Marco Puleri
“Poi è cominciata la guerra e ti hanno mandato nell’esercito. Hai fatto l’addestramento e sei diventato carrista. E hai cominciato a spingerti a oriente, sempre più avanti in direzione est, hai passato la frontiera, hai occupato città straniere distruggendo l’equipaggiamento nemico e le forze dell’avversario. Dovunque però, capisci, dovunque le città e i paesaggi sono più o meno simili a quelli della tua patria. E la gente […], insomma, anche loro sono come al tuo paese, e le donne ugualmente belle, e i bambini ugualmente spontanei e spensierati. E tu occupi le loro capitali, senza preoccuparti troppo di quanto ti aspetta dopo e dove ti porterà la tua strada domani […] All’inizio andava bene: la guerra lampo, il genio strategico dei tuoi generali, la rapida avanzata verso est. Passi relativamente senza problemi persino il Dniprò. E qui comincia il peggio: all’improvviso capiti in un posto dove tutto scompare – le città, la popolazione, le infrastrutture. E persino i nemici scompaiono chissà dove, in quella situazione ti avrebbero persino fatto piacere, e invece sono scomparsi, e più ti inoltri verso est, più ti senti inquieto. Ma quando alla fine arrivi qui, – Ernst fece un ampio gesto col braccio intorno a sé – ti prende la paura, perché qui, oltre le ultime palizzate, trecento metri appena al di là della strada ferrata, finisce quello che tu ti immaginavi della guerra, e dell’Europa, e del paesaggio come tale, comincia il vuoto senza fine, senza contenuto, forma e sottotesto, il vero vuoto totale in cui non c’è neppure una cosa a cui aggrapparsi”[1].
Il brano in apertura, tratto da La strada del Donbas, restituisce lucidamente il senso d’impotenza vissuto di fronte ad ogni guerra. Se oggi questo passaggio pare riferirsi alla situazione vissuta dai soldati russi mobilitati dal Cremlino per partecipare ad un conflitto di cui è difficile trovare la ragione, in realtà il personaggio che dà voce a queste riflessioni è l’ex-soldato tedesco Ernst che ripercorre la traumatica esperienza del fronte orientale della Seconda Guerra Mondiale, combattuta anche sul suolo ucraino sovietico, vista dalla prospettiva dell’invasore. Nel romanzo dello scrittore ucraino Serhij Žadan, pubblicato nel 2010, la narrazione ci riporta così alla lunga e travagliata storia del Paese, afflitto da conflitti e devastazioni nel corso del XX secolo. Il brano sembra riecheggiare profeticamente gli eventi drammatici che hanno sconvolto l’Ucraina a partire dai giorni successivi all’inizio dell’invasione su larga scala portata avanti dalla Federazione Russa nel febbraio del 2022, e ci aiuta a comprendere un aspetto fondamentale relativo alla percezione dell’odierno conflitto nutrita da parte degli artisti e degli intellettuali del Paese: la letteratura ucraina d’età post-sovietica è stata e rimane un eccezionale laboratorio per esplorare i traumi, le conseguenze e il lascito di guerre lontane e vicine, laddove, come amaramente affermato da Ernst, “in genere […] la storia non ci insegna nulla”.
L’esempio de La strada del Donbas di Žadan ci consente di guardare ai corsi e ricorsi storici che la guerra odierna sta riportando al centro dell’attenzione. Basti pensare che il titolo originale del romanzo, Vorošylovhrad, si riferisce al toponimo d’età sovietica dell’odierna Luhans’k, volto a celebrare Kliment Vorošilov, uno dei maggiori generali e personaggi politici sovietici. Paradossalmente, il vecchio toponimo è stato temporaneamente ristabilito dalla rappresentanza politica dell’autoproclamata Repubblica popolare di Luhans’k in occasione delle celebrazioni del 9 maggio 2022, celebrato in Unione Sovietica, in Russia e in altre repubbliche post-sovietiche come il giorno della Vittoria sul nazismo. Lo stesso autore ucraino, in un’intervista a La Repubblica, commentava l’evento senza restarne troppo sorpreso: “È davvero rivelatorio e sintomatico di come i russi e i filorussi stiano cercando di fermare il tempo”[2]. Già nel suo romanzo del 2010, pubblicato ben quattro anni prima dell’inizio della “nuova guerra” nel Donbas, l’attenzione di Žadan, artista poliedrico e una delle maggiori voci della resistenza culturale ucraina, ci introduceva al viaggio nel tempo e nello spazio di Herman verso Luhans’k/Vorošylovhrad, terra d’origine tanto del protagonista quanto dell’autore del libro. Un viaggio che si rivelava necessario per Herman, da una parte, per recuperare la propria identità e risanare la frattura tra passato e presente, e dall’altra per recuperare un senso di responsabilità civile utile a ricostruire il ponte tra il presente e il futuro di una comunità che si trovava per la prima volta a lottare in una vera e propria “guerra” in difesa della propria dignità contro la corruzione e il degrado.
