Intervista a cura di Martina Cimino e Silvia Girotto
Giovanni Sampaolo è professore ordinario di Lingua e Traduzione in Lingua tedesca presso l’Università di Roma Tre al Dipartimento di Lingue, Letterature e Culture Straniere. Ha curato l’antologia Quarantadue scrittrici e scrittori dell’Austria di oggi, pubblicata da Artemide Edizioni, composta da tre volumi e realizzata in collaborazione col Forum Austriaco di Cultura tra il 2017 e il 2019. La trilogia presenta complessivamente al pubblico e agli editori italiani 42 autrici e autori non tradotti in Italia, appartenenti perlopiù alla generazione dei trentenni. Come spiega l’introduzione del curatore a questo volume, l’obiettivo è stato quello di far conoscere in Italia la varietà dei generi testuali praticati in Austria (narrativa, poesia, teatro, saggio, slam poetry) puntando sulla varietà culturale di un paese che è da sempre un crocevia di realtà etnico-territoriali e linguistiche.
Questa intervista vuole essere una presentazione del lavoro di traduzione e scelta dei testi, oltre che dei vari aspetti che girano attorno a questa pubblicazione, e a cui seguirà un’intervista a due autrici i cui testi sono contenuti in Quarantadue scrittrici e scrittori dell’Austria di oggi.
MC: Come sottolineato nell’introduzione al primo volume Nuove scritture dall’Austria, la letteratura austriaca ha una propria identità ben definita che va oltre i più famosi autori. Quali sono le peculiarità che la contraddistinguono? Che valore assume per te la a frase del cabarettista Karl Farkas: “A dividere i tedeschi e gli austriaci è la loro lingua comune”?
GS: Premetto la mia allergia non solo teorica al concetto di “identità”, perché a volte si dà per scontata l’idea di identità regionale o nazionale, concetti che nascono in un preciso contesto e sono stati diffusi e sostenuti per interessi ben definiti. Il concetto di identità nazionale sostanzialmente si diffonde nel corso dell’Ottocento quando c’è il bisogno di dare un’identificazione enfatica con il proprio paese e di “inventare tradizioni”, come efficacemente ha scritto lo storico Eric Hobsbawm, per credere nella nostra unicità, cioè superiorità rispetto agli altri. Il concetto di identità tende perciò a creare “comunità immaginate”, come le ha definite Benedict Anderson. C’è un bisogno di cementare la coesione nazionale intorno a certe differenze. In qualche caso c’è la condivisione di determinate matrici culturali, ma appunto per Austria e Germania vanno prese con una certa leggerezza. Intanto la Germania esiste solo dal 1871, prima di allora la storia millenaria dei territori di lingua tedesca è abbastanza intrecciata (l’imperatore del Sacro romano impero della nazione germanica risiedeva a Vienna!). Per buona parte dell’Ottocento l’ideale liberale-borghese è quello di una Germania ancora da creare come monarchia costituzionale che includa anche l’Austria, poi questo sogno tramonta per sempre con l’avanzare sulla scena della Prussia di Bismarck che sconfigge l’Austria nella guerra austro-prussiana del 1866. Sono eventi che lasciano tracce permanenti sulla lunga durata, perché quando parliamo dell’antipatia che gli austriaci nutrono per i tedeschi, stiamo parlando ancora della rivalità tra Austria e Prussia o, in altri termini, tra Vienna e Berlino. Posso dire che gli austriaci detestano abbastanza il modello di efficienza prussiana, che è uno stereotipo, ma che ha un suo fondo di verità, hanno un po’ l’immagine del Bundesdeutscher, del tedesco federale fissato con l’efficienza, mentre in Austria hanno uno stile di vita più rilassato e autoironico, che è un tratto fondamentale dell’autorappresentazione austriaca. Infatti parlerei di autorappresentazione più che di identità. Gli austriaci si autorappresentano come autoironici, relativisti, consapevoli della fragilità e pasticcioneria umana mentre invece il modello del tedesco-prussiano è quello della caricatura del tedesco. Questa antipatia si riflette perfino nel linguaggio, ci sono parole tedesche che gli austriaci non vogliono sentire usare. Per esempio il saluto Tschüss al posto dell’austriaco Servus. Da parte loro i tedeschi vedono l’Austria come “provincia” e perdipiù “noiosa”. Anche se poi l’Austria somiglia tanto alla Baviera dal punto linguistico, culinario, paesaggistico e politico. Sul piano letterario la questione è molto più complessa, certo nelle scrittrici e scrittori austriaci c’è sempre stato un forte riferimento ad autori austriaci che risalgono fino a un classico dell’Ottocento come Stifter e, più da vicino, a Bachmann, Bernhard, Eichinger, Jandl, Mayröcker e altri, ma questo è meno vero per le ultime generazioni. C’è spesso un’ironia metalinguistica che può far pensare alla konkrete Poesie della scuola di Graz. Certe ambientazioni della provincia austriaca. Oppure, in un autore straordinario come Alois Hotschnig, nato nel 1959, una sorta di spontanea reincarnazione di Kafka, per intensità di invenzione e di scrittura.
