Il cinema ucraino dopo il 2014: una terapia di gruppo per una nuova identità nazionale

Massimo Tria

 

Ci sono alcune cinematografie per le quali degli eventi storici di particolare importanza hanno svolto il ruolo di spartiacque, diventando inevitabilmente momento di discrimine tipologico e/o cronologico. Si pensi a quello che hanno significato il 1968 e l’invasione sovietica per l’allora fiorente cinema cecoslovacco, imbrigliato poi per una ventina d’anni in nuove griglie censorie, o la perestrojka per il cinema russo-sovietico, per il quale solo con l’arrivo di Gorbačёv fu possibile sbloccare pellicole censurate per anni e riattualizzare nuovamente stili e temi che avrebbero ispirato nuove generazioni di autori.

Per il cinema ucraino questo spartiacque è senza dubbio rappresentato dal 2014[1], ossia dalla cacciata del presidente filorusso Viktor Janukovyč attraverso quella che gli ucraini chiamano la “Rivoluzione della Dignità”, o “Euromajdan”[2]. Sostenute da una nuova libertà espressiva, ma anche scioccate dal trauma della guerra e dell’invasione russa, un paio di generazioni di autori ucraini hanno sviluppato sistematicamente dinamiche e narrazioni che recuperassero tradizioni locali, approcci nazionali ed interpretazioni oppositive rispetto all’ingombrante influenza esercitata fino ad allora dal “mondo culturale russo”. Tale tendenza “anticoloniale” non è stata scevra di eccessi e semplificazioni: la centralità della tematica nazionale e identitaria, per esempio, è diventata a volte ingombrante in alcuni ambiti meno ispirati della produzione filmica. Ma le buone pratiche produttive, un sistema di valutazione e finanziamento dei progetti più strutturato, la presenza di molti giovani talenti e una certa solidarietà corporativa ci permettono almeno in parte di leggere il nuovo cinema di Kyïv e dintorni come una “macro-esperienza collettiva” (non priva di elementi terapeutici e anti-traumatici). Il trauma, appunto, del 2014 ha dato vita a una sorta di reazione a catena creativa, coscientemente e funzionalmente supportata dal punto di vista economico e mediatico dalle istituzioni centrali. Fra queste, come confermato dalle interviste che arricchiscono questo speciale, la nuova Agenzia Statale Ucraina per il Cinema (“Deržkino”), riformata nel 2011, ha svolto un ruolo fondamentale, fornendo quella piattaforma organizzativa e promotrice e quei punti di riferimento anche ideologici che hanno permesso a nuovi talenti di lavorare all’interno di una rete di contatti e di un sistema di pratiche e meccanismi finanziari centralizzato e funzionale.

In uno spazio necessariamente ristretto come questo proveremo ad evidenziare alcune tipologie e protagonisti del cinema d’autore ucraino di qualità, prodotto e distribuito dopo il 2014. Non ci occuperemo dunque né delle opere più corrive di genere, né del cinema di propaganda bellico o comunque politicamente schierato.

Sarebbe difficile intavolare un qualunque discorso sul nuovo cinema ucraino senza partire dall’Alpha, dal Big Bang, dal punto di partenza mediatico mondiale rappresentato da The Tribe (2014) di Myroslav Slabošpyc’kyj. Esso offre diversi spunti interpretativi: fu presentato in maggio al Festival di Cannes proprio in concomitanza con l’inizio di quella che sarebbe diventata una lunghissima guerra, reale, ibrida e anche culturale-mediatica, che in quel mese vedeva la Crimea da poco occupata e i separatisti del Donbas organizzare i cosiddetti “referendum per l’indipendenza”[3]. Ad occuparsi della fotografia e della produzione c’era quel Valentyn Vasjanovyč che tanto avrebbe poi significato per la collocazione del “nuovo cinema” del suo Paese sulle mappe mondiali (si veda la sua doppia partecipazione alla Mostra di Venezia, con premi e consensi significativi), rappresentando così uno dei primi esempi di quella fruttuosa interazione di professionalità e di quello spirito collaborativo fra i vari protagonisti della “nuova ondata” che ancora oggi ne compatta e rafforza le file. Il fatto, poi, che Slabošpyc’kyj fosse un regista vissuto e operante a lungo in Russia (sposato peraltro con una pietroburghese), e tornato nel 2014 nella madrepatria non può che sottolineare la trasversalità simbolica dell’opera, soprattutto se si ricorda che paradossalmente questo film-apripista fu girato, sì, in lingua ucraina, ma in quella dei segni. È, dunque, questa, un’opera sintomaticamente universale e locale ad un tempo, ugualmente comprensibile e ugualmente ostica per i possibili spettatori alle varie latitudini, primo segnale di un ritorno “obbligato” alle fonti culturali ucraine. Allo stesso Festival di Cannes veniva presentato un altro film chiave, quel Maidan di Sergej Loznica che (anch’esso incentrato più sull’aspetto visuale che su quello verbale) ci costringeva definitivamente a concentrare la nostra distratta attenzione su un enorme paese europeo in subbuglio.

