Elegia da un Paese perduto. “La mia Russia” di Elena Kostjučenko

Sara Deon

 

Lo scorso aprile, Einaudi ha pubblicato in prima edizione mondiale La mia Russia. Storia da un Paese perduto di Elena Kostjučenko (tradotto da Maria Castorani, Martina Mecco, Riccardo Mini, Giulia Sorrentino, Francesca Stefanelli e a cura di Claudia Zonghetti). L’opera si presenta come una raccolta di 13 reportage selezionati dall’autrice, classe 1987, e composti tra il 2008 e il 2022. Ogni reportage, precedentemente uscito sulla “Novaja Gazeta” è introdotto da uno scritto inedito della giornalista, dove riporta riflessioni personali e intime legate a quegli eventi.

Link al libro: https://www.einaudi.it/catalogo-libri/problemi-contemporanei/la-mia-russia-elena-kostjucenko-9788806260187/ 


All’indomani dell’invasione su larga scala dell’Ucraina a opera dell’esercito russo il 24 febbraio 2022, la casa editrice Adelphi ristampò in edizione tascabile le opere di Anna Politkovskaja già edite in Italia: Per questo. Alle radici di una morte annunciata. Articoli 1999-2006, Diario Russo 2003-2005 e La Russia di Putin. Tale operazione fu conseguenza di un aumento della domanda delle opere della giornalista scomparsa nel 2006, uccisa con un colpo di proiettile alla testa nell’ascensore del suo condominio. Redattrice di «Novaja Gazeta» fino al suo assassinio, le inchieste di Politkovskaja sono legate in particolare al secondo conflitto ceceno e agli attentati terroristici al Teatro Dubrovka nel 2002 e nella scuola elementare di Beslan nel 2004, nonché atte a smascherare la connivenza tra oligarchia, mafia e la sottomissione dei giudici del tribunale all’orientamento del governo di Putin. Dietro l’aumento italiano della domanda dei testi della giornalista russa vi era un desiderio diffuso di analizzare e cercare di comprendere cosa stesse succedendo da più di vent’anni in Russia e cosa fosse sfuggito all’Occidente: proprio ne La Russia di Putin, Politkovskaja accusava veementemente l’Europa e gli Stati Uniti che nei primi anni Duemila ammiccavano all’autoritarismo di Putin, nonostante le persecuzioni, torture e uccisioni a danno della popolazione, dei giornalisti e degli oppositori politici fossero già fatti noti a livello internazionale.

È proprio l’incontro e la lettura dei reportage di Politkovskaja sulla Cecenia ad acuire il desiderio di dedicarsi al giornalismo di un’allora giovanissima Elena Kostjučenko che, dopo essersi trasferita a Mosca dalla regione di Jaroslav’, entra a soli sedici anni nella redazione di quella stessa “Novaja Gazeta”, diventando la più giovane giornalista a varcare l’ingresso della principale testata indipendente russa. A distanza di vent’anni da allora, Kostjučenko si è affermata come una delle voci giornalistiche più coraggiose e prolifiche in Russia, nota per avere coperto – tra gli altri – i fatti del 2011 a Jañaözen in Kazakistan, l’invasione della Crimea nel 2014 e la presenza di truppe russe nell’oblast’ di Donec’k e in quella di Luhans’k nel 2015, il caso Pussy Riot, la deportazione delle persone queer in Cecenia a opera del governo di Kadyrov e, più recentemente, la guerra in Ucraina.

La mia Russia. Storie da un Paese perduto ricompone la situazione sociale e politica della Russia contemporanea in tredici tessere di un mosaico, analizzando le discrepanze infrastrutturali come i collegamenti ferroviari tra Mosca e provincia a danno dei lavoratori pendolari (“Mosca non è la Russia, la Russia non è Mosca. A Mosca ci vive un russo su dieci”, p. 50); l’infanzia perduta dei giovani che si ritrovano al ChZB, l’enorme complesso ospedaliero abbandonato di Chovrino; la quotidianità tra abusi e solidarietà delle prostitute di strada; l’oppressione e decimazione della minoranza Nganasan; le lotte e rivendicazioni alla visibilità e all’esistenza della comunità LGBTQ+ in Russia, la catastrofe ambientale a Noril’sk e la sua “apocalisse perenne” (p. 291). Così come racconta il dolore senza risposta o pacificazione delle madri che hanno perso i figli a Beslan nel 2004, descrive anche quello delle mogli che reclamano a vuoto i corpi dei mariti caduti in Donbas, vedendosi negata ogni richiesta giacché secondo la versione ufficiale in quei territori non era in corso nessun conflitto.