SG: Come è nata l’idea iniziale di questo progetto di raccolta? Perché ci si è voluti concentrare sulla diffusione della letteratura austriaca?
GS: Il progetto era inizialmente limitato a un solo volume; si è arricchito in seguito. L’idea è del Forum Austriaco di Cultura di Roma. In Italia ce ne sono due, uno a Roma e uno a Milano, e sono un organo diretto della Sezione cultura del Ministero degli Esteri austriaco. La direttrice del Forum austriaco di cultura di Roma, Elke Atzler, che è anche una germanista con tanto di dottorato di ricerca ed è molto addentro nella letteratura contemporanea, ha avuto questa idea. La Sezione cultura del Ministero degli Esteri produce ogni quattro anni un grosso volume che presenta, con una scelta di testi, con curriculum e selezione della critica, una serie di autrici e autori che poi andranno a fare quelli che in tedesco si chiamano Lesungen, letture, e che in Italia chiamiamo ‘incontri con l’autore’. La serie in questione, intitolata schreibART Austria, presenta un taglio trasversale della letteratura contemporanea attraverso autrici e autori attivi, per poterne facilitare la selezione e presentazione presso i Forum austriaci in giro per il mondo. La dottoressa Atzler ha avuto l’idea di proporre un’edizione italiana dello schreibART Austria 2016 e presto è arrivata a me. Così ho pensato di realizzare anche una somiglianza fisica tra i due volumi selezionando alcuni testi. Per me doveva essere un progetto da realizzare insieme a studenti e dottorandi, pochi neo-dottori e dottoresse di ricerca. E così è diventato un cantiere di traduzione che ci ha accompagnato per un anno, nel quale la sfida era di portare gli studenti a realizzare traduzioni editoriali che fossero pubblicabili con una vera casa editrice, per un’istituzione culturale estera. C’era una forte motivazione dunque, per tutti loro è stata la prima pubblicazione.
In realtà dietro c’è anche un discorso un po’ più complesso, perché quando si parla di letteratura austriaca e mitteleuropea in Italia, uno pensa automaticamente ad Adelphi che ha costruito la sua – usiamo questa volta la parola – identità, cioè il suo programma e anche il suo mito intorno alla letteratura austriaca del primo Novecento. La Vienna di Karl Kraus, Hugo von Hofmannsthal, Stefan Zweig, Arthur Schnitzler e così via fu una scoperta compiuta da Adelphi e cioè da Roberto Calasso nel 1970, prima di ogni altro. E poi sempre nel catalogo Adelphi abbiamo gli autori austriaci degli anni Sessanta e Settanta come Ingeborg Bachmann e Thomas Bernhard, i grandi di cinquant’anni fa e più. Il nostro progetto aveva anche l’obiettivo di dare conto delle generazioni ultime e perciò far conoscere la letteratura dei più giovani. Il panorama letterario ed editoriale austriaco è vivacissimo e molto intenso e, essendo l’Austria uno dei paesi più ricchi del mondo, è anche molto promosso, ci sono premi che garantiscono borse di studio che agli autori esordienti di vivere per mesi scrivendo. E in genere, quando uno comincia a vincere un premio, poi vince tutti gli altri. È un cursus honorum che funziona così, perciò molti giovani sono spronati anche a potersi dedicare a questa attività. Ho voluto documentare questo: giovani traduttori italiani per giovani scrittori austriaci. Ma non solo giovani, ovviamente.
