Marianna Di Labbio
Abstract
“The road isn’t work, it’s just the development of life!”: the existential metaphor of the road in Andrey Platonov’s novel “Chevengur”
The present paper aims to investigate the motive of travel and its role in the works of the Russian writer Andrey Platonov, with particular attention to his masterpiece Chevengur. The novel revolves around the journey of the main characters, who are in search of the utopian city of Chevengur, where communism is said to take place. However, the idea of travel not only represents one paramount element to build a gripping plot, but also reveals the writer’s worldview. Aleksandr Dvanov seems to move in a circle, whose start and ending point is death: the father’s and his own. Similarly, the writer’s conception of the world is based on the cyclical repetition among space and time. Therefore, the characters’ wandering in the middle of the steppe can be understood as the metaphor of the existential journey to which is destined the man in search of truth and happiness.
In Russia il viaggio ha sempre costituito un’esperienza complessa, poiché altrettanto complessa è la relazione che lega l’uomo russo allo spazio sconfinato della sua terra. La vastità e l’ampiezza degli spazi hanno notoriamente determinato una grande difficoltà negli spostamenti, tanto da necessitare di un verbo assente nelle altre lingue europee come dobirat’cja (genericamente tradotto con l’italiano “arrivare”) per indicare appositamente spostamenti lunghi, difficili e imprevedibili in opposizione all’idea di viaggio. Come sosteneva Nikolaj Karamzin, infatti, in Russia è impossibile viaggiare: “Po Rossii putešestvovat’? Po Rossii možno tol’ko peredvigat’cja po krajnej neobchodimosti” (“Viaggiare in Russia? In Russia ci si può solamente muovere in condizioni di estrema necessità”). A questa dimensione empirica se ne aggiunge un’altra più spirituale che trasforma le qualità del prostor’ (“vastità, distesa”) russo in qualità dell’anima, cristallizzandosi in espressioni ormai stereotipate come “širota russkoj duši” (“sconfinatezza dell’animo russo”) o “čelovek širokoj duši” (“persona dall’ampio animo”). La dimensione del viaggio, dunque, assume una particolare rilevanza esistenziale che trova una sua interessante espressione in uno dei romanzi più significativi del secolo scorso, Čevengur (prima traduzione italiana della versione censurata: “Da un villaggio in memoria del futuro”, 1990; traduzione della versione integrale: “Čevengur”, 2015) di Andrej Platonov.
Scritto tra il 1926 e il 1929 e pubblicato per la prima volta in russo nel 1972 a Parigi, il romanzo segue le vicende del giovane orfano Aleksandr Dvanov sullo sfondo della storia recente che ripercorre gli anni tra lo scoppio della Prima guerra mondiale e della Rivoluzione d’ottobre, la guerra civile e l’avvento del comunismo di guerra. In questo romanzo così difficile da definire – romanzo utopico e allo stesso tempo d’avventura, senza rinunciare a una componente da Bildungsroman – l’autore inserisce il tema del viaggio, descrivendo il peregrinare dei protagonisti alla ricerca dell’utopica città di Čevengur, dove sarebbe stato raggiunto il comunismo. Nell’opera, come del resto nell’intera produzione platonoviana risalente agli anni Venti, la dimensione odeporica si lega indissolubilmente alla visione del mondo dello scrittore, in cui spazio e tempo si uniscono in un movimento ciclico che si riflette anche nella struttura dei testi. Già in Rasskaz o mnogich interesnych veščach (“Racconto di molte cose interessanti”, 1922) Platonov descrive un eroe in viaggio alla ricerca della felicità che, alla fine del suo girovagare per terre lontane, compresa l’America, giunge al villaggio di Novaja Surža, sorto sulle macerie della città natale da cui era partito e che costituisce la prima utopia platonoviana, anticipando in parte Čevengur. Nel mondo platonoviano la ricorsività spazio-temporale si traduce in quella reiterazione ontologica che ne determina la fondamentale tragicità: se è vero che la vita dell’uomo è regolata da un principio circolare, raggiungere il bene assoluto, inteso come meta finale dell’esistenza, diventa semplicemente impossibile, poiché una fine non è ammessa. Questo “bytie v tupike” (“vicolo cieco esistenziale”), come lo definì Isif Brodskij, è chiaramente percepibile in Čevengur, dove i viandanti alla ricerca dell’utopica città in mezzo alla steppa raggiungono solo in apparenza quel comunismo che viene definito letteralmente “finimondo” (p. 331) e che segna la fine del tempo e della storia. Tuttavia, la promessa di felicità che alberga nella Città del Sole viene tragicamente infranta dalla realtà. Čevengur non è affatto il luogo dove il comunismo si è realizzato e la storia è giunta al capolinea, ma, al contrario, l’utopia si trasforma presto in una distopia che nasce e muore nella cornice di uno sterminio di massa: prima quello dei borghesi da parte dei bolscevichi e poi quello dei bolscevichi da parte dei cosacchi. Inoltre, la stessa Čevengur assume a più riprese i tratti di un paesaggio desolato e quasi cimiteriale, in cui “per quasi tutto l’anno sui portoni restavano le riproduzioni delle croci tombali” (p. 299) e dove un bambino perde la vita non appena arrivato in città.