La prima, comprensibile, reazione del mondo cinematografico ucraino all’esacerbarsi dello scontro con la Russia fu di rabbia e impegno militante. Da qui nascono alcune opere che ricostruiscono gli eventi cruciali (Majdan, Donbas, Crimea) secondo un’interpretazione in buona parte mitizzante e “kievo-centrica”. Impossibile fare altrimenti, visto che i finanziamenti e la catena di approvazione amministrativa facevano capo alla nuova dirigenza statale, anti-cremliniana e non esente da eccessi revanscisti. Impossibile fare altrimenti, però, anche in forza di un sincero e giustificato sentimento militante di artisti e intellettuali minacciati e posti di fronte a scelte tragiche e inedite. Ci siamo occupati altrove della ricchissima produzione nazionale sul Majdan[4], qui ci limiteremo a ricordare che (a parte alcuni casi virtuosi come il succitato monstre osservazionale di Loznica, o All Things Ablaze di Oleksandr Tečyns’kyj, 2014) molti dei film prodotti sul tema avevano un carattere estetico-informativo limitato, e puntavano a confermare posizioni e funzioni unificanti per un popolo aggredito e ferito, secondo quella che si potrebbe definire una catartica “propaganda emotiva”. Per quel che concerne, invece, le zone orientali del conflitto, è ancora Loznica a offrirci spunti non banali, anche se in realtà il suo Donbass (2018) lascia in parte sconcertati per toni cinici e grotteschi che (per quanto basati su eventi reali) non rendono forse giustizia ad una situazione così drammatica come quella vissuta dalle popolazioni di quel territorio. È altrove che vanno cercati sguardi più profondi in merito all’ingerenza russa nel calderone di Luhan’sk e Donec’k, per esempio in film come Klondike (2022) di Maryna Er Horbač, Bad Roads (2020) di Natalija Vorožbyt o The Forgotten di Darija Onyščenko, che, pur non facendo sconti a nessuno, riescono a concentrarsi su dimensioni antropologiche più sfaccettate e raffinate, privilegiando un approccio più realistico. Non è un caso che i tre film succitati siano opere di donne forti e volitive, tutt’altro che succubi ad imposizioni o narrazioni tradizionali/patriarcali, all’interno di una nuova scena che vede molte amazzoni e combattenti impegnate sulla prima linea cinematografica.