MC: I contesti di provenienza di autori e autrici sono differenti. Tuttavia, in alcuni casi la comunanza dell’uso di una lingua “maggiore” – ci si richiama qui alla definizione di Déleuze di lingua minore – in autrici e autori appartenenti a minoranze linguistiche. In che modo questo conduce alla costruzione di un’identità culturale ibrida? In che modo l’interferenza linguistica e la diversa interpretazione del mondo veicolata dalle diverse lingue rappresentano un elemento rilevante della letteratura stessa?
GS: Va detto che l’Austria è uno di quei paesi che hanno un mito fondativo diverso da quelli dei paesi monoglotti e con ideologia monoglotta perché, come già viene definita nella metà dell’Ottocento con l’imperatore Francesco Giuseppe, è lo “Stato dai molti popoli”, cioè si fa vanto di essere un crogiolo di etnie e un puzzle di lingue, di culture, da Trieste alla Boemia, da Leopoli alla Dalmazia, da Trento e Bolzano all’Ungheria. Mentre noi siamo in un certo senso ossessionati dai discorsi che si fanno in Italia sull’idea che siamo i discendenti degli antichi romani o dei Celti o per qualcuno degli Etruschi, l’idea di una permanenza eterna di un solo popolo che da sempre aderisce al territorio, in Austria non sussiste. Per l’Austria il modello è un collage di popoli diversi che deve essere fatto risalire a tutta l’area di lingua tedesca. Ricordiamoci che Vienna si trova ancora più a est di Praga, i legami con i paesi slavi e i Balcani sono molto forti. Il premio Nobel per la letteratura Peter Handke è figlio di una serba della Carinzia.
Si potrebbe fare un esempio contrario che trovo bellissimo: quello del poeta Ludwig Hartinger, compagno di scuola di Handke, che da sempre lavora nell’editoria letteraria, soprattutto come traduttore, tra l’altro, per una collana di libriccini d’arte di autori e autrici che sono originari degli affluenti del Danubio. Ora, se noi pensiamo al corso del Danubio che attraversa tutta l’Europa attraversando ben dieci paesi e arriva poi al Mar Nero, si può immaginare che gli affluenti del Danubio a loro volta – quelli principali sono circa centotrenta – sono una regione immensa che attraversa le lingue e i dialetti più diversi e più estranei. Ludwig Hartinger, che ha questo interesse per la varietà linguistica, è infatti diventato poeta quando si è innamorato della lingua serba, cominciando a scrivere poesie in serbo, e solo in un momento successivo ad autotradursi. Lo trovo un caso particolarmente felice di questa relatività delle identità. Ecco che l’Austria, e Vienna stessa, è in un certo senso un palinsesto. È per questo che in un piccolo spazio come l’Austria abbiamo una così grande vivacità culturale. Un altro discorso andrebbe però fatto riguardo il conflitto tra le élite intellettuali più cosmopolite e avanzate e la proverbiale provincia austriaca conservatrice.
SG: Nella poesia Tradurre di Maja Haderlap si snoda una serie di domande sul senso del tradurre e della sua rilevanza nella possibile diffusione letteraria. Come hai inteso il lavoro di traduzione che è stato svolto? Com’è stato far mettere in gioco direttamente persone per le quali in molti casi era la prima occasione di trattare qualcosa che sarebbe stato pubblicato? Quali sono state le principali difficoltà?
“Tra tutte le lingue esiste una zona
d’ombra, un flusso nero che raccoglie
e trasforma vocaboli e storie?
qui le frasi devono spogliarsi,
vagabondare, imparare a nuotare,
non perdere la memoria che si annida
nei loro corpi, un nucleo segreto.
Il blu dell’aquilegia diventerà un violetto,
quando arriverà dall’altra parte,
e la bergamotta rossa, una pera dolce
dal sentore di cannella? e alla mia tinca mancherà una pinna
alla luce della nuova lingua? dovrà imparare
a strisciare o a camminare eretta?
una lingua ne sa attrarre un’altra a sé,
o sa soltanto allontanarla? insomma, può
ogni parola arrischiarsi a lasciarsi tradurre, pensare di essere
invulnerabile, bagnata nella pece, temprata nell’acciaio”. (p. 31)
GS: Le poesie di Maja Haderlap abbiamo dovuto affidarle non per caso a una traduttrice professionista, Simonetta Carusi. La poesia, come è noto, è il genere testuale più arduo perché ogni elemento della poesia è semantico, dal ritmo ai suoni che ovviamente non ritroveremo in un’altra lingua perché le parole e i suoni sono altri. C’è una valorizzazione anche delle pause e di ogni elemento sintattico e morfologico. In traduzione va tutto reinventato, ma interpretando.
