Federica Florio
“[…] c’è un luogo da cui tutti, grandi e piccoli, cercano di tenersi alla larga. Si tratta di un vasto campo, a prima vista alquanto gradevole, dove fioriscono dei peri dal fusto basso. Finora non c’è stata una sola annata che questi alberi non abbiano dato frutti.” (p. 39)
È così che inizia la prima descrizione del campo delle pere, luogo che dà il titolo al primo romanzo di , famosa regista, sceneggiatrice e produttrice cinematografica georgiana. Nata a Tbilisi, classe 1978, ha conquistato il grande schermo nel 2013 con In Bloom (“Grzeli nateli dgeebi”), lungometraggio basato sulla sua infanzia, che le è valso numerosi premi e riconoscimenti, nonché la candidatura agli Oscar nel 2014 come miglior film in lingua straniera. Tre anni dopo, in collaborazione con Simon Groß, ha diretto My Happy Family (“Chemi Bednieri Ojakhi”), pellicola che è stata in competizione al Sundance Film Festival e al Festival di Berlino. Nel 2018 ha esordito con Il campo delle pere (“მსხლების მინდორი” in georgiano), edito in Italia dalla casa editrice Voland con la traduzione di Ruska Jorjoliani, anche lei autrice di due romanzi.
Link al libro: https://www.voland.it/libro/9788862434867
Il romanzo è ambientato nella periferia di Tbilisi, in via Kerč, uno stradone costeggiato da caseggiati di stampo sovietico, tra i quali spunta quella che gli abitanti della zona chiamano “scuola dei ritardati”, anche se il suo vero nome dovrebbe essere Scuola-Convitto di sostegno per bambini con disabilità mentali: un orfanotrofio non solo per chi presenta una disabilità intellettiva, ma anche per coloro che non hanno più genitori con la possibilità – o la volontà – di badare a loro. Vengono cresciuti in un ambiente pieno di abusi, negligenza e miseria, tra materassi fatiscenti e cibo di bassa qualità. Tra gli ospiti dell’istituto c’è Lela, che ha fatto della propria rabbia la sua energia vitale. Ormai maggiorenne, potrebbe lasciare finalmente il convitto, ma non prima di aver commesso l’omicidio del suo insegnante di storia, che progetta da quando era piccola. Eppure, finché non troverà il modo per soddisfare il suo più grande desiderio, non intende andarsene da quel luogo brutale e opprimente, forse perché conosce bene la violenza e la sporcizia che vi aleggiano all’interno, mentre il mondo esterno è costellato da troppe incognite a lei ancora sconosciute.
“Ogni volta che Lela è fuori e rientra al Convitto, appena mette piede nel cortile viene sopraffatta da un odore molto familiare. Più si avvicina all’edificio principale, più l’olezzo diventa forte, e la ragazza ha la sensazione di essere raccolta dal grembo fetido dell’istituto.” (p. 35)
La “scuola dei ritardati” è impregnata di odori forti e sgradevoli, come quelli del grasso che appesta la mensa, della polvere antiparassitaria, dei vestiti lavati sempre con il solito detersivo da quattro soldi. È pur sempre però un luogo di cui conosce i segreti e, soprattutto, i pericoli. Per questo motivo, Lela decide di prendere sotto la propria ala i bambini più piccoli e fragili, come il piccolo Irakli, così convinto che la madre, emigrata in Grecia a sua insaputa, prima o poi lo verrà a riprendere da precludersi la sua unica possibilità di una vita migliore al di fuori del Convitto.
Le relazioni interpersonali che si creano tra i personaggi, benché vengano minimizzate continuamente da loro stessi, sono la colonna portante di questo romanzo. All’interno dell’istituto nasce un vero e proprio microcosmo, dove infanzia e adolescenza si mescolano in un tripudio di dispetti, abusi e rivincite. L’atmosfera che si respira dà l’impressione di trovarsi di fronte a un romanzo non solo di formazione, ma anche di denuncia sociale: la banalità della quotidianità si scontra con un duro retaggio sovietico, da cui gli abitanti di via Kerč non riescono ancora a staccarsi.
Come si accennava all’inizio, un ruolo importantissimo nella narrazione viene occupato proprio dal campo delle pere, che si erge all’interno del territorio della scuola, tra la costruzione che ospita i bagni e quella abitativa del convitto. È un luogo che viene citato poche volte nel corso della narrazione, ma che si rivela onnipresente nella vita dei protagonisti; una sorta di osservatore silenzioso, minaccioso e ingannevole.
Nonostante fioriscano e mostrino ogni anno grandi frutti sgargianti e all’apparenza deliziosi, i peri non ricevono visitatori né tanto meno estimatori: gli alberi appaiono “abbandonati dagli umani, coi loro tronchi tozzi, robusti e nerboruti, e i loro rami lunghi, avviticchiati, che arrivano quasi a toccare il suolo” (p. 39). Si ergono su un vero e proprio pantano, che giace nascosto da un prato d’erba invitante e che annacqua il sapore delle pere, privandole di qualunque sapore e rendendole quasi incommestibili: “Se qualcuno ne coglie una e l’addenta, la sente dura come la pietra, e se per caso riesce a intaccarne la superficie, constata che non ha alcuna dolcezza” (pp. 39-40).
Il campo appare come una foresta incantata e falsa, quasi velenosa e con volontà propria, tanto che Lela, quando è costretta ad attraversarla, “ha il battito accelerato e l’assale la paura di non poterne uscire” (p. 40), come se gli alberi potessero agguantarla, intrappolarla tra le loro radici e farla sprofondare per sempre nella melma. Non è un caso che proprio in quel campo vengano consumate molte delle violenze che minacciano quotidianamente la vita dei giovani ospiti dell’istituto. Una natura matrigna inflessibile, che nasconde tra i suoi frutti rilucenti le violenze di cui è testimone e che si rivela indifferente alle richieste di aiuto delle vittime.
Il campo delle pere è impregnato di crudo realismo e rispecchia lo stile cinematografico, potente e immediato, dell’autrice. Pur essendo molto dettagliate e icastiche, le descrizioni evitano accuratamente qualsiasi abbellimento superfluo; vengono coinvolti tutti e cinque i sensi del lettore, e la vita di Lela e degli altri ospiti del Convitto emerge con veemenza. Ne risente un po’ la caratterizzazione dei personaggi, in parte rimpiazzata dal veloce susseguirsi di scene diverse, non sempre ben collegate tra loro. Il continuo passare da un personaggio all’altro, nonché la presenza di numerosi flashback e salti temporali – nonostante siano piuttosto fondamentali per la comprensione del travagliato passato della protagonista – non consentono di delineare accuratamente il carattere dei personaggi principali. Se da una parte le descrizioni servono a denunciare le condizioni di vita dei giovani orfani georgiani, con il preciso intento di scioccare il lettore, dall’altra non sono sufficienti per elaborare un’introspezione completa. Di conseguenza, la voce narrante e quella di Lela si confondono: entrambe spontanee e cristalline, sembrano rifiutarsi di esplorare nel profondo il significato dell’esistenza, di cercare risposte esaustive a domande esistenziali.
Ciò che rimane al lettore è la schiettezza della protagonista, che spesso combacia perfettamente con la ferocia del microcosmo in cui vive; seppur limitandone da un certo punto di vista la profondità emotiva, il risultato finale non è che una storia di soprusi e di rivalse, scorrevole e genuina, degna erede della tradizione letteraria georgiana.
Apparato iconografico:
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Immagine 1: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/d/d3/Nanaekv_-_Nana_Ekvtimishvili.jpg