Intervista a cura di Sara Deon e Martina Mecco
Szántó T. Gábor (*1966–), romanziere e poeta, è uno dei rappresentanti della letteratura ungherese contemporanea, nonché direttore della rivista mensile ungherese “Szombat” (“Sabato”, fondata dall’autore nel 1989). La sua attività di intellettuale spazia, inoltre, anche nel campo della saggistica e della sceneggiatura. Per Andergraund Rivista è stata pubblicata la traduzione di tre poesie a tema ebraico che si possono leggere qui.
All’interno di questa intervista si è cercato di indagare alcuni aspetti della prosa di Szántó T. Gábor, nello specifico nel romanzo Kafka macskái (“I gatti di Kafka”, 2014) e nella raccolta 1945 és más történetek (“1945 e altre storie”, 2017 – edito in Italia da Anfora Edizioni, la cui recensione si può leggere qui). Le domande rivolte all’autore affondano nei temi della storia e dell’identità, luoghi in cui la coscienza individuale e quella collettiva si intrecciano. La prosa di Szántó, fortemente permeata dall’elemento ebraico, affonda infatti le sue radici nella tradizione letteraria e culturale della Mitteleuropa. Il dialogo con questa tradizione, spesso esplicitato come in Kafka macskái, è tangibile. L’autore è, al tempo stesso, in grado di riplasmare simboli della storia letteraria come Franz Kafka in chiave moderna e psicologica, oltre a trattare aspetti connessi alla tematica LGBT+ e alla questione della maternità.
Questa pubblicazione è stata possibile grazie alla cooperazione di più personalità che fanno parte della rivista. Martina Mecco e Sara Deon hanno redatto le domande, Marianna Kovács ha curato la traduzione delle domande dall’italiano all’ungherese, mentre Richárd Janczer ha tradotto le risposte dell’autore in italiano. Si ringrazia l’autore per la sua disponibilità e il tempo dedicatoci.
MM: Vorrei farle una domanda relativa a Kafka macskái (“I gatti di Kafka”), opera non ancora edita in italiano. Trovo molto interessante l’intertestualità del romanzo, vale a dire i numerosi rimandi a Kafka. Quindi, qual è il suo legame con l’opera di Kafka e in che senso è importante per lei? Si può parlare di un modello letterario?
SG: L’infanzia orlata di ansie e aspettative a cui corrispondere obbligatamente, la riflessione letteraria relativa alle condizioni esistenziali delle minoranze dell’Europa centrale, la scrittura come creazione dell’identità e la scrittura come identità supplementare sono caratteristiche attribuibili anche a me. Anzi, mi spingo oltre: la scrittura è come se fosse parte della respirazione. Lo strumento che sostituisce il pianto o l’urlo, che esprime l’esistenza umana, l’assurda esistenza della coscienza che riflette su se stessa, questa disperata condizione. Ma io non divido in due la riflessione riguardante la mia esistenza nel senso che gli attribuiva Kafka, il quale nella sua prosa non scriveva esplicitamente della propria ebraicità, cosa che invece faceva nei suoi diari e nelle sue lettere. Nel mio romanzo che ha menzionato, e anche in altri miei libri, mi occupo di questo come anche delle dispute tra Germania e Israele riguardo l’ebraicità di Kafka e la sua eredità. Era un dilemma pure un secolo fa: ha futuro l’esistenza ebraica in Europa? Questa domanda emerge ancora oggi. Come quella se è confacente riflettere apertamente sull’esperienza ebraica contemporanea nella cultura europea, o se l’autoriflessione ebraica provochi imbarazzo e sia condotta alla deriva fino alle periferie delle culture nazionali, ossia della concezione della culturale liberale, si consumi tra queste e non venga accolta dalla corrente principale (mainstream). O sarebbe forse solo un fenomeno dell’Europa orientale? Molti preferiscono pure lo stesso Kafka solo dal versante dell’universalismo e molto meno da quello della sua ebraicità.