Il viaggio platonoviano, dunque, sembra non essere destinato a una meta finale diversa dalla morte. In effetti, la condizione stessa dell’esistere è spesso associata all’idea del movimento, per cui al cessare del movimento corrisponde la fine dell’esistenza. A tale proposito risuonano lapidarie le parole di Kopënkin che, in punto di morte, piuttosto che accusare i nemici, condanna il suo essersi fermato, quando dice: “Mi sono trattenuto a Čevengur ed ecco che adesso muoio” (p. 499). In questo senso, il viaggio assume una doppia dimensione, empirica ed esistenziale, in linea con un materialismo tutto platonoviano che guarda al corpo dell’uomo come unica chiave di lettura per comprendere la realtà e appropriarsi dei concetti astratti. A tale proposito, particolarmente interessante è il personaggio di Luj, il “camminatore di Čevengur” (p. 263), il cui legame con la strada è pervaso da un profondo valore esistenziale. Il legame tra movimento ed esistenza, però, non riguarda esclusivamente gli uomini. Anche Čevengur si configura inizialmente come una città in movimento, una città “rimescolata” (p. 269) dove “tutte le costruzioni stavano non al loro posto, ma in marcia” (p. 266). Lo stesso comunismo, inoltre, viene definito come un pellegrinaggio in opposizione all’eterna sedentarietà.
A voler intendere il comunismo come un pellegrinaggio si potrebbe senz’altro considerare la stragrande maggioranza dei personaggi che animano Čevengur veri comunisti. La dimensione dell’erranza, infatti, riempie il romanzo sin dalle prime pagine, quando il lettore si ritrova a seguire gli spostamenti di Zachar Pavlovič a cui si sostituiscono, poi, i viaggi di Saša e quelli degli altri bolscevichi alla ricerca di Čevengur. Non è un caso che gli attributi assegnati a quegli ultimi chiamati a dar vita al comunismo nella Città del Sole sono proprio quelli di vagabondo e di orfano – altro tema portante della poetica platonoviana –, quando vengono definito come “marmaglia senza padre […]. Non abitavano da nessuna parte, vagano” (p. 345). Il vagabondare dei pellegrini di Čevengur, però, non arriva mai a una meta definitiva, in quanto il comunismo viene sì dichiarato de iure, ma mai raggiunto de facto. Il vero valore del viaggio, dunque, può essere individuato nel recupero, attraverso il cammino, di un legame autentico con la terra, che nell’universo platonoviano è viva sostanza dell’universo e rifugio per l’uomo. Questo è quello che accade, ad esempio, quando il giovane Saša, dopo esser stato cacciato fuori di casa dal fratellastro Proša, si rifugia nella fossa che aveva scavato nel cimitero dove era sepolto il padre, oppure quando Kopënkin, deluso dal surrogato di comunismo che trova a Čevengur, si allontana dalla città “per trovare nell’erba viva e nella solitudine il presentimento del comunismo” (p. 297). Accanto alla terra anche l’acqua assume il valore di elemento primigenio capace di ricongiungere l’uomo con una dimensione più elevata dell’essere. La dimensione acquatica, in effetti, è associata a una conoscenza più approfondita della vita, come quando Čepurnyj confessa a Kopënkin che “quando sono nell’acqua mi sembra di conoscere la verità con esattezza” (p. 269) oppure quando lo stesso personaggio, ricordando i versi di una canzone esclama: “Ecco perché voleva essere un pesciolino […]. Significa che ha voglia di vivere daccapo!” (p. 333). Riflessioni del genere assumono un valore assai più interessante se confrontate con i due episodi chiave del romanzo, che aprono e chiudono l’opera. Il primo è il suicidio del padre di Saša che, curioso di capire cosa si celi oltre la morte, sceglie di gettarsi nelle acque del lago Mutëvo, le stesse acque a cui, dopo la distruzione di Čvengur, si abbandona il figlio Saša “alla ricerca di quella strada lungo la quale un tempo era passato il padre pieno di curiosità per la morte” (p. 500). Il viaggio