“La fatica dei materiali” di Marek Šindelka: l’umano e l’inumano nello scenario contemporaneo

Michele Maltauro

Abstract:

Marek Šindelka’s “Material Fatigue”: the concepts of human and inhuman in the contemporary scene

This analysis of Marek Šindelka’s second prose work focuses exploring the human-inhuman dichotomy evoked by the text. An original migration novel about two brothers’ journey through a Europe lacking coordinates of time and space, Material Fatigue is written from the different points of view of the protagonists, who, having been separated during their travels, aim to reunite in an unspecified city in the North. This dual perspective induces a constant sense of disorientation in the reader and, above all, a visceral identification with the characters’ struggle for survival. In this context the “inhuman” is specified not only as the more overt xenophobia, but also, in a more profound sense, as the accelerating dehumanisation of society resulting from post-industrial production systems, which led man and his inner workings to lose their pre-eminence in favour of machines. This destructive tendency could be countered by the human being, defined as the manifestation of primordial forces such as animality and the body itself, but in the novel these seem to be hopelessly in agony. The phenomenon of migration then becomes the mirror of a brutal, collective awareness.

 

Únava materiálu (“La fatica del materiali”) di Marek Šindelka viene pubblicato in Repubblica Ceca nel 2016 e insignito, l’anno successivo, della corona letteraria Magnesia Litera, ma in Italia compare soltanto recentemente per i tipi di Keller, tradotto da Laura Angeloni. Nel corpus dello scrittore, nato nel 1984 e in attività da oltre quindici anni, La fatica dei materiali rappresenta il secondo romanzo dopo lo sperimentale Chyba (2008), un debutto poetico (Strychnin a jiné básně, 2005) e due raccolte di racconti (Zůstaňte s námi, 2011 e Mapa Anny, 2014), testi a loro volta quasi tutti premiati e tradotti. Da quanto dichiara l’autore in un’intervista uscita per il progetto “Est/ranei”, il primo nucleo de La fatica dei materiali nasce nel 2015 dai sentimenti di rabbia e vergogna da lui provati davanti ai commenti entusiastici di alcuni connazionali sotto i post della notizia del ritrovamento, lungo un’autostrada dell’Austria, di un camion contenente sessanta migranti siriani morti per asfissia.

Il primo impulso è quello di stendere il racconto crudo degli ultimi venti minuti di vita delle vittime, intendendo sferrare un pugno allo stomaco del lettore. Successivamente, Šindelka abbandona tuttavia questa strada perché si rende conto che lo sforzo sarebbe insostenibile in primo luogo per se stesso, e soprattutto scevro di risultati recepibili dal pubblico. Finisce allora per strutturare l’intuizione in narrazione ponderata, che pur prendendo la prospettiva fisica e psicologica di coloro che vengono scelti come protagonisti dell’opera, due fratelli in transito per un’Europa aliena che devono ricongiungersi in una mai precisata città del nord, risulta algida perché sospesa nel giudizio dei fatti riportati. La complessità di quest’ultimo trova piuttosto il suo riflesso nella figuralità del testo, che ne rappresenta un carattere portante.

Dunque, romanzo di transito e, specificatamente, di migrazione. La prima osservazione che si può muovere in merito a ciò è quanto il testo si discosti da un tono epico o dantesco che è tipico di molta letteratura novecentesca dello spostamento, ad esempio quella circostante la Seconda Guerra Mondiale e la Shoah raccontata da “i salvati”. La prima nozione mancante nei capitoli è infatti quella di nostalgia, che se il canone guarda quale ritorno doloroso della mente alla casa lontana e alla felicità interrotta, per i protagonisti del romanzo vale, al contrario, come minacciosa riemersione di pochi e dilanianti ricordi – bombe a pioggia, miseria, cicatrici sfiguranti. Ulisse, per vent’anni lontano da Itaca, ed Enea che fonda città issandosi sulle spalle padre, prole e penati non esistono qui, come assenti sono gli eroi, gli antieroi, gli amori e le guerre al presente; l’imbastitura del racconto è cucita sulla dimensione antiretorica della sopravvivenza, innescata dalle vicissitudini affrontate per raggiungere la terra di un possibile futuro e dall’inverno gelido che rischia ogni minuto di congelare il fratello minore. Per la nostalgia non c’è semplicemente spazio. A questo termine inappropriato è meglio allora sostituire quello di esilio, nel suo significato etimologico di stazionare ex solum, cioè fuori dalla terra che ha dato i natali ai protagonisti, in un suolo a loro estraneo.

