Crepe sulla fortezza Europa: “Capire la rotta balcanica”

Marco Jakovljević

Abstract

Cracks in the fortress Europe: “Understanding the Balkan route”

The aim of this paper is to analyze the general features of Understanding the Balkan Route, as well as to examine specific aspects of the migratory issue in Europe mentioned in the text. In fact, nowadays the wealthier states of the EU are exploiting the south-eastern Balkans to face the refugee crisis, albeit historically the Balkan peninsula has been considered a peripherical, backward region of Europe. Examples provided in this paper analyze how countries like Greece, Bulgaria, North Macedonia, Serbia, Bosnia and Herzegovina, Croatia and Slovenia autonomously managed the crisis, as well as problematizing the concept of European solidarity when dealing with the migratory routes. To conclude our paper we highlighted how Understanding the Balkan Route takes into analysis the mechanisms that led to the previously mentioned dynamics, giving an exhaustive report about the functioning of the Balkan route, its political games and the stories of the refugees who are attempting to reach the wealthier European countries.

 

È trascorso quasi un decennio da quel 2013 che adesso, dopo anni di eventi che hanno catturato l’attenzione della gente, alternandosi e rubandosi a vicenda il posto nelle coscienze, nelle menti, sembra così lontano e, a tratti, insignificante. La minaccia dello Stato islamico, la pandemia e, poco meno di un anno fa, l’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte della Russia si sono susseguite più o meno ordinatamente, senza sovrapporsi troppo, convincendo le persone di una fredda e cinica ciclicità degli eventi storici, che nascono, si sviluppano e terminano di punto in bianco per far spazio ad altro. La realtà è che la storia è piena di sfumature e se un evento formalmente (o non) può avere una fine, è anche vero che le conseguenze e determinate dinamiche non si fermano, ma permangono nel tempo e nello spazio. Nel 2013 si iniziava a parlare di crisi migratoria in Europa, ma è nel 2015, con lo scoppio della Guerra civile in Siria, che la questione ha assunto una piega tanto grave da muovere i meccanismi che muovono i paesi e le persone. L’Unione Europea, in maniera disordinata e incostante, si è attivata per fronteggiare la questione migranti, che attraverso delle specifiche rotte, dalle destinazioni più disparate, dopo settimane o mesi di viaggio, si sono riversati in quello che attraverso una prospettiva del tutto eurocentrica viene chiamato “vecchio continente” in cerca di salvezza o, semplicemente, di fortuna. La rotta di cui forse si è più parlato è la rotta balcanica. Sono stati prodotti articoli, reportage, documentari, servizi, ma forse è con Capire la rotta balcanica, volume edito da Bottega Errante nel 2022 e frutto di una collaborazione tra Marco Siragusa, Luigi Tano e Lorenzo Tondo – che a turno hanno curato le varie sezioni comprese nell’opera –, che con dati chiaramente esposti viene fornito un efficace chiarimento sui meccanismi che hanno mosso la gestione delle rotte migratorie (in primis, come da titolo, di quella balcanica) e su quelle che sono le caratteristiche.

Capire la rotta balcanica accompagna gradualmente il lettore, come se fosse, oltretutto, un viaggio. Esso si sviluppa da una visione generale degli avvenimenti e dei primi passi dell’UE per contrastare la situazione di crisi, per poi passare alle informazioni specifiche riguardanti la regione dei Balcani e, in fine, ad alcune testimonianze di migranti bloccati nel perverso groviglio che è la rotta balcanica.

Sebbene l’Unione Europea, a seguito dell’atteggiamento di apertura e della volontà di attivare un meccanismo efficace di sostegno ai migranti di Angela Merkel, abbia inizialmente tentato, forse, ragionando a posteriori, con una convinzione troppo debole, di fronteggiare la crisi, non sono mancati degli elementi che, in seguito, hanno portato allo sfaldamento di ogni tentativo unitario di soluzione a quanto già citato. L’Unione Europea si è dimostrata non solo divisa fin dall’inizio – per la volontà di singoli stati o di gruppi di essi (si pensi al Gruppo di Visegrád), ma anche per la prepotente crescita dei populismi (e del consenso ad essi) – ma anche incoerente e incostante nella gestione dei flussi migratori. Dopo l’iniziale apertura, la facciata da paladina dell’accoglienza che, ufficialmente, Bruxelles voleva mantenere è crollata. Se è vero che l’opposizione di alcuni paesi e dei partiti populisti ha avuto un ruolo non indifferente nel minare ogni tentativo di soluzione coesa al problema dei migranti, è altrettanto vero che gli stessi vertici UE che prima si erano resi disponibili ad accogliere hanno gradualmente, visti anche i limiti delle strutture di accoglienza messe in funzione, inasprito le condizioni di entrata nello spazio europeo. Il culmine è stato raggiunto con la firma dell’accordo con Erdogan, attraverso il quale la Turchia ha, sotto compenso, accettato di impedire ai migranti di arrivare in Europa attraverso i Balcani. Ciò, chiaramente, non ha interrotto i flussi migratori. Ancora una volta nella loro sfortunata storia, i Balcani si sono ritrovati ad essere la periferia lasciata sostanzialmente a sé stessa dell’Europa, che ora necessita di essere difesa con ogni mezzo, anche violento – schiaffo umiliante ad ogni idea di solidarietà e di inclusione europea. Si assiste così nuovamente alla marginalizzazione della Penisola balcanica e al suo declassamento ad “oriente interno” non solo dell’Unione Europea, bensì dell’Europa intera. Come parte meno sviluppata e con più problematiche del continente, i Balcani si sono ritrovati ad esser parte di un meccanismo che non solo ha visto pochi (quando non esistenti) sforzi di includere (o per lo meno di avvicinare) il sudest Europa nello spazio europeo in senso culturale e mentale, ma ha anche permesso il riaffiorare di mentalità e politiche che si pensava, ormai, che fossero possibili solo nei romanzi di Ivo Andrić. Questi “Balcani”, abitati da gente gretta che non conosce l’apertura mentale, ma neanche l’agiatezza e l’opulenza della Mitteleuropa, come possono davvero integrarsi e paragonarsi a paesi come la Germania o la Francia? Che ruolo possono avere questi paesi nell’Unione oltre all’essere la spiaggia degli Europei del nord d’estate o un luogo dove comprare merci a prezzo stracciato durante tutto il resto dell’anno? La risposta a questo quesito è da ricercarsi nelle pagine ingiallite della storia.

