Francesca Pizzinga
Pubblicato da Stilo Editrice nel maggio del 2022, Traumaturgie di Krystyna Jaworska, Massimo Maurizio e Roberto Merlo, è un’antologia che offre ai lettori le originali prospettive di tre autori dell’Europa centro-orientale sui traumi collettivi che hanno profondamente marcato e stravolto la storia di fine Novecento. Le voci poetiche della polacca Beata Obertyńska, del romeno Matei Vișniec e della bielorussa Marija Malinovskaja si incontrano in quest’opera intonando un doloroso e aspro canone sull’indicibile esperienza dei traumi collettivi.
Link al libro: https://www.stiloeditrice.it/scheda-libro/krystyna-jaworska-massimo-maurizio-roberto-merlo/traumaturgie-9788864792361-209.html
La struttura tripartita del volume, che presenta testi poetici con traduzione a fronte corredati da approfonditi e interessanti saggi introduttivi sulla poetica di ogni singolo autore presentato, è non solo funzionale all’organicità strutturale ma rappresenta anche una sorta di volontario procedere graduale all’interno del dolore, individuale e non, causato dalla guerra, dai totalitarismi dell’est Europa, dalla violenza e dalle malattie mentali, piaghe indiscusse degli anni finali del XX secolo.
Il lettore viene portato, tra le pagine di Traumaturgie, ad esperire e ad avere piena contezza, attraverso la poesia, di questi dolorosi e strazianti aspetti che hanno caratterizzato la fine del secolo scorso. Questa antologia descrive inoltre il modo in cui la poesia sia riuscita, in momenti e contesti diversi, a diventare lo strumento autoriale prediletto per sovvertire, illudere ed eludere i regimi totalitari che hanno limitato e condizionato le società di ogni epoca.
I tre autori presi a modello all’interno del volume sono esempi calzanti e significativi di come abilmente si possa trattare in poesia l’esperienza dell’indicibile in contesti che mirano a limitare ogni tipo di espressione individuale attraverso diversi escamotages come l’impiego di espressioni simboliche o metaforiche che utilizzano un linguaggio capace di non snaturare o minimizzare mai il carattere mostruoso di tali eventi.
Il saggio di Massimo Maurizio apre l’antologia presentando al lettore la scrittura poetica documentale della bielorussa Marija Malinovskaja che, grazie ad un linguaggio fortemente espressivo, scardina quella indicibilità che tutt’ora ruota intorno ai traumi sociali che portano il singolo individuo ad un logorio interiore che inevitabilmente sfocia in malattia mentale o violenza. La giovanissima poetessa bielorussa riporta in versi la voce di coloro che la società marginalizza o cerca di celare e la sua poesia riesce a diventare simbolo e, allo stesso tempo, duro grido di denuncia di quella cruda e oltraggiosa violenza e sopraffazione che ha dilagato all’interno dei manicomi dell’est Europa.
“30.05.2013
oggi mi hanno oltraggiato
e mi hanno smembrata come una bambina
da tutti i parametri indiretti è venuto fuori che sono una bambina
alla quale è riservato un posto
soltanto nella violenza.” (p. 33)
L’esperienza individuale dei traumi della violenza e delle malattie mentali lasciano poi il posto alle parole di Krystyna Jaworska che descrivono la poetica della poetessa polacca Beata Obertyńska. Questi rappresenta una delle voci poetiche femminili più significative di fine novecento, capace di riportare in modo veridico la crudeltà dei campi di concentramento di cui lei stessa ha fatto tristemente esperienza.
Ogni evento viene presentato nei suoi versi in un modo estremamente diretto, emozionale e corporeo che lascia trapelare una profonda affezione ma anche un certo cameratismo nei confronti delle compagne di sventura, offrendo al contempo dure e profonde riflessioni sui reconditi e perversi meccanismi delle manipolazioni messe in atto del potere sovietico. Nella sua poetica, che il lettore italiano può assaporare attraverso i testi scelti e corredati di traduzione a fronte che gli autori hanno inserito all’interno del volume, la poetessa dà voce ad una molteplicità di personaggi tra loro diversi offrendo, così, inattese prospettive con altrettanti inattesi risvolti simbolici. La poesia di Beata Obertyńska è essenzialmente di tipo naturalistico: alberi e animali, dotati di una personalità propria, diventano insoliti e originali strumenti impiegati per, in primis, scardinare una prospettiva esclusivamente maschile che il canone della letteratura di guerra aveva fatto propria e, in secondo luogo, per aumentare la partecipazione emotiva del lettore e il senso di autenticità della narrazione.
