Martina Mecco
Valerij Panjuškin di professione fa il giornalista, lo scrittore e l’autore radiofonico. La sua collaborazione all’interno di diverse realtà russe dedite all’informazione, come Echo Moskvy o Dožd’, lo ha reso una delle voci più importanti nell’opposizione e nella critica al regime di Putin. L’ora del lupo (“Час волка – Čas volka”), ultimo libro di Panjuškin scritto nel 2022, è stato recentemente pubblicato da E/O nella traduzione di Claudia Zonghetti. La casa editrice ha in catalogo già altre due opere del giornalista russo, risale al 2011 12 che hanno detto no. La battaglia per la libertà nella Russia di Putin e, al 2014, L’Olimpo di Putin (traduzione sempre a cura di C. Zonghetti).
Link al libro: https://www.edizionieo.it/book/9788833575933/l-ora-del-lupo
“Accettare il ruolo di aggressori è una fatica immane. L’unica conseguenza possibile e ragionevole è il suicidio. L’unica cosa che mi ha impedito di suicidarmi nei primi mesi di guerra è stato il compito che mi ero prefisso nella disperazione: scrivere questo libro sui profughi.” (p. 12)
Con queste premesse Panjuškin introduce il lettore al suo ultimo libro, L’ora del lupo. Nella prima parte, l’autore contestualizza la stesura dei reportage che seguono all’interno del suo personalissimo spazio famigliare. In particolare, pone l’accento sul difficile rapporto con il padre, con cui si palesa l’impossibilità di confrontarsi e discutere in merito alla guerra senza scontrarsi con un’incomprensione inevitabile, un’incompatibilità di pensiero. Una situazione tutt’altro che singolare nella Russia odierna, come ben illustrato nel docufilm di Andrej Losak Razryv svjazi (“Legami spezzati”), disponibile con i sottotitoli italiani grazie al lavoro di collaboratori e collaboratrici di Memorial Italia. Tanto nel capitolo introduttivo di Panjuškin quanto in Losak è evidente la presenza di un’insanabile inconciliabilità che attanaglia la società russa nei confronti di quella che il governo ha definito e, tutt’ora, definisce specoperacija (“operazione speciale”). Si tratta di una vera e propria interruzione di legami, seguendo le parole dell’autore: “Mio padre, invece, gridava come un ossesso. Ed è ciò che fa chi è consapevole di una realtà tremenda e non può accettarla, perché accettarla è peggio che morire.” (p. 12) Anche in questa constatazione, cui segue una condanna nei confronti dell’idea quasi “consolatrice” che la società russa sia affetta da una qualche forma di “cecità” e dall’assenza di consapevolezza, è presente un aspetto fondamentale. Il ruolo che svolgono le parole. All’interno del terzo numero della rivista online “ROAR” (Resistance and Opposition Arts Review – Vestnik antivoennoj i oppozicionnoj kul’tury), edita da Linor Goralik, Ksenja Romanenko parla di “un silenzio che tutti capiscono”, di un “silenzio degli eufemismi”. Panjuškin è tra coloro che credono nella necessità di alzare la propria voce contro questo silenzio, che percepiscono come mandatorio il dovere di sollevarsi e di opporsi a un sistema politico che vuole mettere a tacere anche il minimo sussurro. In Russia, come testimoniato in Proteggi le mie parole (altra opera edita recentemente da E/O Edizioni di cui si parlava qui), la voce è diventata uno strumento fondamentale e, a giudicare dalle misure attuate, uno strumento che il Cremlino ha imparato a temere più di ogni altro.
Dopo la sezione introduttiva il libro si apre con il primo capitolo che riprende il titolo, L’ora del lupo, per l’appunto. Panjuškin spiega il significato dietro a questa scelta. L’espressione rimanda al momento in cui è iniziata l’invasione su larga scala dell’Ucraina: quella delicata fase tra la notte e l’attimo del risveglio, quello in cui il sonno del popolo ucraino è stato interrotto dai primi bombardamenti:
“E infatti manca poco all’alba. È l’ora del lupo. L’Ucraina dorme.