Valentyn Vasjanovyč, Reflection

Questo cinema realistico di impegno civile ha sicuramente svolto un ruolo importantissimo negli ultimi otto anni, dando vita anche ad alcuni fra i prodotti cinematografici più compatti: oltre a quelli succitati, non si può non ricordare Homeward (2019) di Nariman Alijev o Blindfold (2020) di Taras Dron’, o ancora Butterfly Vision di Maksym Nakonečnyj, film che fra l’altro ha il grande merito di porsi molto criticamente contro le violenze di certi gruppi estremisti ucraini. Homeward, invece, testimonia in particolare una delle ferite specifiche legate all’annessione della Crimea, ovvero il dramma del popolo tataro (di cui Alijev è un battagliero esponente) che nel 1944 fu deportato dalla penisola da Stalin, e che ora si ritrova ancora una volta limitato nella sua autonomia politico-culturale dal nuovo governo locale filorusso. Ma fra gli autori che riflettono sulla violenza della guerra si distingue, per rigore stilistico e risultati artistici eccelsi, il succitato Vasjanovyč, che da un cinema borghese più disimpegnato si è evoluto verso orizzonti di riflessione esistenziale e analisi antropologiche di alto livello: i suoi Atlantis (2019) e Reflection (2021) costituiscono un dittico di alta tragicità, in cui ad un ipotetico futuro di pace nel Donbas (il primo film è ambientato nel 2025) si contrappone una dolorosa, attualissima sonda nell’animo di un medico, sconvolto dai crimini di guerra dei separatisti (di cui in Reflection vediamo una ricostruzione sconvolgente).

Fondamentale è stato anche il contributo interpretativo del cinema documentario, in parte germinato proprio dall’esperienza aggregante del Majdan, dove ha mosso i primi passi un collettivo di filmmaker come “Babylon’ 13”, che ha visto nascere alcuni talenti poi distintisi con opere individuali di pregio (Kateryna Hornostaj, Volodymyr Tychyj, Roman Bondarčuk). Sono proprio alcuni lavori documentari a testimoniare la partecipazione ad un condiviso desiderio di novità e indipendenza da parte di cittadini ucraini di varia etnia, formazione e provenienza sociale: dei tatari si è già detto, ma si pensi anche al ritratto di un giovane cittadino rom che ha preso parte alla rivoluzione, in Outside (2022) di Ol’ha Žurba, o all’attivismo di un profugo curdo-siriano trapiantato a Kyïv, la cui odissea seguiamo in This Rain Will Never Stop (2020) di Alina Horlova. Inevitabile, poi, che molte opere di osservazione si affissino sulle zone limitrofe (geograficamente o psicologicamente) alla guerra. I risultati più interessanti per queste “esperienze di confine” si possono rintracciare in The Earth Is Blue As an Orange (2020) di Iryna Cilyk, Alisa in Warland (2015) di Alisa Kovalenko (lei stessa combattente e con un’esperienza di prigionia russa), Boney Piles (2022) di Taras Tomenko, o ancora No Obvious Signs (2018) della Horlova. Documentarista di pregio e organizzatrice culturale dai molti meriti è poi Nadija Parfan, che oltre ad avere creato Takflix[5], un sito on demand che raccoglie buona parte delle novità filmiche nazionali di qualità, è autrice di alcune interessanti opere dal taglio ironico, come Heat Singers (2019).

