La condanna del viaggio eterno. Appunti su “Princ vatre” di Filip David

Marco Biasio

Abstract

The Doom and Gloom of the Eternal Journey. Some Remarks on Filip David’s “The Prince of Fire”

Although he has never reached the level of critical recognition and widespread popularity enjoyed by some of his peer writers and closest friends, such as Danilo Kiš (1935-1989) or Borislav Pekić (1930-1992), Filip David (1940 -) can be rightfully considered one of the most original artistic profiles of his time, both in his role of successful screenwriter for cinema and theatre and as novelist. The collection of short stories The Prince of Fire (1987) is, by far, one of his most ambitious and fascinating literary works to date, a masterful blend of Jewish-themed esoteric fantasy and Borgesian spatiotemporal paradoxes of unprecedented quality. This squib focuses on the eponymous short story and, in particular, on how the underlying topic of the ‘eternal journey’ functions as a continuous bass structure which provides the background for the interweaving of other salient leitmotifs—a.o., the performative magic of written and uttered words, different plans of (perception of) truth and reality, and the recurrent centrality of otherworldly beings typical of Jewish folklore and demonology, such as the dybbuk and the golem.

 

“He who is lawless is free.
Necessity and time are conventional phenomena.”
Austin Osman Spare, Anathema of Zos (1927)

Non lascia adito a dubbi la dedica apposta in apertura a Princ vatre (1987, poi ripubblicato in una seconda versione ampliata nel 2013; edito in italiano nella traduzione di Alice Parmeggiani nel 2009 per la defunta Zandonai come “Il principe del fuoco”), la raccolta di racconti con la quale Filip David (1940 -) – quasi diciotto anni dopo l’antologia Zapisi o stvarnom i nestvarnom (“Appunti sul reale e l’irreale”, 1969), ad oggi rimasta ancora inedita in italiano – torna a far capolino su una scena letteraria, quella jugoslava, ormai irrimediabilmente lacerata dalle tensioni interne successive alla pubblicazione del famigerato Memorandum dell’Accademia serba delle scienze e delle arti (1986): “Prijateljima, Danilu Kišu, Mirku Kovaču, Borislavu Pekiću” (“Agli amici, Danilo Kiš, Mirko Kovač, Borislav Pekić”). Si tratta degli esponenti di quello che Bojan e Marija Mitrović hanno definito – con una felice metafora presa ufficiosamente in prestito dalla critica letteraria serba – il “Quartetto”, vale a dire “[…] un gruppo di scrittori e amici, curiosi del mondo e poco impressionati dalle mitologie nazionali, i quali sono riusciti a trasmettere perfettamente al lettore il senso dell’amarezza dei nostri tempi.” (p. 166) Quali sarebbero state le drammatiche proporzioni dell’orrore innescato dalla traumatica transizione post-jugoslava, in verità, lo avrebbe esperito pienamente solo David, rimasto stabilmente nella capitale nonostante l’ostracismo pubblico e le crescenti ostilità istituzionali. Non avrebbero fatto in tempo a vederlo né Kiš, spentosi a Parigi appena un paio d’anni più tardi, e nemmeno Pekić, allora reduce dalla pubblicazione del settimo e ultimo volume del suo opus magnum Zlatno runo (“Il vello d’oro”, 1978-1986; inedito in italiano) ed esule di lungo corso a Londra, dove sarebbe morto nel 1992. Dal canto suo Kovač – nato in Montenegro da padre croato e madre serba e, pertanto, oggetto inclassificabile per il rasoio di Occam di ogni narrazione nazionalista – avrebbe nuovamente imboccato la via dell’emigrazione dissidente nei giorni più bui della presidenza di Slobodan Milošević, in questo fedele al profilo anticonformista che lo aveva già fatto entrare in rotta di collisione col potere costituito nei decenni precedenti allo scoppio delle guerre balcaniche.