Secoli fa si faceva riferimento all’Antemurale Christianitatis quando si parlava di Croazia, in quanto quest’ultima aveva opposto una feroce resistenza agli Ottomani. La Croazia si ritrovò a difendere la Fortezza Europa dalle invasioni degli incivili e, soprattutto, infedeli turchi, in parte riuscendoci, in parte fallendo (il fatto che l’esercito ottomano sia arrivato fino a Vienna ne è una prova). Ma accanto alla Croazia ci furono le terre che oggi sono parte della Slovenia, in parte della Bosnia, dell’Ungheria, ancor prima della Serbia e così via, comprendendo, effettivamente, tutti i Balcani. Oggi, anche se gli Ottomani non rappresentano più una minaccia, la penisola più sfortunata d’Europa ha di nuovo l’ingrato compito di fare da bastione al vecchio continente. Soprattutto i paesi dei Balcani occidentali, però, sembrano aver accettato di buon grado il ruolo (ri)datogli dai vertici europei.

I paesi dei Balcani occidentali, assieme a Slovenia, Croazia e Ungheria, non solo non hanno reso la permanenza temporanea dei migranti (che, nella stragrande maggioranza dei casi, non hanno intenzione di rimanere nei paesi citati, bensì di proseguire verso nord) semplice, organizzando centri di accoglienza e strutture che non solo mancano di servizi e infrastrutture fondamentali, ma sono anche luogo di maltrattamenti e altre violenze. Difatti, hanno spesso dato prova di saper respingere con metodi a dir poco efferati coloro che tentavano di attraversare i confini. Si pensi ai pushback attuati in Croazia, ai confini presidiati da poliziotti armati e rafforzati col filo spinato in Slovenia o al muro eretto in Ungheria al confine meridionale del paese. In Capire la rotta balcanica il sistema dei respingimenti e dell’organizzazione dei campi è analizzato con precisione e si rivela quindi un ottimo strumento per capire anche la dimensione spaziale del fenomeno.

Il lato umano è nell’opera a sua volta ben esposto e si rivela essere una parte interessante da approfondire, anche perché, dopotutto, la rotta balcanica non è fatta solo di luoghi fisici, ma soprattutto di persone che la attraversano e di persone che vivono nelle zone interessate dal fenomeno. Vengono analizzate le provenienze dei migranti che si apprestano a partecipare alla sfida di arrivare in Europa, ma anche il responso delle popolazioni locali. Non mancano esempi di solidarietà, certo, ma tristemente più preponderanti sono le reazioni negative al fenomeno. Dalla passiva aggressività si è passati all’ostilità, arrivando, in fine, ad episodi di vera e propria violenza. Coloro che, a causa di guerre e crisi post-caduta del Muro di Berlino, un tempo fuggivano e cercavano aiuto, ritrovatisi dall’altra parte hanno riservato ai migranti un trattamento di gran lunga peggiore, a tal punto da essere imparagonabile a quello riservato un tempo a loro.

Capire la rotta balcanica non è, però, un’analisi fretta di fatti e fenomeni. Come già detto, la rotta balcanica è fatta soprattutto di persone e l’opera sarebbe incompleta se le loro voci non venissero incluse in essa.  I racconti di coloro che sono bloccati dalle isole della Grecia alle colline della Bosnia sono fondamentali per capire “dall’interno” chi sono le persone che attraversano la rotta, cosa pensano, cosa sognano, cosa hanno vissuto. Riportarli anche solo in forma riassunta o parziale, però, toglierebbe loro ogni valore e autenticità. Capire la rotta balcanica si rivela essere uno strumento utile, che, pur trattandosi di una lettura quasi tecnica, stimola la curiosità e la voglia di conoscere, in questo caso un fenomeno di non indifferenti gravità e dimensioni, creando lo stesso effetto di un romanzo.