Con le studentesse e gli studenti la questione riguarda molto il talento individuale, al di là della didattica. Tradurre per pubblicare è però una motivazione molto forte. Ho proceduto in modi diversi: all’inizio abbiamo fatto la traduzione in gruppo, come spesso faccio a lezione, perché la traduzione in aula è un fantastico brainstorming, quando hai una quindicina di cervelli che hanno idee diverse, ognuno ha una sensibilità diversa e coglie qualcosa che gli altri non hanno colto altrettanto bene. Il problema è come far armonizzare, alla fine, queste cose, perché per esempio, come è esperienza di qualsiasi traduttore, magari trovi la soluzione perfetta per quella parola e per quella frase, ma poi due righe sotto trovi nel testo originale un punto che richiede obbligatoriamente quella stessa parola, quella metafora, quella stessa soluzione. Perciò si deve imparare a rinunciare a quella precedente soluzione che era felicissima, ma che non è consentita da ciò che sta nelle righe successive.
Ecco, questo è tradurre in gruppo: non avere un cervello centrale che fa quel lavoro di autocritica, di continuo confronto interno. La traduzione del dilettante e quella del professionista si distinguono soprattutto per questo: il dilettante procede linearmente, traduce in avanti, mentre il traduttore professionista tiene in mente unità molto più grandi di testo e continuamente si autocorregge, cioè torna indietro a modificare in base a ciò che ha fatto più avanti, procedendo in modo circolare con un autocontrollo di verifica mentale continua. Il cervello centrale, appunto.
La traduzione in gruppo ha significato, nella pratica, un lavoro bestiale di revisione da parte mia sui testi. Nel secondo volume però ho cambiato metodo di lavoro: ho scelto sempre studentesse, dottorandi che so che traducono bene, ho affidato loro più di un testo da tradurre individualmente. Nel terzo volume ho cercato di selezionare e ho continuato sempre con un lavoro individuale. Il lavoro di verifica è rimasto in alcuni casi molto duro.
MC: Durante la lettura dei tre volumi abbiamo colto molteplici percorsi tematici veicolati da generi differenti. È stata una scelta consapevole volta a sottolineare una correlazione o un legame tra gli autori o si è trattato di una scelta editoriale?
GS: Effettivamente emerge il ricorrere di certi temi e credo sia dovuto al fatto che si tratta di testi assolutamente attuali, degli ultimi due-tre anni. Vediamo fenomeni come la volatilità dei rapporti di coppia, soprattutto tra i giovani. C’è un racconto di Susanne Gregor in cui una giovane donna ha una storia con un uomo e non sa chi sia costui, lo ospita a casa sua e piano piano comincia a porsi delle domande sull’identità di lui. Questo fatto delle identità sfuggenti e dei rapporti sfuggenti, quella vasta gamma di relazioni non vincolanti che i sociologi chiamano non-relationships, è un grande tema oggi. È emerso da sé, così come peraltro tanti altri racconti riguardano la migrazione, nelle declinazioni più varie. Migrazione dunque non solo nel senso che siamo soliti sentire, ma un passare i confini, cercare altri orizzonti fino a cercare di perdersi. Si va dal caso abbastanza classico di Dimitré Dinev, vissuto in Bulgaria fino all’età di 22 anni e poi divenuto scrittore di lingua tedesca in Austria, ma potrei nominare l’autrice Anna Kim, di origini sud-coreane o Julya Rabinovitsch, ex cittadina sovietica. La stessa Susanne Gregor che menzionavo prima viene dalla Slovacchia; Michael Stavarič è emigrato nell’infanzia dall’allora Cecoslovacchia. Ma anche, in senso inverso, nominerei la scrittrice-fotografa-viaggiatrice Valerie Fritsch, che trascorre lunghi mesi viaggiando in Africa o in Asia per i suoi reportages e tra le sue imprese può vantare un viaggio in automobile da Graz al Kazakistan.
SG: Dal momento che l’antologia presenta un gran numero di autrici, potresti parlarci di come si presenta il panorama austriaco sotto questo punto di vista? La voce femminile viene riconosciuta al pari di quella maschile? Se così fosse, questa importanza viene riconosciuta anche all’estero, con una buona diffusione delle loro opere?
