Intervista a cura di Viktor Toth
Roman Ljubyj è nato in una famiglia di artisti a Kyïv e si è formato come regista nella capitale presso l’Università di Cinema e Teatro Karpenko-Karyi. Fondamentale è la sua collaborazione con BABYLON ’13, collettivo ucraino di documentaristi che ha prestato particolare attenzione agli avvenimenti del Majdan. Non è la prima volta che Ljubyj si misura con la questione della guerra, già nel 2020 era stato presentato il suo Zošyt vijny (War Note), documentario realizzato impiegando registrazioni di soldati ucraini girati con l’ausilio di telefonini o GoPro. Lo scopo era quello di “mostrare cosa stava accadendo alle porte dell’Europa” dal punto di vista di coloro che partecipavano in prima persona agli eventi che scuotevano le regioni del Donbas. Zalizni metelyky (Iron Butterflies) ha avuto la sua prima al Sundance Film Festival e, debuttando in Europa alla Berlinale, è giunto anche al Festival di Karlovy Vary.
VT: Come ti è venuta in mente la metafora contenuta nel titolo, Iron Butterflies?
RL: Lo abbiamo deciso insieme all’inizio. Stavamo cercando un titolo per iniziare la produzione del film. Mi è piaciuto sin da subito perché è la descrizione più stringata di come tutte quelle persone sono state uccise. Si tratta di un titolo aggressivo e al tempo stesso poetico. Al Sundance c’è stato un momento parecchio divertente dopo una delle proiezioni. Un signore di una certa età è venuto da me e mi ha detto “quando ho comprato i biglietti pensavo che fosse un documentario su una band rock degli anni Sessanta, gli Iron Butterflies. Ma sono piacevolmente sorpreso, è un gran bel film. Mi sento più vicino alla causa ucraina ora, ben fatto”.
VT: Naturalmente era arrivata la notizia della strage, ma nel tuo film la vicenda viene documentata nei dettagli…
RL: Sì, penso sia molto importante ricordare quanto accaduto. La guerra non è cominciata un anno e mezzo fa, ci sono già stati numerosi episodi terribili sin dallo scoppio del conflitto in Donbas. Non c’era una vera risposta all’accaduto, non ci sono state conseguenze per coloro che hanno abbattuto l’aereo.
VT: Nel tuo film ci sono molti bambini ed elementi legati all’infanzia, come i giocattoli, la scena della collisione descritta con dei disegni…
RL: Sì, è una parte importante del film. Ho una figlia di sette anni. Penso che il lato peggiore della guerra sia il fatto che per i bambini è diventata una condizione di vita “normale”. Per loro è normale giocare con dei giocattoli correlati alla guerra. In Russia è parte della cultura quotidiana, la necessità di avere un nemico e combatterlo per sovrastarlo è parte dell’ideologia del Paese. Sentono il bisogno di un leader forte che li protegga.
VT: La produzione è iniziata prima dell’invasione su larga scala? In che modo ne è stata influenzata?
RL: Sì, abbiamo iniziato il progetto nel 2019. Avevo alle spalle due brevi documentari riguardanti crimini di guerra. Abbiamo deciso di lavorare su questo caso nel 2017 ma era complesso accedere ai materiali, quindi all’inizio utilizzavamo delle open sources.
VT: Nel finale hai inserito anche scene di guerra che risalgono a dopo l’invasione su larga scala, le hai girate tu?
RL: Ho dei materiali riguardanti gli sviluppi della guerra dopo il 24 febbraio, ma non riguardano i combattimenti. Piuttosto, ho filmato dei tramonti o la neve che cade. I filmati presenti alla fine di Iron Butterflies sono stati girati da alcuni miei colleghi. Sembra davvero di trovarsi in una dimensione post apocalittica alla Terminator. Dopo il 24 febbraio a volte mi è sembrato di perdere il senso di questo film. La mia idea era di mettere in guardia gli spettatori sui possibili sviluppi della guerra in Donbas, ma non ha alcun senso mettere in guardia qualcuno su qualcosa che sta già accadendo. Ho quasi perso il senso della mia professione. Questa è una cosa che è accaduta e che continua ad accadere a molti registi.
