Ma se ci si muove, ma se ci si siede: i fiorellini sul margine della strada

Bianca Dal Bo

Abstract:

But if you move, but if you sit down: little flowers on the side of the road

Due to some health problems, the Czech writer Karel Čapek was advised to take a rest travelling: he left Prague to wander unhurriedly across a wide, boot-shaped part of the world: Italy. In 1922, soon after being overwhelmed by the unexpected success of one of his plays, R.U.R. (1920), the writer escaped from the notoriety society was giving him and he reached foreign lands. This humble wander and wonder that started in Italy, devoid of goals and obligations, turned out to be a fertile soil for a sincere writing to emerge. The openness to cross a boundary and the entry into another sacred dimension, were occasions for a profound and personal immersive contemplation, experience that he translated into five books: Letters from Italy (1923), Letters from England (1924), Letters from Spain (1930), Letters from Holland (1932), Travels in the North (1936). Focusing on the first and the last book (Italy and the North), this article will be a little journey into Čapek’s travel literature, an attempt to start seeing it as another artistic fragment for his creativity and ethic to re-emerge.

 

Non volevo viaggiare affatto e invece ho girato come un pazzo, con ogni mezzo immaginabile, e soprattutto a piedi, e allorché mi trovai dinanzi al mare Africano mi venne voglia di andare anche in Africa.” (p. 9) 

Inevitabile, per lo scrittore ceco – e, nel frattempo, giornalista, giardiniere, drammaturgo, disegnatore, viandante improvvisato, amico dei fox terrier… insomma, un uomo aperto ad ogni tipo di degustazione disinteressata di sorsi di esistenza – Karel Čapek, lasciarsi accompagnare alle porte di un qualsiasi inaspettato incontro. Nel bel mezzo di una vita – non una qualsiasi, ma quel peculiare e situato segmento di vita che si estese dal 9 gennaio 1890 al 26 dicembre 1938 nei dintorni di Praga e vari altri pezzetti di mondo – si ritrovò a camminare come un pazzo da una passione all’altra, tanto da sentire il desiderio di gettarsi verso le coste dell’Africa. Così continua la citazione dal primo dei suoi libri di viaggio Italské listy (“Fogli italiani”, 1923), in cui abbozza le simpatiche sfumature di un pellegrinaggio sotto seduzione: 

E quindi pellegrinai non solo senza alcuna conoscenza utile, ma anche senza un piano; mi facevo strada con il dito sulla carta geografica, spesso sedotto da un bel nome o dal fatto che in una data direzione il treno non partiva prima delle dieci del mattino, cosicché non dovevo alzarmi presto…” (p. 10) 

Il fatto è, come anticipato, che il dito curioso e sensibile di uno spirito amante, se alle prese con ampie carte geografiche, se sprovvisto di piani sigillati, non poté evitare un costante e insaziabile attraversamento di confini… approfittando, giustamente, di qualche buffa e marginale umana comodità, come dormicchiare al ciglio del giorno fino a un orario ragionevole solo per godersi ancora un po’ anche il calduccio confortevole di un sogno. 

A causa di alcuni seri problemi alla colonna vertebrale, fonte di fastidiosi disturbi psichici, gli venne consigliato di intraprendere un viaggio di riposo, spaziare senza fretta in un ampio punto di mondo a forma di stivale: l’Italia. Negli anni Venti, subito dopo esser stato travolto dall’altrettanto inaspettato successo della sua commedia in un prologo e tre atti R.U.R. (1920), lo scrittore, ormai di fama mondiale ma fidato paladino dei “piccoli”, si concesse una pausa dall’eccelsa notorietà che la società gli andava attribuendo e partì, in una totale disorganizzazione, verso terre straniere. Di certo, non era rimasto fino a quell’anno serrato dentro al suo orticello cecoslovacco, Karel Čapek aveva già avuto la possibilità di visitare altri paesi, altre culture. Quel divertito gironzolare per l’Italia, privo di obiettivi, obblighi o aspettative, si rivelò, però, essere un terreno particolarmente fertile e inatteso per il germogliare di una sincera scrittura. L’apertura all’attraversamento di un limite, lontano da scopi lavorativi, di studio o di mercato, e l’entrata in un’altra dimensione, in un calmo chiostro sacro, furono occasione di una profonda e personale lettura immersiva. Nelle spoglie – tutt’altro che mentite – di lettore, uscito dall’irrefrenabile e inconsapevole fretta del giorno, si vide immerso in una pacifica pausa, in una ferita in carne viva dalla superficiale e condivisa visione del tempo. Scrisse, ancora, in Italské listy

Nel sogno l’uomo non chiede nulla; ma se scorge attraverso una loggia di marmo il più bel giardino che abbia mai veduto e mai vedrà, chiede di potervisi fermare, di smettere di precipitarsi nello spazio e nel tempo e di potersi fermare in mezzo a questo sogno.” (p. 21) 