Integrità morale, indipendenza di pensiero, impermeabilità a qualsiasi discorso post-ideologico: sono solo alcuni dei tratti distintivi che legano David ai destinatari della sua epigrafe. Come Božidar Stanišić ripercorre con puntualità nella postfazione alla traduzione italiana di Princ vatre, le iniziative culturali organizzate dal letterato di Kragujevac – in primis in qualità di iniziatore del Beogradski krug (“Circolo belgradese”) e curatore di una rubrica di cronaca su Radio France International – furono una delle rare, se non l’unica significativa manifestazione di una ferma opposizione intellettuale da sinistra contro la “schizofrenia nazionalista” degli anni ’90, uno dei fari che all’epoca più “gettarono luce nel tunnel oscuro di una mostruosa ideologia” (p. 84). E d’altronde, quanto fosse davvero profondo il rapporto d’amicizia fra i membri del “Quartetto”, capace di resistere nei decenni a dispetto delle divergenze politiche e di ogni avversa contingenza sociopolitica, lo si riesce a cogliere dalle poche parole con le quali lo stesso David, interpellato nel merito dalla giornalista e traduttrice Dubravka Rajh (figlia del più noto artista surrealista Zdenko e animatrice di un salotto culturale sulla Vlajkovićeva, a Stari Grad, che fungeva da polo d’attrazione per la controcultura belgradese degli anni ’80), riassumeva il senso dell’esergo a Princ vatre: “Počeli smo da objavljujemo u isto vreme i interesovanja su nam bila slična” (“Abbiamo iniziato a pubblicare nello stesso periodo e i nostri interessi erano simili”).


Un discorso critico attorno alla pur non foltissima produzione letteraria di David, mente e penna dietro le sceneggiature di cult del cinema jugoslavo come Who’s Singin’ Over There? (1980), dovrebbe forse ripartire da quest’ultima affermazione e chiedersi quali interessi concreti – aldilà di un certo modo di intendere e vivere la propria condizione di intellettuali – avvicinassero David alle personalità di Kiš, Pekić e Kovač. Per quanto la sommaria ricostruzione delle biografie dei protagonisti e la mappatura degli ambienti culturali di loro elezione permetta di disegnare un reticolato di luoghi, situazioni ed esperienze comuni, il percorso creativo di David rimane pervaso da una sua vibrante unicità che ne rende difficile l’incasellamento nella scena letteraria dell’epoca e, come più in generale sottolinea Stanišić (p. 88), non può che suggerire accostamenti solo indicativi con i numi tutelari del fantastico metafisico e della prosa orrorifica. Se poi è vero che, come continua David nella summenzionata intervista: “[…] non so come sia possibile valutare opere come, diciamo, ‘Enciklopedija mrtvih’ [“Enciclopedia dei morti” raccolta di racconti di Danilo Kiš, 1983; N.d.A.], ‘Besnilo’ [“La rabbia” di Borislav Pekić, 1983, inedito in italiano, N.d.A.] o ‘Evropska trulež’ [“Marciume d’Europa” raccolta di saggi di Mirko Kovač, 1986, inedita in italiano, N.d.A.] al di fuori del contesto della letteratura europea” la produzione letteraria di David non è stata ancora legittimata da un’adeguata contestualizzazione critica e onorata di una copertura di pubblico che esuli dagli irriducibili circoli di balcanofili. Si pensi solo che, con l’eccezione dei romanzi Hodočasnici neba i zemlje (1995; edito in italiano nel 2017 come “Pellegrini del cielo e della terra”) e Kuća sećanja i zaborava (2014; edito in italiano nel 2017 come “La casa della memoria e dell’oblio”), Princ vatre è l’unico altro esempio di prosa davidiana ad oggi disponibile in italiano.