Nel capitolo 13, intitolato “La guerra (come si è radicata fino a germogliare), Kostjučenko ricostruisce dall’infanzia all’attualità le tappe della sua biografia personale e come si sono intrecciate al potere russo: dalle infantili discriminazioni di genere durante una battaglia a palle di neve a cinque anni, ai racconti sulla Grande Guerra Patriottica del nonno, la leva obbligatoria e l’arruolamento dei giovani diplomati per la Seconda Guerra Cecena, la guerra in Donbass e in Siria, fino all’annuncio dei bombardamenti su Kyiv.

“Ho quattordici anni e leggo gli articoli di Anna Politkovskaja sulla Cecenia. Cazzo.

Ho quattordici anni e leggo i libri di Svetlana Aleksievič. Cazzo.” (p. 412)

Quella dalla penna di Kostjučenko si profila soprattutto come la ricostruzione di un’auto-formazione personale, tanto politica quanto artistica, che la accomuna a Politkovskaja e Aleksievič: la prima una giornalista, la seconda una scrittrice, entrambe testimoni e strenuamente opposte al controllo ipertrofico del potere, fosse sovietico o post-sovietico. Dai racconti delle madri di Beslan a quelle dei ragazzi-soldato uccisi in Afghanistan, dai civili e prigionieri in zone di guerra, Kostjučenko traccia una cronologia delle violazioni imperialiste del suo Paese, del fango delle guerre, della corruzione e dell’alienazione delle frange più vulnerabili della popolazione.  

Attraverso uno stile asciutto e mantenendo sempre una distanza ravvicinata con le storie e i soggetti che racconta, il punto di vista di Kostjučenko è situato e non è mai neutrale: non lo può essere proprio perché russa, donna e lesbica. Infatti, impegno giornalistico e politico coincidono per l’autrice, che apre ciascun reportage con un racconto personale, delineando un’opera ibrida tra reportage giornalistico e autobiografia, rivelando il legame inestricabile tra la sua storia e quella del suo Paese – lo stesso titolo è una dichiarazione di intenti: raccontare la propria Russia, una nazione che ha sistematicamente tradito i suoi cittadini ma che la giornalista continua ad amare, anche se “è impossibile essere pronti all’idea che i fascisti siamo noi. Non c’è modo.” (p. 416)

Le fotografie di Igor’ Domnikov, Jurij Ščekočikin, Anna Politkovskaja, Stanislav Markelov, Anastasija Baburova e Natal’ja Estemirova sono appese sopra il tavolo che usiamo per le riunioni di pianificazione e per quelle più operative. Ogni volta cerchiamo di appendere l’ennesima foto in modo che non rimanga altro spazio sul muro. Quando non hai modo di difendere te stesso e i tuoi, diventi superstizioso.

Ma poi c’è sempre un nuovo omicidio, e i volti in bianco e nero devono stringersi.
Il posto per il nuovo arrivato si trova sempre.” (p. 279)

All’indomani del 24 febbraio, i timori di Kostjučenko di non potere più scrivere si sono avverati. Nel marzo 2022, in seguito alle minacce di un’azione penale dopo la pubblicazione dei reportage della giornalista sulle azioni dell’esercito russo in Ucraina, la redazione di “Novaja Gazeta” è stata costretta a sospendere l’attività. Da allora i reportage di Kostjučenko dal fronte ucraino sono stati rimossi e lei non ha più pubblicato articoli, dovendo inoltre trasferirsi in Germania per la sua salvaguardia e trovandosi costretta all’esilio. 

Fare giornalismo e dedicarsi alla scrittura come esercizio della verità e smascheramento dei meccanismi assassini e pervasivi del potere: sembra questa la lezione che Elena Kostjučenko ha ereditato da chi prima di lei, come Anna Politkovskaja, ha pagato l’imperativo a dire la verità in Russia con l’ostracizzazione dalla società, le minacce e, in ultima battuta, anche a costo della propria vita, come ricordano le fotografie dei colleghi scomparsi sopra il tavolo della sala riunioni.