GS: Sì, devo dire che in questa antologia, Quarantadue scrittrici e scrittori dell’Austria di oggi, sono presenti più donne che uomini, molte delle quali sono giovani e si esprimono in vari generi letterari, dal teatro alla poesia, dalla narrativa al saggio. Per esempio Elke Laznia, la cui scrittura si muove tra poesia e prosa, cioè non usa il verso, ma potremmo dire un verso lungo che diventa prosa ritmica e poetica, incentrata su immagini molto evocative, più che sul narrare. Inoltre, queste autrici pubblicano con case editrici importanti, anche tedesche. E pensiamo anche al fatto che molti numi tutelari della letteratura austriaca della precedente generazione sono donne: Ingeborg Bachmann a cui è intitolato il più prestigioso premio letterario austriaco, Ilse Aichinger, Friederike Mayröcker, Barbara Frischmuth, Elfriede Jelinek, premio Nobel nel 2004, solo per fare alcuni nomi. Vorrei nominare in particolare Laura Freudenthaler, anche perché il suo secondo romanzo Geistergeschichte (“Anne e i fantasmi”), tradotto in molte lingue, è da poco uscito in italiano presso Voland. È una storia affascinante e sottilissima, basata sugli equivoci della percezione. Una donna, sentendo piccoli rumori dentro casa, si convince che il marito abbia un’amante. La cosa diventa sempre più concreta e al tempo stesso sempre più sfuggente: il romanzo è costruito così bene, cinematograficamente, che il lettore non riesce a capire se si tratti di fantasie, allucinazioni o della realtà. Perché essendo narrato in terza persona, il testo dà la possibilità alla narratrice di descrivere il fatto come percezione della protagonista, facendo entrare in conflitto queste due dimensioni. Un’altra autrice interessante è Anna Baar, di origini croate ma a tutti gli effetti scrittrice austriaca. Il suo romanzo Die Farbe des Granatapfels (“Il colore della melagrana”) percorre i sentieri della memoria delle lunghe estati con la nonna su un’isola cella Croazia. Insomma, sono tante le autrici, anche nella slam poetry, di cui forse poi parleremo.
MC: Ne parliamo giusto ora in relazione al terzo volume, che si districa all’interno di diversi generi letterari tra cui la slam poetry che è il più recente tra i generi affrontati e che in Italia nasce negli anni Novanta in veste di poesia dell’oralità. In che modo l’oralità, segno distintivo del genere, crede possa risaltare in un’antologia? Quale considerazione ha all’interno della scena contemporanea austriaca? In che rapporto è con la più tradizionale poesia lirica?
GS: Anche in Austria la slam poetry è molto diffusa. Come abbiamo fatto a inserire nell’antologia la slam poetry? Semplicemente così: ho chiesto a Elias Hirschl – che ho conosciuto quando aveva ventitré anni, aveva già pubblicato tre libri ed era campione di slam poetry austriaco, rappresentando l’Austria e la Germania in varie competizioni internazionali – di mettere in scena un fittizio poetry slam, scegliendo gli autori e autrici di cui mettere insieme i testi e di scrivere un testo che potesse fare da cornice, in modo che facesse da filo conduttore per unire il tutto. Elias ha scritto un testo-cornice, ambientato peraltro a Roma con gli autobus che prendono fuoco e che fanno da Leitmotiv. Così abbiamo cercato di trascrivere su carta il poetry slam. In qualche modo si è cercato di creare un surrogato. Inoltre, la traduttrice di questi testi di slam, Dafne Graziano, una mia allieva, che poi ha vinto il prestigioso Premio italo-tedesco per la traduzione letteraria come esordiente (2022), è una cultrice di Stefano Benni che col gioco di parole ci va a nozze.
SG: Vorremmo passare ora ad alcune domande sui testi di saggistica in 13 autori della letteratura austriaca contemporanea. Nel testo di Daniela Strigl Della decadenza generale ci ha stupito una scelta di traduzione nella frase: “Si può comunque dire benissimo scaricare invece di fare il download ma non altrettanto bene lettera elettronica al posto di E-mail”. Ci saremmo aspettate di trovare le parole in lingua originale, dal momento che si tratta di un volume intento a divulgare la letteratura austriaca e conseguentemente anche la lingua. Questa decisione di tradurre i termini in italiano viene spesso presa quando ci si trova di fronte a parole tedesche. Partendo dal presupposto che la scelta sia motivata dal fatto che la lingua tedesca è meno conosciuta rispetto ad altre, non credi che, in generale, un uso maggiore dei termini originali – magari con relative note – anche in opere non dedicate a specialisti, possa essere un incentivo a studiare e ad approfondire le basi di questa lingua?
