Martina Mecco
La collana “Narrare la Memoria” della casa editrice Guerini e Associati si è recentemente arricchita di un nuovo volume, Quasi tre anni. Leningrado. Cronaca di una città sotto assedio (ru. Počti tri goda. Leningradskij dnevnik) di Vera Inber. Memorie che raccontano l’assedio di Leningrado, il volume è stato pubblicato in collaborazione con Memorial Italia e approfondisce una pagina particolarmente dura della storia sovietica, già indagata dalla casa editrice con la pubblicazione delle memorie di Lidija Ginzburg Leningrado. Memorie di un assedio. L’opera di Inber, come nel caso quella di Ginzburg, sono state pubblicate con la cura e la traduzione di Francesca Gori, ex presidente di Memorial Italia.
Link al libro: https://www.guerini.it/index.php/prodotto/quasi-tre-anni/
Una domanda lecita è chiedersi il ruolo che possono avere oggi documenti privati come quello di Inber, specialmente se redatti durante eventi storici ben conosciuti e documentati come l’assedio di Leningrado. Sebbene la storiografia abbia fatto e continui a fare il suo dovere nella complessa, talvolta compromessa, ricostruzione degli eventi, esiste una funzione che non potrà mai ricoprire. La preservazione e la rinnovata diffusione di opere come quella di Vera Inber si rivela impellente, non solo – e soprattutto – oggi, proprio per quell’inestimabile valore della testimonianza. Inoltre, questo loro valore accresce ulteriormente se si considera quanto sottolineato da Francesca Gori nella sua preziosa introduzione: la memorialistica sull’assedio di Leningrado, infatti, era stata particolarmente ostacolata dal regime staliniano. Lo stesso testo di Inber mostra una complessa storia editoriale, dove sono stati apportati tagli e aggiustamenti.
Vera Inber (1890-1972) fu poetessa, giornalista e, in generale, scrittrice a tutto tondo. Nacque in un’Odessa che non aveva ancora fatto da set al Bronenosec Potemkin di Ėjzenštejn presso una famiglia di origine ebraica imparentata con Lev Trockij. Dopo aver vissuto alcuni anni in Europa – soprattutto a Parigi – con il primo marito, Natan Inber, nel 1914 fece ritorno nella “perla del mare” babel’iana. Agli inizi degli anni Venti decise di trasferirsi a Mosca e, già autrice delle raccolte poetiche Pečal’noe vino (“Vino triste”, 1914) – lodato, a detta di Varlam Šalamov, dal poeta Aleksandr Blok – e Gor’kaja uslada (“Delizia amara”, 1917), iniziò a inserirsi nell’ambiente artistico e culturale della città, partecipando a diverse iniziative come a quelle promosse dal Gruppo LCK (Literaturnyj Centr Kontruktivistov, il Centro Letterario dei Costruttivisti), di cui lei stessa faceva parte. In questi anni crebbe sempre di più il suo rapporto con scrittrici e scrittori dell’epoca, fatto di cui è testimone anche la sua partecipazione ad opere collettive, come il romanzo Bol’šie požary (“Grandi incendi”, 1927). A segnare in modo profondo non solo la sua vita privata, ma anche la sua produzione artistica, furono gli anni dell’assedio. Ella trascorse quei tre anni a Leningrado insieme al suo terzo marito, Il’ja Srašun, impegnato come medico in uno degli ospedali della città. L’esperienza rimase impressa sia nella sua produzione memorialistica, di cui il volume Quasi tre anni è testimone, sia nelle sue altre opere successive dove diede voce tanto agli avvenimenti quanto alle esperienze di coloro che furono coinvolti in quei tragici eventi. Come ricordato da Gori nell’introduzione, fu autrice di diversi componimenti poetici dedicati all’eroismo dei leningradesi e, soprattutto, delle donne – “il cui coraggio stupì il mondo intero“, così recita un verso scritto da Inber nel 1941. Inoltre, è interessante ricordare il contributo dato da Inber nelle vesti di traduttrice. Difatti, oltre alle sue traduzioni dal francese – tradusse Paul Éluard – o dall’ungherese, fu anche traduttrice di due grandi nomi della letteratura ucraina: Taras Ševčenko e Maksim Ryl’s’kyj.
“Questa mattina all’alba è cominciato il bombardamento del nostro quartiere, che è durato quattro ore. Le bombe cadevano dall’aria, i proiettili radevano il suolo e facevano tremare la terra. Le esplosioni fanno un rumore tremendo a quest’ora del mattino, nella città addormentata, risuonano come un anfiteatro deserto e vibrante di echi.” 9 febbraio 1943 (p. 151)
Con queste parole Vera Inber riporta quanto accaduto a Leningrado, in una mattina che lei stessa appunta esser stata “chiara e gelida”. Passaggi come questo ricorrono spesso nelle pagine del diario, ma non è solo di attacchi che si legge. L’autrice, infatti, mescola testimonianze dei bombardamenti ad appunti sulle sue attività giornaliere. Quando l’edifico in cui vive trema e geme “come un essere umano colpito da pugni allo stomaco” (p. 153) un impulso è scappare, l’altro è continuare a bere il tè. Attraverso la scelta di non porre distinzioni evidenti tra la narrazione dei bombardamenti e quella di azioni ordinarie, come portare fuori il cane o continuare a scrivere, Inber riesce in un compito quanto mai complesso: riportare su carta l’atroce quotidianità della guerra.
Come già osservato, il diario copre i tre anni in cui la poetessa si trovava nella città, soggiorno talvolta interrotto da alcuni viaggi di necessità a Mosca. Ad essere raccontata è una città che resiste sotto il pesante velo della sofferenza. Oltre agli scontri, a far capolino nelle parole di Inber sono anche gli strani e diradati momenti di raccoglimento culturale. Momenti che avvengono perlopiù nei teatri che ancora non hanno ceduto sotto i bombardamenti, dove si suona Šostakovič. A questo si aggiungono anche le notizie che provengono da altre città, Soprattutto da Stalingrado.
Inber, inoltre, tiene traccia dei poemi che redige proprio in questi anni, tra cui la stesura del Pulkovskij Meridian, definita dalla poetessa in termini di un “lavoro eroico”. Nel riportare condensati in un unico spazio questioni e avvenimenti di natura anche profondamente diversa la poetessa riesce nel mostrare la complessa stratificazione della vita del singolo in un momento così duro come l’assedio. Viene così restituita l’immagine di una Leningrado distrutta, che arranca ma resiste. Di particolare di rilievo anche le parole con cui si conclude il diario, all’indomani della liberazione della città. L’entusiasmo per la libertà conquistata, il momento in cui si compie quella vittoria che è un “impegno / affinché Čajkovskij e Puškin vivano. / E Glinka, Gogol’ e Blok.” – così recitano degli altri versi sempre composti nel 1941 e pubblicati nella raccolta Duša Leningrada (“L’anima di Leningrado”). La poetessa lascia Leningrado, con la coscienza che quanto accaduto non potrà mai abbandonare la memoria di coloro che hanno vissuto quegli anni.
A mo’ conclusione, Inber non si limita a ricordare i giorni dell’assedio dalla prospettiva di una voce privata in contrapposizione a quella delle “grandi” narrazioni storiche, ma riveste soprattutto la funzione di rimarcare l’enorme valore della testimonianza e la necessità della sua conservazione. Tanto quanto quella di Inber, molte altre voci necessitano di trovare lo spazio di emergere ed essere difese dai sistemi che tendono coercitivamente a farle tacere, in un mondo dove la libertà della memoria sembra non apparire più così scontata.
Apparato iconografico:
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Immagine 1: Wikipedia