degli eroi platonoviani sulla terra, dunque, assume senso solo se si trasforma in viaggio dentro la terra. Nel mondo platonoviano, infatti, la piattezza dello spazio bidimensionale, orientato all’orizzontalità del movimento in avanti e ben rappresentato dalla vastità della steppa in cui vagano i pellegrini di Čevengur, si oppone alla pluridimensionalità di un movimento verticale, orientato verso l’alto e verso il basso, capace di riportare l’uomo all’autentica dimensione dell’esistenza. Parte integrante di quella pluridimensionalità a cui anelano gli eroi platonoviani è la dimensione temporale che appare spesso interconnessa a quella spaziale. In Platonov il tempo non segue orologi o calendari, ma lo spazio. Emblematico da questo punto di vista è l’episodio in cui il capo rivoluzionario Cepurnyj si ritrova nella condizione di dover indicare la data del giorno in cui scrive un comunicato, ma “non sapeva che mese era e tanto meno che giorno fosse – a Čevengur aveva dimenticato di calcolare il tempo vissuto, sapeva soltanto che era estate e il quinto giorno del comunismo, e scrisse ‘Estate 5 com.’” (p. 337).
Questa fusione tra spazio e tempo trova un riscontro nello studio del romanzo realizzato dal critico e dissidente Michail Geller, che applicò all’analisi di Čevengur la categoria bachtiniana di cronotopo. Risultato di questa indagine fu l’individuazione di tre fondamentali dimensioni spazio-tempo che scandiscono la narrazione, a riprova dell’impatto strutturale che la visione del mondo dello scrittore ha avuto sul romanzo. Oltre alla ripetizione ciclica di alcuni elementi della trama, infatti, si registra una fusione tra la dimensione spaziale e temporale che ben riflette la visione del mondo platonoviana. Il primo cronotopo individuato dallo studioso corrisponde all’infanzia del protagonista e allo spazio delimitato dal villaggio e dalla città in cui domina l’immobilità, da cui cercano di sfuggire alcuni personaggi, primo su tutti il padre suicida di Saša. Il secondo coincide con lo scoppio della rivoluzione e il conseguente ampliamento degli spazi: inizia così il viaggio del giovane Dvanonv per la steppa sconfinata. Infine, il terzo si identifica con Čevengur, città sorta alla fine del tempo e dello spazio che però rappresenta l’impossibilità di realizzare l’ideale e le disillusioni del protagonista, ormai adulto.
Tali riflessioni, seppur brevi e limitate al romanzo Čevengur, rendono piuttosto evidente la complessità che porta con sé il tema del viaggio in un autore come Platonov, in cui gli spostamenti dei personaggi non si limitano a essere espedienti tematici per creare trame avvincenti, ma diventano l’espressione di un pensiero più profondo attraverso cui trova espressione la visione filosofica dell’autore in cui il motivo del viaggio diventa metafora della ricerca spirituale dell’uomo.
Bibliografia:
Andrej Platonov, Čevengur, Torino, Einaudi, 2015.
Anna Zaliznjak, Preodelenie prostranstva v russkoj jazykovoj kartine mira, in Zaliznjak Anna, Levontina Irina, Šmelëv Aleksej (eds.), Ključevye idei russkoj jazykovoj kartiny mira, Moskva, Jazyki slavjanskoj kul’tury, 2005, pp. 96-109.
Konstantin Baršt, Prostranstvenno-vremennye kategorii chudožestvennogo mira A. Platonova, in Id. Poėtika prozy Andreja Platnova, Sankt-Peterbrug, Filologičeskij fakul’tet SPbGU, 2005, pp. 155-219.
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Michail Geller, Andrej Platonov v poiskah sčast’ja, Paris, YMCA- Press, 1982.
Ornella Discacciati, Il lungo viaggio degli ultimi nel ventre dell’utopia, in Andrej Platonov, Čevengur, Torino, Einaudi, 2015, pp. V-XXII.
Sitografia:
http://platonov-ap.ru/?ysclid=lbqnyt6tvw614110896 (ultima consultazione: 16/12/2022).
Apparato iconografico:
Immagine 1: http://platonov-ap.ru/i/photos/family/22.jpg
Immagine 2: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/ru/6/64/Чевенгур_роман_1972.jpg