Trovandosi allo sbaraglio, privo di precauzioni, esposto ad ogni caotica possibilità, il viaggiatore, che si incammini per il minuscolo chiostro di San Giovanni degli Eremiti a Palermo o per le cascate di boschi della Norvegia, si immerge in una dimensione a cui non deve spiegazioni razionali, ma solo la propria partecipativa presenza. Verso la fine dell’ultimo libro di viaggi, Cesta na sever (“Viaggio al Nord”, 1991, ripubblicato nel 2022 da Iperborea) riportò: 

È strano come ci sentiamo in dovere di avere una cosiddetta spiegazione razionale o logica per tutto; qui sulle montagne norvegesi è normale che uno si perda e non se ne ritrovi neppure un bottone; i lapponi dicono che se l’è preso la montagna. Mi hanno trovato solo a un’ora di cammino sopra Narvik, seduto lungo il sentiero che carezzavo quella gatta, la tiravo per la coda ritta e tenevo in mano un topo vivo che la micia mi aveva portato.” (p. 163)

Italské listy, Anglické listy (“Fogli inglesi”, 1924), Výlet do Španěl (“Gita in Spagna”, 1930), Obrázky z Holandska (“Cartoline olandesi”, 1932), Cesta na sever (“Viaggio al Nord”, 1936), cinque furono i viaggi poi tradotti in composizioni non solo di parole, ma anche di disegni. Cinque esperienze che costituirono quasi, come ripetuto nei testi più volte dall’autore, cinque smarginature dal frastuono di un luogo comune, quell’Europa rumorosa tra le guerre mondiali, verso il centro di altri mondi simili al sogno, più autentici ancora delle strade brulicanti di Praga, più concreti ancora degli eventi pesanti della Storia. Nel bel mezzo di questi differenti viaggi, ognuno – viaggio e poi libro – provvisto di una propria personalità, lo spirito contemplativo di Čapek è libero di piegare le ginocchia al giusto momento come un fotografo per osservare con tutto sé stesso e con tutto il tempo necessario ogni elemento che lo appassiona: in Svezia, per esempio, di fronte alla spettrale luce senza origine della notte, l’unica azione sensata si compie nel mettersi in ascolto: Allora si abbassa il tono della voce e si resta seduti.” (p. 44) È, infatti, proprio al di fuori della scatola di significati già assegnati ad ogni evento, che un lettore attento si trova nudo in un tempo eterno, in contatto intimo e solitario con le cose del mondo, riscoprendo in esse un profondo senso proprio. Non serve andare molto lontano, l’Italia, l’Olanda, i Paesi Scandinavi, sono equiparabili a una passeggiata nel giardino che Čapek si costruì dietro la sua casetta a Vinohrady: il valore dell’incontro non sta in cosa si conosce ma nell’accettare un invito di partecipazione, di relazione, messa in gioco, impotenti nelle mani di Dio. Già in Italské listy narra di questo piacere: 

Sali sul tram che va nel senso opposto e, invece che in uno stupido parco con una bellissima veduta, ti ritrovi in un quartiere industriale e girovaghi nella sporcizia inesprimibile di una certa Arenella, sbigottito più che se ammirassi la vegetazione subtropicale dei parchi palermitani. Anche errare ed essere muto ed essere impotente nelle mani di Dio è un grande piacere e un grande viaggio.” (p. 52) 

L’essere muto, lo stare in rispettoso silenzio, si ripresenta anche nello stile delle sue opere: non è assolutamente intenzione di quel pazzo di Čapek rifornire il mercato con ulteriori rumorose guide turistiche utilitaristicamente spendibili in viaggi programmati. Un corpo e i suoi sensi – e la sua penna e il suo inchiostro – camminano in punta di piedi dando vita a esperienze reali, segmenti di realtà localizzati, provvisti di contesto, immagini riflesse su un foglio e poste insieme in un’opera. Ne risultano mappature di posti certamente e consapevolmente incomplete – Čapek non vuole offrire una fredda lista di tutti i monumenti visitabili in una data città – ma con un proprio e ritmato ordine interno, una propria sensata armonia: composizioni.