Il romanzo di Žadan, che ha avuto un grande successo all’interno del Paese, è stato poi oggetto di una trasposizione cinematografica nel 2018, dal titolo Dyke Pole (The Wild Fields), diretta da Jaroslav Lodygin. Dal momento che il film è stato distribuito in un contesto molto diverso rispetto al romanzo, a quattro anni di distanza dall’inizio della guerra nell’Ucraina Orientale, The Wild Fields ha acquisito non a caso un significato diverso, amplificando simbolicamente quella che era la guerra privata di Herman in una guerra per la sopravvivenza del Paese (come testimoniato dal sottotitolo del film: “difendi ciò che è tuo”).
La trasposizione cinematografica rispetta a grandi linee la narrazione letteraria che conduce il protagonista trentenne “da qualche parte nel nord del Donbas”, prima alla ricerca del fratello scomparso e, successivamente, alla guida di un gruppo di “reduci” della transizione post-sovietica per la difesa di una pompa di benzina assediata da uomini d’affari corrotti. Uno degli aspetti che sicuramente assume un ruolo centrale e innovativo nel film di Lodygin è quello linguistico. Indubbiamente, la trasposizione cinematografica consente al regista di risolvere quello che per Žadan era uno dei maggiori problemi della prosa ucraina, ovvero la “sonorizzazione” dei dialoghi:
“Perché se tu scrivi, ad esempio, un romanzo in ucraino su Charkiv, in quale lingua devono parlare i tuoi eroi? È un problema che non ha soluzione. Perché io, ad esempio, ho scritto […] Vorošylovhrad su Charkiv e Luhans’k: i miei personaggi, anche nella vita di tutti i giorni, naturalmente, parlano russo. Si tratta di un russo particolare, non di quello classico: un accento meridionale, una sua variante regionale. Ma si tratta comunque di russo. Ed io ho cercato di riprodurlo utilizzando alcuni espedienti […] in Vorošylovhrad, dove ho creato un particolare discorso narrativo. Ma si tratta chiaramente di un compromesso”[3].
La trasposizione cinematografica di Lodygin risolve questo compromesso restituendo ai suoi protagonisti la possibilità di parlare nelle rispettive lingue e di comprendersi reciprocamente durante i dialoghi in cui si alternano l’ucraino e il russo. Attraverso questo espediente, lo spettatore può comprendere come il rapporto tra le due lingue, che viene oggi fortemente polarizzato nel dibattito politico, sia vissuto in modo molto più naturale di quanto possa sembrare: non solo ogni protagonista può conversare con il suo interlocutore utilizzando la lingua che preferisce, ma alcuni personaggi sono anche in grado di utilizzare lingue diverse nel corso dell’evolversi del film. Questo aspetto assume chiaramente un ruolo simbolico in alcune scene chiave di Dyke Pole. Come nella sequenza relativa all’incontro tra il protagonista Herman e il corrotto uomo d’affari, Marlen Mladenovič, su un treno privato diretto verso una direzione sconosciuta. Si tratta dell’unica scena in cui il protagonista, su richiesta del suo interlocutore, inizia a parlare in russo, e la conversazione inizia a vertere su temi che la guerra ora in corso avrebbe reso centrali per lo spettatore:
“Marlen Mladenovič: Voi che abitate qui siete gente strana. È difficile raggiungere un accordo o risolvere dei problemi. Prima chiedete aiuto e fissate un incontro, poi arrivo e offro il mio aiuto, ma lo rifiutate. E la risposta è: “non c’è bisogno, ce la vedremo da soli”. E, come se non bastasse, restate legati a questa terra, a questi luoghi. Vi sforzate di dire che la cosa principale è restare, senza possibilità di compromessi. Restate ancorati a questo vuoto.
Herman: Anche tu sei venuto qui per qualcosa, credo. E per cosa, se qui è così brutto?
M.M.: Sottovaluti il valore del capitale. Credi che nascere qui basti per darvi automaticamente il diritto di restarci?
H.: Non è così?
M.M.: Devi imparare a fare compromessi e a ottenere qualcosa in cambio.
H.: E cosa succede se non dai la possibilità di scegliere?
M.M.: Io la do sempre. Pensi che a me piaccia lasciarmi dei cadaveri dietro di me? Cosa dovrei fare con te? Resti legato al tuo passato come i morti.”
Le prime parole con cui Herman passa nuovamente alla lingua ucraina (“Non farò nessuna colazione con te”) incarneranno poi l’emblematico rifiuto di scendere a compromessi con il suo interlocutore, di fronte alla proposta di uccidere un animale a sangue freddo.