“Ogni albero aveva laggiù qualcosa da dire…
Ogni albero in quel frutteto era sempre singolare!
Ora – che si è disciolto nello spazio e nel tempo,
è possibile solo parlarne…e ricordare.” (p. 77)
Le battute finali del volume vengono affidate ai versi di Matei Vișniec che, all’interno di una cornice magistralmente cesellata dal saggio introduttivo di Roberto Merlo, descrive gli aspetti più scabrosi di questa nave-società il cui nocchiero, l’infernale regime comunista, ha portato alla deriva.
Il poeta romeno viene presentato da Merlo come un traumaturgo, ovvero come:
“[…] un “facitore di ferite”, proprie e altrui. Ferite che non insegnano a guarire ma, nel mostrarci il male, ci determinano, se ne siamo intenzionati, a cercare ostinatamente la possibilità di una guarigione e ancor più a evitare l’originarsi del male.” (p.180)
Un poeta, Matei Vișniec, che, nonostante le asperità e la dura repressione messa in atto dal diabolico capitolo del comunismo romeno, ha sempre gelosamente custodito e rinnovato il suo amore per quello che considera essere l’unico mezzo per sovvertire la follia della società contemporanea, ovvero la poesia:
“[…] per oltre 20 anni l’ho amata … e dopo ogni poesia riuscite soffrivo ancor di più perché mi pareva che non cambiasse subito e in modo radicale il corso della storia e il volto del mondo, come ritenevo dovesse accadere con la poesia.” (p.147)
La poesia diventa dunque l’arma per perseguire quel tanto anelato cambio di paradigma, quel mezzo per ristabilire e ritrovare, in una società sempre più ammalata, impaurita e arrabbiata, uno scopo che abbia a cuore, in primo luogo, l’aspirazione alla felicità umana.
Ma l’ombra dei gulag, l’imbecille e animalesca dittatura del decennio satanico e la dura costatazione sulla natura umana che si rivela alle volte incapace di reagire gettano il poeta in un profondo stato di oppressione che spesso trapela nei suoi componimenti:
“Da qualche giorno sono ricercato
in tutte le stazioni del pianeta
[…] soldati in tutte le uniformi
Mi aspettano in ogni strada
E dietro ogni porta
Sta un giudice con il dito alzato.” (p.167)
Roberto Merlo, che offre una dettagliata panoramica sulla poetica di Matei Vișniec, termina il saggio con delle puntuali e sagaci precisazioni, affermando che:
“[…] nella ricerca di una libertà di creare che fosse anche libertà di dire ciò che è vietato dire, nella provocazione dello scrivere “nel” e “del” trauma senza restarne prigionieri senza farne astrazione, nel parlarne da un tempo e da un luogo distanti eppure giungere a noi oggi intatta di senso e di forza, sta la potenza e la qualità massima della poesia di Matei Vișniec.” (p. 178)
In conclusione, queste tre voci poetiche presentate all’interno dell’originale antologia Traumaturgie riportano aspetti diversi di una medesima risposta umana ai traumi sociali caratterizzanti gli ultimi anni del XX secolo e si rivelano essere espressioni di una dura resistenza propugnata attraverso la cultura, di una irrinunciabile e necessaria ricerca individuale di rinnovata vitalità, risposta sovversiva alla tragedia postmoderna e ad un contesto sociale oppressivo e malato.
Apparato iconografico:
Immagine di copertina: http://www.novecento.org/dossier/la-violenza-di-stato-nel-novecento-lager-e-gulag/comprendere-il-sistema-gulag-tra-immagini-e-immaginazione/