“[Il ragazzo] non apparteneva a questo luogo, guastava in tutto e per tutto la struttura perfetta di un paesaggio disumano. Sulla pelle era impresso un numero: 107. Cominciò a correre e contava gli alberi che oltrepassava. Quando arrivò al numero centosette rallentò. Proseguì camminando. È tutto regolato da leggi. Il paesaggio, il bosco, la strada, lo sviluppo sostenibile.” (p. 40)

Guastanti in tutto e per tutto con un luogo sconosciuto chiamato Europa, regolato da leggi nuove, i fratelli sono talmente esuli e privi di nostalgia da non riferire al lettore alcuna coordinata spazio-temporale, trasformando anch’egli in fuggitivo o biglia roteante per pianure, boschi, catene montuose e acque che a un tratto non riconosce più. Con il periodare celerissimo che caratterizza il romanzo, la mancanza di orientamento è espressa in un passaggio riferito al minore. Un passaggio che, sotto un’altra prospettiva, diventa specchio metaletterario del romanzo nel suo insieme:

Non aveva nessun indicatore, nessun punto di orientamento. Poteva aver dormito un’ora come quattordici. Il treno era diretto verso una destinazione sconosciuta. Forse aveva passato una frontiera, forse aveva attraversato il continente intero. Era possibile che lo stesse portando indietro, verso i luoghi da cui era fuggito. La totale perdita di coordinate di tempo e spazio gli dava il capogiro. Prese in considerazione l’eventualità di saltare giù dal treno, ma aveva paura delle ruote.” (p. 214)

Sopra un treno narrativo sconosciuto il lettore è, da parte sua, così spaesato che sa soltanto il nome del fratello maggiore, Amir, che capisce quando le pagine sono dedicate al minore dall’appellativo “il ragazzo”, che può solo avanzare ipotesi sulla provenienza dei due, che s’immagina il paesaggio nevoso, forse, come la Moravia d’inverno. Esistono senz’altro indizi ulteriori e minimi che aggiungono sfumature ai soggetti  (un talento per la corsa che non si è potuto assecondare, i ritmi serrati di un’esperienza lavorativa in fabbrica), mai esse restituiscono però un quadro completo della vicenda. E, d’altro canto, lo sbocco del romanzo non è nemmeno di questa sorta.

L’impianto testuale viene porzionato in ventidue capitoli in cui si alternano, come s’è detto, la visuale di Amir e quella del fratello. Tra questi rientrano dei flashback irregolari e una sezione, oltre la metà del libro, direzionata dalla voce in prima persona di un terzo personaggio, un compagno di viaggio di Amir chiamato “il palestinese”, che riferisce di un intervento dalle conseguenze spaventose cui costui s’è sottoposto per vendere le viscere ai trafficanti d’organi. Da questo punto di vista l’ordine narrativo è certamente più ricostruibile, ma è altrettanto indubbio che miri anch’esso allo straniamento attraverso una continua rotazione di occhi e voci. Nella volatilità dei riferimenti e in una struttura continuamente spaesante – che arriva a rendere pulviscolari i blocchi testuali quando, mimando nella scrittura l’abitudine dei fratelli a utilizzare i collegamenti ipertestuali di Wikipedia per apprendere una nuova lingua, li trasforma in lunghe accumulazioni –, è possibile comunque rintracciare una solidità interpretativa isolando i due concetti dicotomici di umano e disumano, la cui antinomia è processo produttivo di senso.

Se, in questa sede, si accorda al significato di umano la più generica – e certo naïf – definizione fornita da Treccani, ossia “[ciò] che ha i sentimenti propri dell’uomo o che dovrebbero essere propri dell’uomo (in confronto alle bestie feroci); equo, affabile, pieno di comprensione, aperto a sentimenti di pietà”, il prefisso privativo in- non può che specificarsi nella negazione degli stessi termini, valendo pure per il dominio delle cose: “di persona che, soprattutto negli atti e nel comportamento, si mostra priva dei sentimenti di umana pietà e quindi crudele, spietata.

Tra le (de)gradazioni dell’inumano che affiorano dal testo, due appaiono come toni più saturi. Il primo è la disumanità che l’individuo dimostra di fronte allo straniero, ossia la xenofobia. Il lettore, che già condivide con l’uno e l’altro protagonista il peso di un corpo comune, s’illude che essa sia per lo meno assopita, che le manifestazioni razziste più estreme gli vengano risparmiate. Si ritrova invece, al capitolo tredici, il sapore di fango e metallo in bocca insieme ad Amir e al palestinese, massacrati di botte da un gruppo di ragazzini che trovano legittimazione alla violenza cieca e gratuita nei pregiudizi razzisti di cui la società è pregna.

