Claudia Fiorito
Cosa farsene di un Dio? Sembra essere questa la domanda alla base del film del film di Tinatin Kajrišvili, Citizen Saint (Mokalake Tsmindani), presentato in concorso alla 57° edizione del festival di Karlovy Vary ed entry ufficiale della Georgia come candidatura al miglior film straniero per la cerimonia degli Oscar 2024. La regista georgiana era già nota al pubblico occidentale, avendo partecipato due volte alla Berlinale con i suoi precedenti lavori: Brides (Patardzlebi, 2014), un debutto semiautobiografico incentrato sul sistema giudiziario e penitenziario georgiano, e Horizon (Horizonti, 2018), incentrato sul viaggio personale di un uomo ritiratosi in solitudine a seguito del proprio divorzio.
La trama del film, che ha ricevuto l’encomio della Giuria Ecumenica al festival di Karlovy Vary per il suo tema fortemente legato alla fede, si svolge in un villaggio remoto della Georgia, dall’economia basata sull’attività di estrazione mineraria. La comunità che lo abita venera con fervente adorazione la statua di un Santo minatore crocifisso, il cui faretto posto sul casco, ad indicare la guida per la sopravvivenza del villaggio, viene acceso tutte le notti e spento al mattino da Berdo, un uomo ormai anziano che vive da eremita in una delle cave della miniera, incapace di superare la sofferenza della perdita del figlio avvenuta durante una rischiosa procedura di estrazione, tragedia di cui Berdo si ritiene responsabile.
Tuttavia, a seguito di un’operazione di restauro, la statua del Santo scompare e, dopo giorni di ricerche inconclusive, un nuovo visitatore entra a far parte della comunità del villaggio, e tutti gli abitanti lo riconoscono immediatamente: è la statua incarnata del Santo, sceso dalla croce per incontrare i suoi fedeli, pur se privo di parola.
Quello che viene inizialmente accolto positivamente come un miracolo dalla popolazione locale, tuttavia, si rivela successivamente essere solo un atteggiamento di facciata: molto presto, i lati negativi della presenza di una divinità tra gli umani iniziano ad emergere. Il Santo, infatti, conosce tutto degli abitanti del villaggio, avendo ascoltato per anni le loro preghiere, le loro più intime confessioni e, soprattutto, avendoli osservati commettere i loro peccati.
Attraverso le reazioni all’arrivo del Santo dei diversi personaggi che popolano la vicenda vengono toccati diversi topoi legati alla fede cristiana: dal trasporto di Mari che, come una novella Maria Maddalena, è tormentata da un amore carnale per il Santo, al rifiuto del marito di lei che, rimasto paralizzato alle gambe a seguito di un incidente, caccia il Santo dalla sua casa perché le sue preghiere di guarigione non sono state ascoltate. Un gruppo di gangster locali arriva persino a minacciare il Santo per ottenere un posto in paradiso: “se andremo all’inferno ci premureremo di portarti giù con noi”.
Col passare dei giorni, la presenza del Santo comincia ad essere sempre più scomoda agli abitanti del villaggio, finché il sindaco non prende una decisione radicale: in mancanza di un idolo da adorare, per far ritornare l’equilibrio nella comunità serve un nuovo sacrificio. Senza opporre resistenza, il Santo accetta di farsi crocifiggere.
Quella che sembra essere la conclusione della vicenda con il ripristino della situazione originale, subisce un altro colpo di scena: il corpo del Santo scompare nuovamente dalla croce, ma questa volta abbandonando il villaggio per sempre. Credendo che Berdo abbia aiutato il Santo a fuggire, gli uomini del sindaco lo attaccano, decidendo di crocifiggerlo. Alla fine, come lo stesso sindaco afferma: “basta che ci sia qualcuno sulla croce”.
È la prima volta che Tinatin Kajrišvili realizza un film così strettamente legato al tema della religione, particolarmente sentito in Georgia e nelle sue comunità rurali. Più che un tono denunciatorio nei confronti della popolazione della Georgia, tuttavia, l’obiettivo della regista sembra quello di donare alla vicenda una chiave di lettura universale, nel tentativo di mostrare forze e debolezze, sacrifici e meschinità dell’uomo terreno. A conferire una maggiore dimensione di universalità è inoltre l’ambientazione del villaggio, che appare essere sospeso nel tempo, privo di elementi che possano suggerire delle precise coordinate cronologiche.
In una fotografia interamente in bianco e nero dal forte contrasto, l’imponenza del paesaggio montuoso della Georgia fa da sfondo alle vicende con drammaticità, enfatizzando l’oscurità delle miniere in quella che sembra, per i protagonisti della vicenda, una vera e propria discesa agli inferi.