Impregnati di quella stessa forma obliqua di sublime esoterico che plasma gli universi paralleli delle narrazioni di Isaac Singer e che sembra ricomparire fra le pieghe più misteriche e borgesiane di certi suoi contemporanei, come il Milorad Pavić di Predeo slikan čajem (“Paesaggio dipinto con il tè”, 1988) o il David Albahari maturo di Pijavice (“Sanguisughe”, 2006), i dieci racconti di Princ vatre – già dalla fulminante parabola apocalittica d’apertura, Otkup (“Il riscatto”) – si articolano in vario modo attorno al filo nascosto del viaggio, inteso ad un tempo come eterna peregrinazione del corpo, incessante ricerca di ciò che non è fenomenicamente visibile, processo di metempsicosi ateleologico e anticatartico. I mondi fantastici evocati da David non esistono se non come simulacri di singolarità spaziotemporali, strutture escheriane simili a principi logici di esplosione in cui, come ancora annota Stanišić, “alcuni destini che si ripetono – come il sogno, l’amore e la morte – sono annotati e rappresentati in libri simili a ‘sale della memoria’, dentro cui si muovono ombre e fantasmi,” (p. 93) La “dilatazione delle dimensioni spaziali e temporali” di cui parla Suzana Glavaš in un suo saggio (I dibbuk di Croazia e Serbia, 2012, p. 118) raggiunge il suo apice nel racconto che dà il titolo alla raccolta. Princ vatre è un fiondante saggio di visionarietà novellistica che intrappola in un congegno infinitamente ricorsivo di scatole cinesi – una revisione contemporanea de Il facchino e le dame raccontata da Shahrazād, se possibile – una serie di ossessioni tematiche ben note non solo alla letteratura chassidica di filiazione cabalistica ma, più in generale, allo spazio culturale mitteleuropeo. Tenere conto di tutte le prospettive logoforiche che si sovrappongono l’una all’altra risulta da subito un’impresa: l’artificio metanarrativo di partenza è dato del ritrovamento di una versione manoscritta della misteriosa Cronaca del rabbino Ahimaaz ben Paltiel (1017-1060), in cui si riportano i dettagli dell’incontro fortuito del mistico errante beneventano Ha-Nasi con un misterioso giovane incapace di pronunciare il nome divino. Incoraggiato a raccontare a sua volta la propria storia, lo straniero ripercorre la propria giovinezza inquieta e piena di fantasie, sino alla decisione di seguire un vecchio rabbino in giro per il mondo. Il vagabondaggio ha termine alle soglie di un villaggio, dove la coppia si imbatte in Chaim Gaon, un adolescente posseduto da uno spirito maligno parassita, noto come dybbuk nella tradizione demonologica ebraica. È sua la voce che prende la parola, descrivendo i contorni di un’incessante trasmigrazione di ospite in ospite che riporta alla mente gli oscuri complessi di colpa collettiva messi in scena dal Marcin Wrona di Demon (2015):

“Mi chiamo Nathan. Sono un ebreo come voi. In vita ho peccato allo stesso modo di tutti i musicisti vagabondi. Suonavo alle nascite e ai matrimoni, per quelli che facevano festa e per quelli che erano tristi, ma non avevo mai riflettuto sulla morte. E quella è giunta all’improvviso, mentre ero a una festa di nozze, in preda all’esaltazione. Non mi sono neppure accorto che la morte mi stava portando via, tutto preso com’ero dalla musica. Seguendo così la melodia sono passato in qualche modo in mezzo ai mondi: non sono andato là dove sono destinate tutte le anime dopo la morte, né mi è stato permesso di tornare sulla terra. […] Come si dice nel ‘Sefer ha-Bahir’, questo vagabondaggio, questa trasmigrazione può durare anche mille generazioni! Perché tu, rabbino, chiami a raccolta tutti gli angeli divini e mi minacci con lunghe citazioni dai libri sacri? Perché invece non mi aiuti? Io sono il più miserabile di tutti voi, perché delle mie peregrinazioni non si intravede la fine!” (p. 44)

Il culto della parola scritta e pronunciata, il mistero della sua magica performatività (secondo lo stesso principio che informa l’impenetrabilità dello stesso Tetragrammaton, elemento peraltro centrale nell’epilogo circolare) è un Leitmotiv che non si esaurisce nella tenzone di citazioni dalla Torah con la quale il rabbino riesce infine a scacciare il dybbuk. Il successivo incontro con un’altra coppia di mendicanti rovescia specularmente la prospettiva dei protagonisti: il vecchio mutacico è il Doppelgänger del giovane narratore, studente giramondo d’irrequieto talento rapsodico e inesauribile curiosità, la cui sete di conoscenza lo spinge ad entrare in contatto con il Libro della Creazione, sostituirsi come novello Frankenstein all’essere supremo e infondere la cinesi in un Golem – non casualmente, un altro elemento centrale della mitologia ebraica – animato da tensioni teoclaste. La reificazione definitiva del potere creativo del linguaggio è la fine dell’illusione del “povero demiurgo del verbo, colui che creava le parole dal nulla” (p. 50), peregrino alla ricerca impossibile della verità che “[n]on avendo voluto accontentarsi di un’illusione, quando l’illusione svanì, gli parve di aver perduto la realtà stessa” (p. 51): l’abisso di un terrore ancestrale che nell’inghiottire le parole e la voce che le modella, come suggerisce Nejira Beširović (p. 58), inghiotte l’ontologia stessa delle cose. È, al contempo, anche il preludio al triste destino che attende il protagonista senza nome: il termine del suo lunghissimo viaggio, alle porte della magione paradisiaca del cieco rabbino Mendel Bar, coincide con la rinuncia in toto alla vita stessa o, per meglio dire, con una vita eterna svuotata di ogni conoscenza, “un’eterna peregrinazione senza meta” (p. 54) che lo conduce nella locanda dove, finalmente, Ha-Nasi lo libererà messianicamente da ogni catena terrena.

