Viktor Toth
Regia: Alina Horlova
Sceneggiatura: Alina Horlova, Maksym Nakonečnyj
Fotografia: V”jačeslav Cvjetkov
Montaggio: Alina Horlova
Produttore: Maksym Nakonečnyj
Produzione: Tabor Production
Distribuzione: Vitrine Filmes
Origine: Ucraina, Lituania, Germania
Lingua: Ucraino, Curdo, Arabo, Tedesco
Durata: 100’
Genere: Documentario
Link al Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=3L0fVDSU8yc
Alina Horlova (1992 -) ha studiato all’Università di Cinema e Teatro Ivan Karpenko-Karyj di Kyïv. Ha firmato alcuni mediometraggi e cortometraggi. A partire da “Javnych projaviv nemaje” (No Obvious Signs) ha curato personalmente anche il montaggio dei propri film. Il suo documentario “Cej došč nikoly ne skinčyt’sja” (This rain will never stop) è stato presentato e premiato in numerosi festival di cinema, tra cui il Festival dei Popoli in Italia. Nel 2022 si è occupata del montaggio di “Bačennja metelyka” (Butterfly Vision), film di Maksym Nakonečnyj presentato nella sezione “Un Certain Regard” a Cannes.
Trama: Andrij vive in Ucraina ed è un volontario della Croce Rossa. Una serie di eventi lo spinge a visitare i familiari e parenti, tutti di origine curda, fuggiti dalla guerra in Siria e sparsi per l’Europa ed il Vicino Oriente.
Le ampie inquadrature in bianco e nero di lande desolate, le silenziose scene brulle ritmate principalmente dal rumore di macchinari e di lontane armi da fuoco sembrano introdurre un film d’autore di finzione, più che un documentario. Eppure, in Cej došč nikoly ne skinčyt’sja ci si trova di fronte ad un film documentario che rappresenta una realtà concreta, marginale all’epoca dell’uscita rispetto allo scenario internazionale: nel 2020 ormai poco si parlava di due conflitti scoppiati anni prima e che nei media erano ormai assenti, la guerra civile in Siria e il conflitto in Ucraina. Ancora meno trattata era la realtà della minoranza curda e del territorio del Kurdistan, diviso dai confini di derivazione coloniale dei paesi mediorientali. Ad essere oggetto del film è la diaspora di questo popolo, raccontata attraverso una famiglia, i Sulejman, che ha abbandonato la Siria sette anni prima ed è emigrata in varie direzioni.
Volontario della Croce Rossa Ucraina, Andrij è il protagonista della vicenda, e attraverso i suoi spostamenti lo spettatore conosce gli altri familiari, che abitano in altre nazioni: un fratello si sposa in Germania, un parente vive in Iraq. Il viaggio di Andrij è a ritroso, dalla terra di arrivo alla terra di partenza, un ricongiungimento con le origini, temporaneamente poste in secondo piano da lui ma mai abbandonate del tutto. In una scena afferma di non parlare il curdo regolarmente da tanti anni ormai, mentre precedentemente in Germania il matrimonio sembra rispettare le tradizioni culturali del suo popolo. Siamo dunque di fronte ad una storia di integrazione sociale in cui viene mantenuto e ravvivato il contatto con le proprie radici.
Le guerre in corso, centrali per il lungometraggio, restano quasi sempre un agente invisibile, esterno, percepito da tutti nelle interazioni, ma quasi mai visibili direttamente. Se ne osservano gli effetti, come il cliente del membro iracheno della famiglia, che ha una ferita grave ad un occhio. Altre avvisaglie dei conflitti si osservano nella fabbrica dove vengono assemblati carri armati, o nelle scene di un corteo militare visibile nella prima metà del film.
Costruito in 11 capitoli, il lavoro della Horlova segue la numerazione in arabo da 0 a 9 per tornare di nuovo a 0, suggerendo un percorso di vita, morte e rinascita. Ma la rinascita non può avvenire in questa terra: la conclusione riporta alla Germania, ad un gay pride, al luogo dove il padre di Andrij gli aveva intimato di emigrare per poter continuare gli studi. Sebbene nelle interazioni familiari si affermi spesso una volontà di ritorno alla patria in Siria, questa sembra una prospettiva impossibile e pericolosa, a sottolineare la necessità della migrazione, aspetto centrale del film.
Largo spazio ha avuto all’epoca dell’uscita il dibattito sui flussi migratori, la contrapposizione politica tra accoglienza ed espulsione. Cej došč nikoly ne skinčyt’sja rientra in parte in una serie di film est-europei del periodo che sono nati in reazione al dibattito ed alle scelte di alcuni paesi della regione, ma al contrario di altri film non costruisce una figura di “altro” al quale bisogna avvicinarsi o da cui ci si distanzia, invece esamina una dinamica pan-eurasiatica di situazione geopolitica comune, perlomeno per quanto riguarda Europa dell’est ed Asia Medio-Orientale. Il bianco e nero rende uniforme i luoghi presentati, così che difficilmente si distingue la natura della guerra in una nazione dall’altra. A differenziarsi leggermente è la Germania, in cui si respira di meno la desolazione causata dai conflitti, e che rimane un luogo della speranza da raggiungere.
Pur trattandosi di un documentario, è facile confonderlo per un lungometraggio di finzione. Più che di esporre una forma di realtà in forma divulgativa, Cej došč nikoly ne skinčyt’sja predilige la narrazione, adottando il monocromo, una struttura a capitoli, una certa non-linearità – anticipando una morte importante che avviene a metà film – che lo rendono un documentario dai caratteri inusuali. Inoltre, le scelte di montaggio hanno permesso all’opera di avere una costruzione strutturata narratologicamente in modo più affine al cinema di finzione che al documentario. Al contrario della maggior parte delle opere di questo genere, Cej došč nikoly ne skinčyt’sja non si propone come uno spiraglio oggettivo su una realtà quanto come una rappresentazione filmica soggettiva. Nella focalizzazione su Andrij c’è anche la volontà di rappresentare una minoranza etnica integrata nella società ucraina, che ne fa parte e che è partecipe delle difficoltà, ma che è doppiamente vittima di due guerre, entrambe le volte dello stesso carnefice.