Quando riuscì a mettere a fuoco, finalmente li vide bene. Con grande stupore si rese conto che erano dei bambini. Quello che fotografava poteva avere sui quattordici anni, il viso era glabro, i capelli corti. Quello dietro Amir era persino più giovane, una figura alta e atletica. Aveva le pupille dilatate, il riflesso del lampione lasciava ben vedere l’eccitazione da cui era pervaso. Soprattutto quell’eccitazione era infantile, per questo ancora più terrificante.” (p. 174)

A più riprese viene sottolineata l’ebbrezza dell’azione dei bambini-ragazzi, intrappolati in una sorta di delirio infantile, estasi mista a un assoluto disgusto” (p. 179). Essi vagano nell’insensatezza alla ricerca di un pretesto per oltrepassare i limiti umani, scattandosi selfie per documentare l’aggressione, imponendo alle vittime la genuflessione, tentando, a corollario dell’orrore, uno stupro con un manico di scopa. Dal capitolo i due personaggi escono sanguinanti e con un’impressione in più del continente su cui transitano: è l’inumano che si esplicita nel This is Europe!” (p. 177) gridato in faccia ad Amir da “quel bambino ebbro di potere” a capo della gang, che emettendo una raccapricciante verità gli sbatte la faccia al suolo.

Il romanzo indaga più a fondo: non soltanto questa forma atroce di disumanità, ma anche una dimensione superiore e più congegnata di inumanità, la quale è incentrata non più sull’individuo bensì sulla cosa – o su quello che oggi è detto sistema produttivo postindustriale. Difatti, un’altra movenza inaspettata del testo è l’apertura di una porta che, al capitolo diciassette, conduce il fratello minore all’interno di una fabbrica, davanti a un’enorme catena di montaggio. Il tempo del racconto rende indistinguibili i confini temporali, giacché il protagonista rivive i momenti di un passato in cui lavorava come operaio senza soluzione di continuità con il presente davanti ai suoi occhi. È, in realtà, il tempo umano che diventa irrilevante, in quanto assorbito da quello primario della macchina, definita armonia di movimenti, come una musica morta che ormai può fare a meno delle note, e persino degli ascoltatori. Un’armonia non concepita per i sensi umani. […] Una memoria che annulla il tempo” (p. 222). La fascinazione per la catena di montaggio di una generica industria metallurgica viene descritta grottescamente. La macchina è antropomorfizzata in un gigantesco corpo protratto alla sua crescita, in un pullulare di immagini che suscitano umoristicamente meraviglia e terrore: la materia prima plasmata in strutture affascinanti, il metallo piegato con la stessa tenerezza che si usa coi bambini. La lenta maturazione di un embrione” (pp. 221-222). Le figure retoriche stridono acutamente, perché si mostrano consapevoli dell’entusiasmo che l’uomo prova per un meccanismo che non s’avvede delle sorti di quest’ultimo.

Un meccanismo che non s’importa d’altro al di fuori di sé, se non per proprio interesse, secondo una logica fagocitante in cui anche i pochi operai viventi erano pagati per divenire parte di esso” (p. 221). E pure sul ragazzo stesso, ben consapevole dell’inumano, la macchina esercita una forza magnetica, ricordandogli i movimenti ipnotici, automatici, alienanti che si sono impressi come timbro nella memoria. In questo contesto, il significato disumano attribuito al lavoro manuale è diametralmente opposto a quello “umanizzante” che emerge, quarant’anni prima del romanzo, dalla figura di Tito Faussone, homo faber al centro de La chiave a stella di Primo Levi (1978). Se Tito trova ancora nello strumento che la mano impugna per agire sul macchinario un modo per nobilitarsi spiritualmente e per integrarsi nel mondo, la macchina della società postindustriale usa la chiave a stella solo come perno per inglobare i suoi schiavi deumanizzati, per ingoiarli ed espellerli in una realtà senza sentimenti. L’uomo e i suoi sentimenti hanno infatti perduto completamente la centralità nel mondo.