Indubbiamente, negli ultimi anni gli aspetti simbolico-culturali e la questione linguistica hanno assunto in tempo di guerra un significato ancora più centrale per comprendere i complessi sviluppi del contesto letterario e sociale dell’Ucraina odierna. Le parole di Aleksej Nikitin, scrittore ucraino di lingua russa, ci consentono di comprendere come la letteratura e, in misura più ampia, la cultura e l’arte siano potenzialmente tra le principali vittime anche del conflitto odierno, che finisce per pervaderne ogni venatura:
“È ovvio per me che la cultura ucraina è uno degli obiettivi dell’aggressione russa, e se la Russia dovesse realizzare i suoi obiettivi militari e conquistare l’Ucraina, allora non c’è alcun dubbio che anche la cultura ucraina verrà distrutta. Ciò che potrebbe essere meno ovvio è che la cultura ucraina in lingua russa scomparirà in mezzo alla distruzione.”[4]
Così oggi la guerra è al centro della scelta di molti autori di lingua russa, come Ija Kiva e Boris Chersonskij, di rinunciare alla loro lingua madre e di utilizzare soltanto l’ucraino come lingua della loro espressione letteraria. Per altri, come Andrej Kurkov, tuttavia, il russo, ovvero quello che viene descritto oggi come la “lingua del nemico”, resta ancora la lingua dell’intimità: “la mia lingua ‘interna’, la lingua dei miei sogni e dei mei pensieri, la mia lingua di lavoro”. Ed è proprio questa sfera intima e quasi mistica del conflitto, la dimensione privata della guerra, che trovava nel 2020 una sua trasposizione filmica in Pohani dorohy (Bad Roads) di Natalija Vorožbyt’. Il film è il frutto dell’adattamento dell’omonima opera teatrale della stessa autrice, messa in scena per la prima volta a Londra nel settembre del 2017. La pièce racchiude sei storie, che la regista ha raccolto da testimoni reali durante la stesura della sceneggiatura del film Kiborgy (Cyborgs, 2017), che si intersecano lungo le strade devastate dalla guerra nel Donbas. Nel film la regista seleziona quattro di queste storie, che vengono ambientate all’altezza di posti di blocco, di palazzi abbandonati, alla fermata dell’autobus. Sono storie che raccontano la quotidianità di chi vive in tempo di guerra, da una parte e dall’altra del fronte, storie in cui si alternano momenti di pace e di tensione. Vorožbyt’ riesce a restituirci la dimensione umana della guerra, mescolando carnefici e vittime e ricordandoci che l’abitudine alla violenza non fa altro che amplificare la possibilità di andare oltre la nostra naturale estraneità al conflitto. Sia la pièce che la sua trasposizione filmica riportano passaggi tanto in lingua russa quanto in lingua ucraina, ma in questo caso la lingua sembra già perdere i contorni dell’intimità per venire rinchiusa in molti passaggi del film all’interno di una barriera simbolica, che difficilmente può essere valicata per andare oltre il linguaggio del conflitto e recuperare la dimensione umana di un’esistenza in tempo di guerra.
Bibliografia e Sitografia:
Aleksej Nikitin, Le culture d’Ucraina e la loro distruzione in tempi di guerra, “Huffington Post”, 03/10/2022. https://www.huffingtonpost.it/esteri/2022/10/03/news/le_culture_ducraina_e_la_loro_distruzione_in_tempi_di_guerra_di_a_nikitin-10335849/ .
Fabio Tonacci, Lugansk torna Voroshilovgrad: il nome sovietico per un giorno serve per l’annessione a Mosca, “La Repubblica”, 08/05/2022, https://www.repubblica.it/esteri/2022/05/08/news/lugansk_torna_voroshilovgrad_nome_sovietico-348707553/ .
Marco Puleri, Narrazioni ibride post-sovietiche: per una letteratura ucraina di lingua russa, Firenze, Firenze University Press, 2016.
Serhij Žadan, La strada del Donbas, Roma, Voland, 2015.
Note:
[1] Serhij Žadan, La strada del Donbas, Roma, Voland, 2015, pp. 133-134.
[2] Fabio Tonacci, Lugansk torna Voroshilovgrad: il nome sovietico per un giorno serve per l’annessione a Mosca, “La Repubblica”, 08/05/2022, https://www.repubblica.it/esteri/2022/05/08/news/lugansk_torna_voroshilovgrad_nome_sovietico-348707553/.
[3] Marco Puleri, Narrazioni ibride post-sovietiche: per una letteratura ucraina di lingua russa, Firenze, Firenze University Press, 2016, p. 241.
[4] Aleksej Nikitin, Le culture d’Ucraina e la loro distruzione in tempi di guerra, “Huffington Post”, 03/10/2022. https://www.huffingtonpost.it/esteri/2022/10/03/news/le_culture_ducraina_e_la_loro_distruzione_in_tempi_di_guerra_di_a_nikitin-10335849/ .
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