GS: Mi dispiace contraddire, ma questo è un volume in traduzione, cioè diffonde la letteratura, ma traducendola. Non è un volume che aspira a diffondere la lingua perché il servizio che rende al lettore è quello di rendergli leggibile il testo che è in un’altra lingua. Scaricare per esempio rispetto al tedesco herunterladen è proprio un calco morfologico corrispondente a download. In questo caso, in cui io ero il curatore e l’editore di me stesso non ho pensato fosse il caso di mettere una nota redazionale, cosa che appesantisce sempre la lettura di un testo letterario, tanto più una pagina come quella di Daniela Strigl, dove le allusioni da spiegare si sprecano.
SG: Nel testo specifico, il tema principale è la decadenza dell’Austria. Interessanti sono in particolare i riferimenti alla produzione delle Kaisersemmeln e alla Scuola di Equitazione di Vienna, simboli della più tradizionale decadenza in quanto si tratta di tipiche creazioni viennesi ora piegate alla logica del profitto. Ci è venuto in mente l’esempio delle Mozartkugeln, dolcetto venduto in ogni angolo di Vienna e rivendicato a Salisburgo come proprio e infatti vengono proposte in confezione e carta di colore blu anziché del classico rosso che ogni turista passato in Austria conosce. Credi che nella Vienna di oggi sia ancora presente quell’autenticità austriaca novecentesca o che si sia persa con una massificazione del turismo?
GS: Le Mozartkugeln vengono viste dagli austriaci come qualcosa di kitsch, solo per turisti, tant’è vero che la vera concorrenza sono per esempio a Saliburgo confezioni dove vediamo Schumann, Schubert, Bach e uno si mangia il cioccolatino di tutti i più grandi compositori della storia. Il turismo devasta tutte le capitali europee, perciò in realtà il problema dell’anonimizzazione dei centri storici è un problema che le riguarda tutte. A Vienna però c’è un punto di resistenza fortissimo: la civiltà dei caffè viennesi. Il caffè è uno spazio urbanistico, un sistema che in tutta questa grandissima città costituisce uno spazio pubblico e domestico al tempo stesso. In ogni strada ci sono almeno un paio di caffè e ciascuno ha un carattere particolare. Tuttavia, in ognuno anche l’estraneo che non ci è mai stato si sente subito di casa perché, sì, è uno spazio pubblico accessibile a tutti, ma vi si sente un’atmosfera domestica dove si può stare anche tutta la giornata a leggere o scrivere senza che il cameriere ci disturbi per la consumazione. Questa civiltà del caffè si trova anche in altre città, ma è un’emanazione di Vienna. Tutta la cosiddetta modernità viennese dei primi del Novecento nasce dai caffè. Quando per esempio nel 1897 il famoso Café Griensteidl viene demolito per una ristrutturazione, e Karl Kraus per deridere i letterati da caffè scrive un saggio che intitolato La letteratura demolita, tutti questi scrittori – tra cui il giovanissimo Hugo con Hofmannsthal – devono emigrare al Cafè Central e questo evento viene visto come un fatto epocale. Ecco, i caffè sono lo spazio dove si trova l’autenticità viennese, tranne non so, quei caffè dove vi dicono che qui hanno suonato Mozart e Beethoven. Insomma, magari avranno una buona Sachertorte, ma non bisogna fidarsi più di tanto di queste trappole di caffè-Mozartkugel.
SG: Nel testo di Arnim Thurnher circa la svolta a destra della politica austriaca si evidenzia la problematicità della condizione dello Stato dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. La complessa questione di una fazione nazista in Austria è ancora aperta? Tale situazione, secondo te, è più accumunabile a quella tedesca, quindi con un tentativo di condanna, o a quella italiana cioè un tentativo di dimenticare il passato senza necessariamente analizzarlo?