VT: In che modo l’invasione di larga scala ha influenzato la produzione documentaristica?
RL: Attualmente molti di noi cercano di essere utili per il Paese e per i civili. Io trovo la mia ispirazione in molte cose. Ho in cantiere la realizzazione di un cartone animato per bambini e anche dei progetti in collaborazione con la televisione.
VT: Un’ampia parte del film riguarda la questione delle notizie e delle fake news. Secondo te c’è ancora spazio per la verità?
RL: Penso di sì, che vi sia spazio per la verità. I risultati del processo sono ridicoli, non ci sono state delle conseguenze vere e proprie. Ci sono delle accuse “virtuali” e i colpevoli hanno dovuto pagare una cifra irrisoria, ridicola. Nel documentario la questione legata al processo nei Paesi Bassi è reale, la ricostruzione è accurata. Se parliamo di propaganda, i russi sono molto bravi in questo e hanno una grande esperienza sin dal periodo sovietico. Semplicemente, hanno tante risorse da impiegare, il resto è merda. Quando però devono convincere anche il pubblico internazionale non hanno lo stesso successo nel distorcere i media. Ad esempio, Putin per anni ha negato la presenza di truppe russe sul territorio ucraino.
VT: Hai menzionato che la produzione del tuo film è iniziata nel 2019. In contemporanea è uscito anche Klondajk (Klondike) di Maryna Er Gorbač. Sapevi della sua uscita?
RL: Ho incontrato Maryna al Sundance e ho visto il film lo scorso anno. Non sapevo del suo progetto e penso lei non sapesse del mio. Ma il nostro tema comune mostra in modo evidente la necessità di parlare di questo evento. In molti pensano vi sia ancora qualcosa da dire, nonostante la quantità di film che ne hanno parlato. Io e Maryna ci siamo sentiti parte di un unico team.
VT: Nella tua narrazione utilizzi sia filmati già preesistenti che girati da te, come nel caso delle scene in bianco e nero. La decisione di impiegare di mostrare gli avvenimenti visivamente ed evitare una voce narrante onnipresente a cosa è dovuta?
RL: Semplicemente non sono bravo a parole, preferisco le immagini. Per me era importante narrare tutta la vicenda in modo libero. Ho deciso che l’impiego di coreografie poteva aiutarmi ad andare oltre il nostro sistema di difesa psicologico. Le scene in bianco e nero le ritengo funzionali a mostrare come i militari seguano con indifferenza gli ordini assegnati: è semplice, ti dicono di sparare e tu spari. Nel mio film seguono l’ordine di lanciare un missile e poi, senza volto, si mettono a suonare il pianoforte. Non è semplice capire i russi, non hanno sensi di colpa.
VT: Il fatto che ciò che viene mostrato non è veramente commentato rende il tutto molto più oggettivo in qualche modo. Interessante è anche il tuo uso del suono.
RL: Certo, è uno stile che mi appartiene e che ho già sperimentato nei miei lavori precedenti. Sin dall’inizio ho concepito questo progetto non tanto come il lavoro di un regista ma come quello di un artista visuale, di un musicista.
VT: Qual è il senso della metafora nella scena finale? Ho apprezzato molto il modo in cui mostri alla fine lo spazio aereo sopra l’Ucraina.
RL: Mi piaceva l’idea. Non tanto perché mostra la nostra situazione attuale: siamo una macchia nera dove non ci sono luci e il traffico aereo è interrotto. Ora la situazione è lievemente migliorata. Anche con internet, non è così stabile ma funziona [Ljubyj scherza sul fatto che a Berlino salti spesso la connessione]. Mi piace molto quella scena perché mostra come il nostro pianeta è sormontato da un’incredibile quantità di aerei e il fatto che siamo in continuo movimento. La vita non si può fermare, anche quanto viene a mancare l’umanità, non è mai la fine.
Berlino, 21 febbraio 2023