuncia stessa è andata in fumo, perché la Russia si è ritirata dall’OSCE [Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, N.d.R] e da altri organismi internazionali che la rendevano vulnerabile a questo tipo di casi, e lo ha fatto durante la pandemia come parte della sua campagna di isolamento e di demonizzazione dell’Occidente in preparazione dell’attuale guerra. Quindi, senza l’adesione all’OSCE non era più soggetta a questi meccanismi di applicazione della giustizia. [Nel settembre 2023 la Corte Europea dei Diritti Umani ha riconosciuto le torture inflitte a Lapunov e ha condannato la Russia in quanto responsabile di non aver condotto indagini sul caso, e di aver anzi negato la matrice omofoba dell’aggressione, N.d.R.].

 

CF: Passiamo a tempi più recenti. Come era prevedibile, la pandemia da Covid-19 e il conseguente isolamento hanno peggiorato le condizioni delle persone LGBTQ in Cecenia: lasciare il Paese è diventato impossibile. Dopo la pandemia, i volontari hanno potuto riprendere le loro operazioni con la riapertura delle frontiere? Come è cambiata la situazione dopo l’invasione su larga scala dell’Ucraina nel febbraio 2022?

DF: Hai ragione nel dire che è molto più difficile oggi portare avanti le operazioni di salvataggio di quanto non fosse durante le riprese del documentario. Durante la pandemia il sistema delle case-rifugio era ancora in funzione, anche se era molto più difficile muoversi nel paese e viaggiare in aree remote della Cecenia per portare fuori le persone. Sono stati sviluppati metodi diversi, affidandosi, ad esempio, a collaboratori locali.

A seguito del febbraio 2022, per le persone conosciute come attivisti LGBTQ – quindi tutti quelli con cui abbiamo collaborato per la realizzazione del film – è diventato chiaro che erano a rischio non solo per il lavoro che stavano svolgendo contro Kadyrov, ma anche per il solo fatto di essere gay.

C’è un’ulteriore spinta da parte del Cremlino a continuare a colpire la comunità come strumento politico, per generare rabbia e confusione tra i russi al fine di giustificare la guerra in Ucraina che si basa in gran parte su una campagna contro i valori occidentali, incarnati nella propaganda del Cremlino soprattutto dalla comunità LGBTQ. Perciò, molti se ne sono andati rapidamente, anche prima dell’annuncio della mobilitazione nel settembre 2022. Questo rende il loro lavoro ancora più difficile, anche se continuano a farlo a un livello molto più piccolo. Nonostante il ruolo centrale che ha avuto nell’invasione, nell’espansione militarizzata della Russia, Kadyrov sta tuttora supervisionando questa campagna di liquidazione in Cecenia che viene portata avanti ancora oggi: una persona è scomparsa qualche mese fa, lo abbiamo saputo perché è tornata in Cecenia per partecipare al funerale di un membro della sua famiglia e da allora non è stata più vista.

 

CF: Come si è svolto il processo di distribuzione del film in Russia e nei paesi di lingua russa? Avete ricevuto riscontri da quei paesi? È possibile, oggi, vedere il film in Russia?

DF: Sapevamo dall’inizio che avremmo avuto problemi a distribuire il film, perché per proiettarlo in Russia è necessario ottenere una licenza dai loro uffici censori, ed era chiaro che questo film non la avrebbe ottenuta. C’è sempre stata una sorta di eccezione per i festival; molti film LGBTQ hanno partecipato a festival in tutto il paese, ma sapevamo che per il nostro non sarebbe stato possibile: ne abbiamo anche discusso con alcuni organizzatori, e anche loro ci hanno detto che non era fattibile. In ogni caso, volevamo che il film fosse disponibile: è stato piratato molto rapidamente, in Russia ha avuto un numero enorme di visualizzazioni su YouTube ed è finito su VKontakte. Tuttavia, volevamo che il film fosse visto da persone che avevano bisogno dell’incoraggiamento, del senso di ispirazione che il film è in grado di dare: volevamo che fosse disponibile per la visione in ogni casa.

Il nostro distributore nel Regno Unito era la BBC, e abbiamo elaborato con loro una strategia per avvicinarci a BBC News Russian e, in ultima analisi, per far uscire il film sul loro sito nella sezione “news”, che non è regolamentata allo stesso modo dei film. Così l’hanno caricato sulla loro piattaforma, che era disponibile e non era disturbata prima dell’invasione su larga scala in Ucraina.

È lì che abbiamo incontrato il nostro pubblico e siamo riusciti a mostrare il film nel paese. Grazie a ciò, le leadership in Cecenia e in Russia sono state costrette a rispondere in merito alla situazione. In Cecenia hanno persino sponsorizzato un documentario, su Groznyj TV [Il canale televisivo ufficiale del governo ceceno, N.d.R.], su quanto il nostro film fosse orribile, sbagliato e falso: il fatto che stessero dando una risposta pubblica era un segno che stavamo davvero facendo la differenza. Il Cremlino ha risposto a due o tre domande in merito: hanno sempre detto di non aver visto il film, ma era talmente parte del dibattito pubblico che sono stati costretti a rispondere. Ora la BBC non è più un agente libero all’interno della Russia. Quindi, temo che dovremo tornare a sperare che il film venga di nuovo piratato per restare nel paese.

 

 

CF: Nel luglio 2022 è uscito il primo episodio del podcast Svoboda (ne) za Gorami (“La libertà non è all’orizzonte”), realizzato dai produttori di Welcome to Chechnya (Alice Henty e Igor Mjakotjn). Il podcast è disponibile in lingua russa su Apple Podcast, Spotify e Yandex Music. Vorrei che ci parlassi di questo progetto, che non riguarda solo la Cecenia, ma coinvolge tutta l’area del Caucaso settentrionale. Qual è il target di pubblico che la produzione aveva in mente quando ha pensato di realizzare questo podcast?

DF: Abbiamo deciso di farlo uscire inizialmente in russo, perché volevamo continuare la campagna di informazione reale sulle circostanze di vita sotto Kadyrov e nella regione. Abbiamo intitolato il film Welcome to Chechnya perché volevamo sottolineare che ciò che accade in Cecenia non rimarrà in Cecenia e che la Cecenia si sta “espandendo”: avevamo intenzione di lanciare questo messaggio ben prima che fosse chiaro che la Russia avrebbe invaso l’Europa con la sua visione del mondo e il suo esercito. Per noi era importante mantenere un dialogo continuo con il popolo russo; per questo abbiamo iniziato il progetto in russo e lo stiamo sviluppando anche in inglese. Non abbiamo piani mediatici per il debutto del progetto, ma per noi fa parte di un’iniziativa più ampia.