GS: Il saggio di Arnim Thurnher, del 2016, è di una preveggenza impressionante. Premettendo che Thurnher è fondatore e direttore del settimanale viennese Der Falter, organo dell’intellighenzia di sinistra in Austria, nel saggio descrive con una enorme lucidità e sottile autoironia la situazione dell’Austria alla vigilia delle elezioni politiche, diagnosticando lo scivolare del paese verso una estrema destra che può contare su un terreno in cui effettivamente non sono mai stati fatti i conti col passato nazista. È una questione molto delicata, perché c’è un’opinione pubblica strisciante di estrema destra, intrisa anche di nostalgia del nazismo. È un fenomeno che sarebbe lungo descrivere, ma che si può illustrare col caso Waldheim, quando negli anni Ottanta fu eletto presidente della Repubblica un politico del Partito popolare, cioè dei cosiddetti democristiani – diciamo il partito di centro – e i giornalisti, poco prima delle elezioni, avevano scoperto e rivelato che questo candidato durante la Seconda guerra mondiale aveva compiuto crimini nazisti. Ora la questione è enormemente complicata, ma Waldheim aveva così tanto ascendente sugli altri paesi, che è stato anche presidente dell’Onu! La presenza di ex-nazisti e poi di neo- o post-nazisti, ma chiamiamoli semplicemente nazisti, nella vita pubblica è un problema che non ha mai cessato di destare scandalo, ma di cui si parla pochissimo. È giusta l’analogia tra Austria e Italia a cui accennavi a questo proposito. Ricordiamoci sempre che Hitler non era tedesco, ma austriaco, e aveva assorbito a Vienna tutte le sue folli idee. In qualche modo la differenza tra Austria e Italia rispetto al comune passato nazifascista è questa: in Austria ancora si fa finta di non parlarne e di non vedere. In Italia invece l’estrema destra ha grande visibilità e l’adesione alle idee del fascismo è stata definitivamente sdoganata dal governo giallo-verde nel 2018. In Austria la cosa è più strisciante: nel 2017 il Partito popolare del cancelliere Sebastian Kurz ha compiuto una spregiudicata svolta a destra per garantirsi il potere coalizzandosi col partito di estrema destra Freiheitliche Partei Österreichs. L’alleanza, dopo meno di due anni, è stata travolta dagli scandali, nel 2019. Altri due anni, 2021, e il giovanissimo, astuto cancelliere viene travolto da altri scandali che riguardano solo lui. Si ritira da tutti i pubblici uffici. Oggi ha 35 anni e la voce di Wikipedia su di lui lo definisce “ex politico”. Già a 27 era ministro degli esteri. A questo proposito va menzionato l’ultimo romanzo di Elias Hirschl, Salonfähig, uscito quando Kurz era l’uomo più potente dell’Austria e nessuno immaginava che sarebbe stato spazzato via da un giorno all’altro. È un romanzo che sta facendo molto scalpore per l’efficacia con cui descrive il tipo del politico slim fit, tutto immagine e ipocrisia nella sua corsa al successo. Nel politico glamour che sta al centro del romanzo tutti hanno riconosciuto lo spregiudicato cancelliere Kurz, che ha la responsabilità storica di aver portato l’estrema destra al governo. Un Austrian Psycho degli anni Duemilaventi,
MC: Concludendo con questa riflessione attuale, il discorso relativo al cofanetto antologico di cui sei stato il curatore, Quarantadue scrittrici e scrittori dell’Austria di oggi, vorremmo qualche indiscrezione sui tuoi nuovi progetti: hai intenzione di replicare l’esperienza laboratoriale condotta con i tuoi studenti o vorresti intraprendere altre iniziative?
GS: Posso dare una notizia in anteprima: dal momento che l’anno 2022 è stato proclamato anno della lingua tedesca in Italia dall’ambasciatore tedesco, la mia collega Susanne Lippert e io stiamo per lanciare insieme al Goethe-Institut Italia un premio di traduzione destinato a libri nati da laboratori universitari di traduzione come quelli promossi da noi – anche lei ha tradotto e pubblicato libri insieme agli studenti E la particolarità è che la giuria sarà formata da studenti: saranno studenti che valutano e premiano traduzioni di studenti. I vincitori saranno invitati a partecipare a una giornata di studi presso l’Università Roma Tre. In ogni caso questa vuole essere un’iniziativa volta a incoraggiare altre colleghe e altri colleghi a pubblicare libri di traduzioni con gli studenti.
Apparato iconografico:
Immagine di copertina: https://de.m.wikipedia.org/wiki/Caf%C3%A9_Griensteidl#/media/Datei%3ACafe-Griensteidl-1896.jpg.