Boney Piles, Taras Tomenko

Fondamentale, si diceva, il contributo di figure organizzative e tecniche, che hanno saputo trasformare in realtà i potenziali talenti registici abbondantemente presenti nel paese. Si pensi, ad esempio, a direttori e organizzatori di kermesse festivaliere: Julija Sin’kevyč per il festival di Odesa, o i team del festival “Kharkiv MeetDocs”, e di quello per i diritti umani “Docudays UA”, giusto per citarne alcuni. Molto abili e dallo sguardo istintivamente internazionale sono i produttori che sono riusciti a farsi largo con ottime strategie di public relations e politiche di sostegno ai nuovi talenti. Senza di loro non avremmo avuto diversi film ucraini passati nei cosiddetti festival di Classe A. Vanno ricordati per lo meno Volodymyr Jacenko, che ha portato Vasjanovyč agli allori veneziani, Denys Ivanov, Ihor Savyčenko, o la più giovane Valerija Sočyvec’, che con fatiche piccole e costanti sta facendo crescere uno degli ensemble produttivi più sfaccettati e promettenti, il SUK, “Sučasne Ukraїns’ke Kino” (“Cinema Ucraino Contemporaneo”). Ma su tutti va citato Pylyp Illjenko, unanimemente lodato dai nuovi autori ucraini quale figura che, a capo del summenzionato, fondamentale “Deržkino” dal 2014 al 2019, ha saputo dare nuova concretezza, visibilità internazionale e spazio logistico alla nuova nidiata (si pensi anche solo agli stand del cinema ucraino fioriti in molti festival mondiali dal 2014 in poi, o ai cataloghi e ai materiali informativi finalmente disponibili per i professionisti del settore). Illjenko è membro del partito nazionalista “Svoboda”, una delle tre principali formazioni politiche che hanno sostenuto il Majdan, i meriti suoi e dei suoi collaboratori sono enormi e innegabili, ma forse fra qualche anno e con un’Ucraina finalmente libera dagli invasori russi potremo studiare con maggiore attenzione alcune semplificazioni esegetiche e l’orientamento fortemente patriottico di certa “produzione di servizio”, attivamente sostenuta negli ultimi anni[6]. L’Ucraina, del resto, è un paese invaso, e sarebbe ingenuo pensare che la costruzione dell’identità artistica, l’autorappresentazione storica e la politica della memoria in tali condizioni possano rimanere immuni da interferenze politiche o da tendenziosità “obbligate” da un continuo stato di emergenza. Tanto più preoccupanti sono dunque alcuni progetti dell’attuale  dirigenza dell’Agenzia per il Cinema, che, per esempio, nel 2022 ha  intrapreso una cosiddetta “riorganizzazione” del glorioso e  fondamentale Centro Dovženko, il principale archivio cinematografico  del Paese, che rischia un pericoloso smembramento e depotenziamento  delle sue funzioni. Moltissimi registi e operatori culturali del  cinema ucraino si sono espressi con forza contro la gestione  dell’attuale Direttrice, Maryna Kuderčuk.

Heat Singers, Nadija Parfan

Ma pensare che il nuovo cinema del Paese si ghettizzi con toni auto-incensatori nel solo ambito della riflessione bellica o militante sarebbe un errore. Sebbene lo shock dell’invasione e il discorso storico-identitario siano inevitabilmente molto forti, esistono altri approcci, altri stili che hanno portato frutti considerevoli nell’ultimo decennio. Si pensi ad un cinema che, semplificando moltissimo, potremmo chiamare lirico-folclorico, in quanto riprende tradizioni locali e le innerva di una gamma stilistico-cromatica accesa e pop(olare) per rappresentare contrasti sostanzialmente extra-temporali ed universali. Gli esempi più riusciti sono rappresentati dagli esordi nel lungometraggio di Marysja Nikitjuk (anche poetessa e narratrice) e Dmytro Sucholytkyj-Sobčuk (autore anche di corti e documentari sul folklore). Con When the Trees Fall (2018) Nikitjuk esplora una provincia ucraina immersa nelle forze erotiche della natura e connessa a doppio filo con gli spiriti del regno dei morti, in cui le vicende delinquenziali e amorose della coppia protagonista sono quasi sublimate in un contesto da fiaba nera che pulsa del proverbiale connubio fra Eros e Thanatos. In Pamfir (2022), invece, Sucholytkyj-Sobčuk convoglia l’energia ancestrale e il fascino antico delle zone occidentali del paese al confine con la Romania, in uno dei film più muscolari e potenti degli ultimi anni, intessuto di riti carnevaleschi, controverso amore familiare e tragica morale da contrabbandieri. Anche altre opere meno importanti si inscrivono in questa atmosfera di chiaroscurale realismo magico, che (assente la guerra) avrebbe sicuramente potuto svilupparsi con maggiore libertà. Per chiudere con una considerazione sui generi, diremo che anche il thriller di qualità (Dmytro Tomašpol’s’kij) o l’eastern (Jaroslav Lodygin, Roman Bondarčuk), quando non addirittura il musical (Оlena Dem’janenko) sono rappresentati con opere di buona fattura, mentre la commedia dai leggeri toni esistenziali ha in Antonio Lukič il suo esponente più talentuoso, per esempio con quella chicca che è il suo esordio nel lungometraggio di finzione My Thoughts Are Silent (2019). Non dimentichiamo, infatti, che le opere prime sono state numerosissime nel periodo che analizziamo, nell’ambito di una comunità artistica piuttosto giovane.