L’indagine odierna alla ricerca dell’eredità di Kafka in Europa e in Israele raffigurata nel mio romanzo è solo uno dei fili della storia, l’altro è la vita fittizia, alternativa regalata a Kafka, la liberazione dalla famiglia rigida attraverso Freud. Nel frattempo, anche il narratore del mio romanzo deve affrontare i propri dilemmi identitari e se è in grado o meno di essere felice. È in grado, per amore, di trasferire la propria esistenza in un altro paese? È in grado di arrivarci? È in grado di lasciare andare il lutto e i riflessi della dittatura nella quale si è socializzato mediante l’educazione dei genitori sopravvissuti alla Shoah? Se è in grado o no di definire ed esprimere a chi appartiene Kafka, conteso da istituzioni e stati. Spero che il mio romanzo, dopo l’edizione ungherese, turca e ceca, possa arrivare anche al pubblico italiano.
MM: Un’altra domanda sul romanzo. Anche ne I gatti di Kafka come in 1945 e altre storie è presente una componente autobiografica? Sebbene si percepisca, forse, una maggiore distanza nel romanzo tra autore e personaggio. Sicuramente l’elemento ebraico svolge un ruolo fondamentale in entrambe le opere, ma il romanzo sembra essere costruito secondo una prospettiva diversa.
SG: Non c’è autobiograficità a livello d’intreccio né nel romanzo narrato in prima persona né nei racconti per lo più in terza persona. I dilemmi kafkiani, l’identità incerta, l’induzione alla fuga, come peraltro l’esperienza dello spaesamento nelle seconde e terze generazioni dopo la Shoah, sono invece presenti anche in me. La famiglia che si socializzava nel mondo esterno, in un’esistenza sociale di successo, l’imperativo di assimilarsi all’ordine maggioritario, nel quale viene ferita la fragilità dell’individuo, funzionava esattamente ai tempi di Kafka come in quelli della mia infanzia, negli anni ’70 e ’80. Il parallelo sussiste sotto questo punto di vista. Le esperienze acquisite in quanto ebreo, ossia come mitteleuropeo, sono state invece utilizzate in un senso più ampio nella mia raccolta di racconti. Questa, accanto alle condizioni esistenziali di minoranza etnoculturale, riflette sulle esperienze dei modi di vivere minoritari, sulla condizione di un novizio rabbino dall’identità transgender, o meglio riflette in più scritti sull’eterno contenuto esistenziale del bambino come minoranza con il maggiore numero di individui.
MM: Qual è il rapporto che stabilisce con la letteratura europea? Ci sono altri autori mitteleuropei, ma non solo, che sono particolarmente importanti per lei in quanto autori?
SG: Hanno influito su di me gli scrittori di samizdat mitteleuropei, scrittori dell’opposizione ed emigrati, i romanzi di Danilo Kiš e Milan Kundera, i saggi di György Konrád, più tardi, in un secondo momento, gli scrittori che hanno tramandato i contenuti esistenziali della Shoah e della dittatura, la traumatica socializzazione durante l’infanzia, Imre Kertész e Péter Nádas, in un senso più ampio anche Thomas Bernhard. Ma il primo incoraggiamento affinché trovassi i miei temi e mi esprimessi con una voce mia, l’ho ricevuto dalla lettura di scrittori ebrei americani, dai romanzi e dai racconti di Isaac Bashevis Singer, Bernard Malamud e in particolar modo Philip Roth. Accanto alla Shoah e alla devastazione che sono state determinanti nelle opere europee, era presente in loro anche l’esperienza dell’ebreo contemporaneo; io però volevo scrivere proprio di questo. Dalla lega tra esperienza ebraica europea e americana ho potuto plasmare il mio proprio mondo. Allo stesso tempo provo ad afferrare i labili valori perduti del mondo ebraico tradizionale e applico la voce ebraica autoemancipata, post-rivoluzione sessuale, a volte drammatica, a volte autoironica, che rigetta ogni pretesa ideologica, ogni cliché, che mostra un proprio mondo e genera una propria visione del mondo. Una parte dei miei personaggi si batte anche contro le aspre contraddizioni frapposte tra la tradizione e la modernità.