Bum!” (p. 14)
I capitoli, redatti nella forma del reportage secondo uno stile ben distinguibile nell’odierno giornalismo russo, che riguardando la condizione dell’Ucraina e del popolo ucraino all’indomani del 24 febbraio, focalizzandosi sulla questione dei profughi. L’autore struttura il suo lavoro su due livelli: contemplativo e meditativo. Difatti, i singoli capitoli contengono testimonianze dirette raccolte da Panjuškin e momenti in cui egli riflette, sulla base di quanto riportato, su questioni correlate. Tra queste, ad esempio, la funzione della testimonianza e la sua stessa identità di cittadino russo. Ogni parte presenta la medesima struttura anche nel modo in cui è concepita: in calce vengono poste, in modo provocatorio, delle comunicazioni rilasciate dai vari ministeri russi. L’effetto riesce: il lettore può così percepire in modo diretto, secco, l’enorme distanza tra la realtà filtrata dall’atteggiamento propagandistico del governo e la realtà narrata attraverso le voci veicolate dalla penna di Panjuškin.
Il pregio dell’opera risiede nella scelta e nella varietà dei temi trattati. Aspetti che tendono, in diversi casi, ad essere posti in secondo piano all’interno dei sistemi e dei canali d’informazione. Particolarmente interessante è, ad esempio, il capitolo dedicato alle difficoltà che coloro che sono affetti da HIV devono affrontare nel momento in cui il conflitto non permette un rifornimento adeguato dei farmaci. Un problema non da poco e che riguarda anche coloro affetti da patologie che richiedono un’assunzione giornaliera di farmaci, come il diabete. Panjuškin non si limita, dunque, a mostrare il conflitto nella sua dimensione politica, ma scava a piene mani nella quotidianità della guerra, mostrando come essa affligge la vita del singolo e delle comunità. Proprio in questo risiede il valore della scrittura del giornalista russo, ovvero nella sua capacità di rappresentare l’umanità nella tragedia senza alcun tipo di pietismo, nemmeno quando è presente un coinvolgimento emotivo. Emotività che, tra l’altro, l’autore non nasconde, ma riesce a bilanciare con la lucidità che lo contraddistingue.
Le testimonianze che vengono riportate provengono da coloro che sono rimasti, in Ucraina, ma soprattutto da chi è fuggito. Come si diceva, diverse pagine vengono dedicate alle condizioni dei profughi: dalla decisione di partire, al viaggio, per poi concentrarsi anche sulle condizioni nello stato che li accoglie. Inoltre, Panjuškin porta anche alcuni esempi che riguardano le modalità in cui, coloro che risiedono all’estero, aiutano chi è rimasto attraverso raccolte fondi, invio di beni di prima necessità. Negli ultimi due capitoli l’autore si concentra sulla condizione di coloro che hanno abbandonato la Russia. Ad esempio, in Un foglio per quando vogliono spararti, viene presentato il caso di Elena Kostjučenko, giornalista di “Novaja Gazeta” che è stata in Ucraina nei primi mesi del conflitto (esperienza su cui sono stati redatti quattro reportage: dal confine polacco, da Odessa, da Cherson e da Mykolaïv). Infine, l’ultimo capitolo chiude nello stesso modo in cui il libro si apre. Con un movimento circolare, Panjuškin parla della sua scelta di abbandonare il suo paese, riportando il lettore nella sua dimensione intima e famigliare.
“Sono ingenuo? A Mariopul’, però, ai bambini che attraversavano la strada hanno sparato alle spalle. E a Buča li hanno giustiziati con un colpo alla nuca, i prigionieri legati.
Alle spalle. Alla nuca.
Credo che anche il più crudele fra gli uomini faccia fatica a uccidere un altro uomo se lo guarda in faccia. Ed è difficile combattere e appoggiare una guerra se si conoscono personalmente i profughi.
Il senso di questo mio libro, credo, è proprio far capire alla gente che anche in territorio nemico vivono degli esseri umani. Qualunque sia il fronte su cui ci si trovi.” (p. 183)
Sono pagine in cui la vera protagonista è la condizione umana una volta oltrepassato il sottile limite dell’umano. L’ora del lupo è, in ultima istanza, un libro corale dove le singole voci raccolte nei reportage vengono riportate da Panjuškin con l’estrema cura di veicolare il peso e l’importanza della verità di cui sono portatrici. Risultato? Un effetto tutt’altro che epidermico.