Quid est veritas?, chiedeva Pilato a Cristo senza ricevere risposta alcuna. Allo stesso modo, la percezione della verità offerta in Princ vatre è legata alla percezione che ogni essere senziente ha della propria realtà e degli infiniti mondi possibili che vi si possono sostituire in parallelo: una, nessuna, centomila. Unico epilogo in comune tra piani epistemologici, un’altra massima della Vulgata biblica: memento homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris. O, nelle parole di Ha-Nasi con cui viene posto il sigillo al racconto:
“Il primo giorno dell’anno è scritto chi se ne andrà, chi verrà, chi vivrà e chi morrà. Qualcuno sarà portato via dal fuoco, qualcun altro morirà a causa delle belve feroci, della fame, della sete, dei terremoti e della peste. È scritto che quest’uomo si riposerà e quest’altro andrà vagando. Per l’uno tutto sarà facile, per l’altro ci saranno infinite sofferenze. Qualcuno diventerà ricco, qualcun altro povero. È scritto chi tacerà e chi invece parlerà.” (p. 55)

 

 

Bibliografia:
Austin Osman Spare, The Writings of Austin Osman Spare: Anathema of Zos, The Book of Pleasure and The Focus of Life, Minneapolis, Filiquarian Publishing Llc, 2007.
Bojan Mitrović, Marija Mitrović, Storia della cultura e della letteratura serba, Lecce, Argo, 2015.
Filip David, Princ vatre, Beograd, Bigz, 1987 (Il principe del fuoco. Racconti dell’occulto, trad. Alice Parmeggiani, Rovereto, Zandonai, 2009).
Suzana Glavaš, I dibbuk di Croazia e Serbia, in Giancarlo Lacerenza (ed.), Il dibbuk fra tre mondi. Saggi, Napoli, Il Torcoliere, 2012, pp. 109-122.
Edizioni italiane delle opere citate:
David Albahari, Pijavice, Beograd, Stubovi kulture, 2006 (Sanguisughe, trad. Alice Parmeggiani, Rovereto, Zandonai, 2012).
Danilo Kiš, Enciklopedija mrtvih, Zagreb-Beograd, Globus-Prosveta, 1983 (Enciclopedia dei morti, trad. Lionello Costantini, Milano, Adelphi, 1988).
Filip David, Hodočasnici neba i zemlje, Beograd, Prosveta, 1995 (Pellegrini del cielo e della terra, trad. Luca Vaglio, Roma, Elliot, 2017).
Filip David, Kuća sećanja i zaborava, Beograd, Laguna, 2014 (La casa della memoria e dell’oblio, trad. Dunja Badnjević e Manuela Orazi, Roma, Bordeaux, 2017).
Milorad Pavić, Predeo slikan čajem, Beograd, Prosveta, 1988 (Paesaggio dipinto con il tè, trad. Branka Ničija, Milano, Garzanti, 1991).

Sitografia:
Dubravka Rajh, Priče o okultnom, luglio 1987: http://www.yugopapir.com/2016/06/filip-david-princ-vatre-ako-je-nas.html (ultima consultazione: 24/01/2023).
Nejira Beširović, Fenomen straha u zbirci „Princ Vatre“ Filipa Davida i „Sara i Serafina“ Dževana Karahasana, in “Univerzitetska misao – časopis za nauku, kulturu i umjetnost”, Vol. 19, 2020, pp. 51-60. https://scindeks.ceon.rs/article.aspx?artid=1451-38702019051B (ultima consultazione: 24/01/2023).

Apparato iconografico:
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