Dodomu/Evge (Homeward) di Nariman Alijev

Martina Mecco

 

Regia: Nariman Alijev

 

Sceneggiatura: Nariman Alijev, Marysja Nikitjuk

Fotografia: Anton Fursa

Montaggio: Oleksandr Čornyj

Produttore: Volodymyr Jacenko

Produzione: Limelite / ForeFilms

Distribuzione: Arthouse Traffic

Origine: Ucraina

Lingua: Ucraino, Russo, Tataro di Crimea

Durata: 96’

Genere: Drammatico, Road Movie

 

Link al Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=ThK0Qc87uh0

 

Nariman Alijev (1992 -) è un regista e sceneggiatore ucraino di origini tatare. Il suo debutto avviene nel 2013 con “Povernutys’ zi svitankom/Tan Atqanda Qaytmaq” (Return at dawn), corto drammatico in cui indaga il rapporto padre figlio in un’ottica generazionale. Due anni più tardi segue “Tebe Kochaju/Seni sevem” (Love You), secondo cortometraggio ambientato in Crimea e incentrato sull’amore tra due giovani, lui tataro e lei russa. Nel 2016 realizza “Bez tebe/Senzis” (Without you), è invece incentrato sulle diatribe tra i due fratelli tatari protagonisti. “Dodomu” è il suo primo lungometraggio.

 

Trama: In seguito alla morte del fratello nella guerra del Donbas, Mustafa decide di seppellirne il cadavere nella loro terra d’origine, la Crimea. Ad accompagnarlo in questo viaggio tutt’altro che semplice è il figlio Alim, per il quale quest’esperienza si rivela essere occasione di crescita e riscoperta delle proprie origini tatare. Un viaggio verso una patria a lungo negata, in una terra regolata da confini e conflitti.

 

Interpreti:

Achtem Seitablajev – Mustafa

Remzi Biljalov – Alim

Viktor Ždanov – Vasja

 


Dodomu, presentato nel 2019 al Festival del Cinema di Cannes nella sezione “Un Certain Regard”, non è solo il primo lungometraggio del regista ucraino Nariman Alijev, ma anche un film in cui convergono temi già presenti nei suoi cortometraggi precedenti. Sviluppandosi su una trama priva di passaggi particolarmente complessi, le questioni indagate nell’opera ruotano intorno al concetto dell’identità. Un’identità che, se considerate le vicissitudini che hanno segnato la storia di un popolo come quello dei Tatari di Crimea, presenta non pochi aspetti problematici, tanto nel passato sovietico quanto nella Storia recente. Un tema che riguarda da vicino anche il regista, qui impegnato a confrontarsi con un concetto di “origine” in cui egli stesso si riconosce profondamente.

Non è affatto errato definire Dodomu in termini di Road Movie. Tuttavia, il viaggio intrapreso da Mustafa e dal figlio Alim si profila sin da subito come un’impresa tutt’altro che ordinaria. Complici, in primo luogo, le vicende che hanno segnato la Penisola di Crimea dall’annessione del 2014 a oggi. Difatti, dopo l’invasione della penisola da parte della Russia, gli spostamenti da e verso la Crimea sono rigidamente scanditi da controlli di frontiera per nulla semplici da aggirare. La complessa fattualità del viaggio non è uno dei motivi che più preoccupano Mustafa, il quale è piuttosto convinto della necessità di fare ritorno in una terra a cui sente di appartenere visceralmente. La morte del fratello, la cui salma deve necessariamente essere seppellita nel suolo della patria Crimeana, arreca con sé due sentimenti legati in modo indissolubile. Da un lato c’è la tragicità dell’avvenimento – aggravato ancor di più dal fatto che egli muore combattendo nella guerra del Donbas –, dall’altro va ricordato che è proprio da questo motivo che scaturisce il bisogno del ritorno. Un ritorno il cui compiersi è metafora di un percorso verso una rinascita spirituale per Mustafa e una sorta di disvelamento per il figlio Alim. Se per il primo tornare in Crimea significa tornare a fare i conti con il proprio passato, per il secondo è invece un’occasione per costruire una nuova consapevolezza del futuro sulle tradizioni della propria patria.

Il viaggio rappresenta anche la dimensione entro cui si dischiude un altro tema fondamentale del film. La complessità dei legami familiari, questione già indagata da Alijev nel corto Povernutys’ zi svitankom, trova qui un più ampio respiro. Difatti, sin dall’inizio è chiaro come il rapporto tra Mustafa e il figlio Alim sia molto complesso, sia per un motivo di stampo prettamente generazionale che per la mancanza di una vera e propria comunicazione. Alim manifesta sin da subito la sua impossibilità a comprendere le scelte del padre, e i due sembrano essere portatori di valori molto distanti. Se per Mustafa, infatti, i valori come quelli della famiglia e della patria sono inalienabili, per Alim questa identificazione non è immediata. Scena emblematica in questo senso è quella in cui, dopo essere stato informato dal padre dell’imminenza del viaggio, Alim manifesta la preoccupazione che dovrà mancare per giorni dalle aule universitarie, dove studia giornalismo, informazione che Mustafa ignora completamente. Il viaggio, nonostante le premesse iniziali, assolve alla funzione di ricomporre le parti, ed è proprio attraverso questa esperienza che padre e figlio riescono a ricostruire, o forse semplicemente costruire, un rapporto e un equilibrio che trova il suo pieno raggiungimento nelle battute conclusive.

Le scene finali costituiscono un contrappeso anche visuale rispetto a quelle con cui si apre il film. Se inizialmente lo spettatore è introdotto alla vicenda di Mustafa e Alim attraverso spazi chiusi e poco illuminati, la conclusione viene invece incorniciata all’interno di ampie e aperte distese, in una natura selvaggia e priva della presenza umana. A evidenziare ancora di più questo contrasto sopraggiunge l’uso della cinepresa: mentre la parte iniziale è costituita da un susseguirsi di inquadrature ravvicinate, che mostrano alternativamente i due protagonisti, quella finale si basa su tutt’altra scelta. Alijev decide di impiegare inquadrature ampie rinunciando all’uso del primo piano e preferendo lo sviluppo di un piano-sequenza che rallenta l’azione in un long take che favorisce una certa riflessività. Inoltre, optando per una totale assenza della colonna sonora il regista realizza un film in cui domina una tensione incentrata su poche questioni fondamentali: religione, identità e tradizioni sono le tessere dell’intimo mosaico familiare di Mustafa e Alim. In conclusione, l’autenticità della sceneggiatura di Alijev e Nikitjuk contribuisce a creare un prodotto cinematografico dove la questione familiare anela a un respiro più ampio, in termini di costruzione e recupero delle radici di un popolo violentemente estirpato dalla propria terra.