Citazione a parte merita poi Oleh Sencov, purtroppo per anni noto soprattutto per la sua vicenda giudiziaria (è stato prigioniero nelle carceri russe), ma che fin dagli inizi è riuscito a muoversi con grande libertà espressiva nei più diversi generi. Di particolare pregio è quella che potremmo chiamare la sua “versione ucraina” delle epopee scorsesiane, quel Rhino (2021) con cui ha esordito al Lido veneziano, solo qualche mese prima di vestire l’uniforme da volontario e andare al fronte, dopo l’invasione russa del febbraio di quest’anno. Alcune le abbiamo già citate, ma in chiusura non possiamo che ricordare con piacere la fortissima presenza di autrici femminili, diremmo “amazzoni e guerriere” abili nell’esplorare diversi itinerari e approcci, senza limitarsi ad uno “sguardo di genere”: Kristina Tyn’kevyč, Maryna Stepans’ka. Olesja Morgunec’-Isajenko, Eva Nejman, Tonja Nojabr’ova…

La speranza con cui chiudiamo il nostro intervento è, ovviamente, che tutti gli autori ucraini al momento impegnati a diverso titolo sul fronte bellico possano tornare sani e salvi e possano riprendere il prima possibile ad esprimere con libertà e indipendenza creativa assoluta il proprio talento artistico.

 

Bibliografia:

Christopher Miller, Ukrainian Filmmaking Emerges from the Shadows, but Can ‘Patriotism’ Pack Cinemas?, in “Radio Free Europe”, 25/10/2018, https://www.rferl.org/a/ukrainian-filmmaking-boom-patriotic-funding-dovbush-illienko/29563635.html.

Kostiantyn Fedorenko, The Two Movements: Liberals and Nationalists During Euromaidan, in “Ideology and Politics”, No 1, 2015, pp. 4-35.

Massimo Tria, Il cinema in piazza. Il Majdan e la sua rappresentazione, in “Cineforum”, No. 567, 2017, pp. 48-59.

Olga Onuch, Gwendolyn Sasse, The Maidan in Movement: Diversity and the Cycles of Protest, in “Europe-Asia Studies”, No 68:4, 2016, pp. 556-587.

Simone Attilio Bellezza, Il destino dell’Ucraina. Il futuro dell’Europa, Brescia, Morcelliana-Scholé, 2022.

Ucraina. Assedio alla democrazia. Alle radici della guerra, A cura di Memorial Italia. Coordinamento di Marcello Flores, Milano, RCS MediaGroup S.p.A., 2022.

Note:

[1] Per gli ultimi anni della storia ucraina si veda Simone Attilio Bellezza, Il destino dell’Ucraina. Il futuro dell’Europa, Brescia, Morcelliana-Scholé, 2022.

[2] Per una descrizione delle varie fasi del Majdan e dei diversi gruppi che lo animarono si leggano: Kostiantyn Fedorenko, The Two Movements: Liberals and Nationalists During Euromaidan, in “Ideology and Politics”, No 1, 2015, pp. 4-35, e Olga Onuch, Gwendolyn Sasse, The Maidan in Movement: Diversity and the Cycles of Protest, in “Europe-Asia Studies”, No 68:4, 2016, pp. 556-587.

[3] Per una disamina attenta dei principali temi ricorrenti in merito alla guerra russo-ucraina consigliamo Ucraina. Assedio alla democrazia. Alle radici della guerra, a cura di Memorial Italia. Coordinamento di Marcello Flores, Milano, RCS MediaGroup S.p.A., 2022.

[4] Massimo Tria, Il cinema in piazza. Il Majdan e la sua rappresentazione, in “Cineforum”, No. 567, 2017, pp. 48-59.

[5] https://takflix.com/uk .

[6] Si  leggano qui alcune considerazioni critiche in merito: https://www.rferl.org/a/ukrainian-filmmaking-boom-patriotic-funding-dovbush-illienko/29563635.html (ultimo accesso 07/11/2012).