L’ultima opera di odeporica di Čapek, pubblicata in Cecoslovacchia nel 1939, un anno dopo la sua morte, fu Cesta na Sever, un viaggio intrapreso nel 1936 con la moglie e un amico. Alle porte della Seconda Guerra Mondiale, Čapek attraversò il confine tedesco verso l’amabile Danimarca, una fetta piccola, ma molto ben imburrata” (p. 22), arrivò nella Svezia dalle infinite isole e isolette, un mondo senza continue paure e diffidenze” (p. 44), per continuare a bordo del coraggioso battello Håkon Adalstein fino a Capo Nord. I suoi viaggi di attenta osservazione si chiudono, dunque, con un’apertura verso un Nord conosciuto da sempre (grazie alle letture dei grandi scrittori scandinavi) ma mai esplorato fisicamente: boschi, isole, fiumi, alberi, rocce, mari e ancora rocce e arbusti, le poche persone… un paesaggio delle volte spettrale e ripetitivo che Čapek racconta, però, con amore, senza perdere due dei suoi principali riguardi. Il primo è l’umanità, la dignitosa unicità che riconosce in ogni dove: i saggi meditabondi cavallini danesi come vecchi canuti gli consigliano di non avere fretta, le piccole fattorie svedesi rosse e bianche sono così simili eppure così infinitamente e piacevolmente diverse” (p. 35), ogni paese è caratterizzato da tipi di mucche (e cacche di mucche) differenti, la bellezza delle infinite pietre intagliate dalla natura verso Bergen, gli eserciti di alberi di Narvik di cui qua uno allampanato come Don Chisciotte, là uno grosso e sgraziato come un lottatore giapponese” (p. 174)… Insomma, ognuno possiede un proprio nome e una individualità, così Čapek saluta con rispetto ogni essere che incontra com’è naturale che sia, del resto, secondo la buona educazione dei popoli del Nord: “quando si va per mare nasce una forte solidarietà verso ogni imbarcazione che si incontra; […] anche a terra la gente si comporta in modo amichevole e con dignità, come le navi in mare aperto.” (pp. 145-146) 

La seconda colonna portante del viaggiare di Čapek è lo stupore: ad occhi ben aperti il pellegrino cerca di assaporare ogni boccone quasi fosse un piatto gustoso. Dalle tante riflessioni che la natura gli suscita e che formicolano nel testo a ricordare quel quotidiano ferreo sfondo di guerra, traspare una sensazione di meraviglia. Čapek apprezza, in contrasto con la spocchia del potere, ciò che meno si mostra, ciò che come quella sua amata Repubblica Ceca, quel suo amato giardinetto dietro casa, quel suo amato essere umano, è piccolo, fragile, ma eccezionale: 

Non so perché certe popolazioni debbono sempre sbandierare la loro forza e potenza; attenti a non scoppiare dalla boria! Qui sono venuto a visitare tre popoli, cosiddetti piccoli; e tutto è ben organizzato, e se ci si mettesse a elencare le cose fatte bene, se ne troverebbero assai di più che tra i più grandi potentati.” (p. 200)

Conclude questo viaggio poroso e senza tempo, accettandone la fine e apprezzando ogni piccolezza, ogni pezzettino, seppur sbilenco o disorganizzato, di tragitto: Piccolezze, lo so, ma il viaggiatore coglie un fiorellino sul margine della strada, una piccola cosa, per conservarla nella memoria; ma non dev’essere proprio una piccola cosa se il viaggiatore, in terra straniera, qui si sente più umano e padrone di sé che altrove nel mondo.” (p. 46)

Karel Čapek, infatti, ama e riama, scrive e riscrive, ma, tra le righe, si rivolge a questa umile pratica del sostare e piegare in comunione le ginocchia verso l’Altro facendosi poro, porta e porto del suo essere individuo. Proprio all’inizio del suo ultimo libro scrive sulla pratica della letteratura: 

È questa la particolarità della grande letteratura: di essere ciò che di più radicato possieda un popolo e, nello stesso tempo, di parlare una lingua comprensibile e intimamente vicina a ciascuno. Non c’è diplomazia, non c’è alleanza di popoli così universale come la letteratura, ma la gente non le attribuisce il giusto peso, è così. È per questo che gli uomini possono ancora odiarsi ed essere stranieri tra loro.” (p. 14)

Passo dopo passo, parola per parola, continua a dare vita a etiche esperienze viscerali: le sue opere – come ogni forma d’arte – sono una gratuita opportunità di comunione, sono un luogo poroso, porta e porto, in cui accorgersi della possibilità di una tregua agli inutili conflitti dell’uomo. Un piccolo lettore, se si mette seduto silenzioso e concentrato agli angoli del suono, sul ciglio della strada, può ascoltare il proprio amore rinascere durante la lettura.

 

Bibliografia: 

Jaroslav Stehlík, I libri di viaggio di Karel Čapek, a cura di rosa Liotta Stehlík, in “Biblioteca del Viaggio in Italia”, N. 73, Moncalieri, CIRVI, 2005. 

Karel Čapek, Italské listy, Praha, Český spisovatel, 1995. 

Karel Čapek, Cesta na sever, Praha, Československý spisovatel, 1955.

Karel Čapek, Fogli italiani, Palermo, Sellerio Editore, 1992. 

Karel Čapek, Viaggio al Nord, Milano, Iperborea, 2022. 

Sylvie Richterová, Karel Čapek, giardiniere di Dio, in Giardini a cura di Mirella Billi, Viterbo, Edizioni sette città, 2000. 

 

Apparato iconografico: 

Immagine 1: R.39816f4480c2adf63de7b45919e41f8e (250×396) (bing.com)

Immagine 2: 20220331175629_349_cover_alta.jpg.600x1800_q85_upscale.jpg (600×916) (iperborea.com)