Cosa resta allora dell’umano? Coloro che nella narrazione ne raccolgono il senso paiono essere solamente i protagonisti e alcuni dei compagni incontrati lungo il percorso. Il loro essere umani è tuttavia raggelato dalla vicissitudine e non si esplicita tanto nei sentimenti sopra evocati, eccezion fatta per casi rarissimi – tra questi, verso la conclusione, una scarpa da ginnastica regalata da un senzatetto al fratello di Amir, che ha perduto la sua e rischia quindi di congelare. Nella necessità primordiale di concentrare le forze, sempre più carenti, nel viaggio verso il ricongiungimento familiare, va piuttosto rilevato come l’umanità dei due fratelli trovi la propria espressione nell’animalità che abita in loro e al di fuori di loro. Si tratta in entrambi i casi di una bestialità in pericolo, che è propria non del predatore, ma della preda. Difatti, quando la metamorfosi riguarda i protagonisti, tale figuralità è sempre foriera di angoscia e di minaccia: al capitolo dodici, per esempio, il fratello minore viene costretto a una regressione animalesca quando due poliziotti fiutano le sue tracce e lo inseguono come cani da caccia, riconoscendo le sue impronte sulla neve e costringendolo a nascondersi sotto il fieno di una baracca. Oppure, ritornando all’aggressione di Amir e del compagno di viaggio, le evocazioni animali enfatizzano la violenza con cui i ragazzini si accaniscono sul palestinese – come se stessero torturando una bestia, un gatto, un cane, un uccello con l’ala spezzata” (p. 179).

Oltre gli uomini, anche il mondo esterno sembra non lasciare scampo agli animali. Nel paesaggio gelato la vita si muove minimamente sotto la crosta del ghiaccio o rintanata nell’alveare superstite di una cascina. Il fratello di Amir empatizza con questi piccoli esseri, ne è però al medesimo tempo il carnefice per la propria sopravvivenza. Tutte le bestie del romanzo sono drammaticamente morenti.

Da un lampione cadde a spirale un insetto e affondò nell’erba. Amir osservò l’esserino allontanarsi caparbiamente tra gli steli. Provò a librarsi di nuovo in volo, ma gli mancava qualcosa, un’ala o una sua parte, dunque descrisse un arco e cadde a mezzo metro di distanza.” (p. 184)

Se si adottano questi occhiali da vista su La fatica dei materiali, il rapporto che intercorre tra un umano che è animale ferito e un inumano sempre più razzista e dominato dalle macchine, lo scenario della contemporaneità descritta appare irrecuperabile. Nonostante un finale aperto – nel quale, comunque, qualcuno gioca con la playstation a una realtà di guerra virtuale – il rapporto fra i due opposti non è un dialogo costruttivo, ma di prevaricazione dell’uno sull’altro, e se il racconto dei due fratelli denuncia, in primo luogo, la disumanità della civiltà occidentale dinanzi il tema della migrazione, poco più in profondità quest’ultima diviene l’osservatorio particolareggiato di  quello che si potrebbe chiamare “il trionfo dell’Inumanesimo”, di cui ciascuno è vittima e/o carnefice. All’inumano (o al postumano) di una società dominata dalla tecnologia postindustriale, le forze del corpo e della sua animalità potrebbero costituire un’opposizione salvifica, eppure lo sono soltanto disperatamente, perché periscono. Chi ne porta il peso, ne porta il destino. Proprio come succede nel fenomeno meccanico per cui, se un materiale viene sottoposto a carichi variabili nel tempo, la fatica subita ne provocherà prima o dopo la rottura.

 

Bibliografia:

Marek Šindelka, La fatica dei materiali, trad. Laura Angeloni, Rovereto, Keller, 2022.

Sitografia:

Definizione di “umano” in Treccani.it: https://www.treccani.it/vocabolario/umano/#:~:text=a.,visto%20una%20persona%20pi%C3%B9%20u (ultima consultazione: 29.12.2022).

Definizione di “inumano” in Treccani.it: https://www.treccani.it/vocabolario/inumano/#:~:text=di%20in%2D2%20e%20humanus,crudele%2C%20spietata%3A%20vincitori%20i (ultima consultazione: 29.12.2022).

Martina Mecco, Sinestesie e mutanti letterari. Intervista a Marek Šindelka, autore de “La fatica dei materiali”, https://www.estranei.org/2022/11/04/sinestesie-e-mutanti-letterari-intervista-a-marek-sindelka-autore-de-la-fatica-dei-materiali/.it  (ultima consultazione: 29.12.2022).

 

Apparato iconografico:

Immagine 1: https://www.wikidata.org/wiki/Q1718487#/media/File:Marek_%C5%A0indelka,_2013b.jpg

Immagine 2: https://www.kellereditore.it/prodotto/la-fatica-dei-materiali-marek-sindelka/.jpg