MM: Nei suoi romanzi gioca un ruolo importante il concetto stesso di Storia. Ne I gatti di Kafka quello più specifico di storia letteraria, infatti il protagonista cerca di ripercorrere e “ricostruire” le tappe della vita di Kafka stesso. Potrebbe descrivere il significato che ha per lei la dimensione della storia nei suoi libri? Intendo sia quella ungherese che quella europea.
SG: Ne I gatti di Kafka, gioco un po’ storia. Che sarebbe successo se gli amici fossero riusciti a fare arrivare in tempo Kafka sul divano di Freud e questi fosse riuscito ad aiutarlo? Lì, proprio alle spalle dell’indagine contemporanea, agiva l’intenzione di salvare Franz Kafka, anche al costo di fargli abbandonare la scrittura. Il mio narratore scrive di uno scrittore che abbandona la scrittura ma egli stesso è incapace di abbandonarla, vivendo così un destino kafkiano. La storia – la Germania in via di fascistizzazione e la dittatura staliniana – qui è solo lo sfondo retrostante a Franz e il suo amore, Dora Diamant, e allo scenario contemporaneo dell’intero romanzo.
Il mio romanzo Keleti pályaudvar, végállomás (“Stazione est, capolinea”) è ambientato invece nel 1949, all’epoca del processo Rajk, basato su false accuse. Attraverso le sorti di tre famiglie mostra il mondo della dittatura che compromette tutti, persino gli interroganti. Európa szimfónia (“Sinfonia Europa”) è la storia di due famiglie. Un filo s’intrica nella dittatura comunista romena degli anni ’50-’60, l’altro a Berlino Ovest, scenario degli atti terroristici emersi dal movimento studentesco del ’68, dove la Filarmonica di Berlino si prepara per una presentazione. I due fili narrativi si congiungono in un campo di lavoro forzato sovietico nel 1945. Il passato dei genitori è un mistero agli occhi della generazione che li succede ma concorre ai loro avvenimenti fatidici.
Il nazismo e la dittatura comunista hanno lasciato un solco profondo sulle nostre vite. Gran parte dei miei parenti è stata uccisa dai nazisti, i miei nonni scomparvero sul fronte orientale durante il lavoro forzato, mio padre e mia madre sono stati deportati da bambini assieme alle mie nonne. Anche la dittatura ha provato sotto molti aspetti la famiglia.
MM: Potrebbe, invece, parlare della dimensione psicologica delle sue opere? Il suo è un tentativo di investigare la dimensione psicologica del singolo o tende invece a prendere in considerazione psicologica collettiva?
SG: La letteratura racconta destini individuali, getta lo sguardo nella psiche delle persone ma immortala anche stati d’animo collettivi. Le mie opere parlano di coloro che hanno vissuto traumi e anche delle conseguenti ripercussioni, come persino ai giorni nostri le loro esistenze individuali siano ostacolate da ciò che i loro genitori hanno vissuto. I destini, gli schemi si ripetono, si inscrivono nelle vite dei posteri e le fanno deragliare, come accade in Sinfonia Europa, mentre emergono i grandi dilemmi di entrambe le parti dell’Europa in piena guerra fredda. Attraverso le scelte esistenziali dei personaggi del mio romanzo Stazione Est, capolinea, rappresento come la dittatura comunista scompigli -con la liquidazione delle sue condizioni di vita- la borghesia, il sistema di istituzioni ebraiche, con informatori e direttori sottomessi a forza, inghiottiti dal sistema, e come la rivoluzione permanente inizi poi ad auto-cannibalizzarsi. Compare dunque anche qui, dietro ai singoli destini, lo stato di una società. Nel racconto che dà il titolo alla raccolta edita in Italia, nonché a breve in Cina e in Slovacchia -da cui è stato tratto il film 1945, che ha vinto 20 premi cinematografici e visibile in 40 paesi- è il ritratto sociale, condensato in alcune ore, degli abitanti di un villaggio dove, attraverso i destini individuali quasi, si delinea lo stato mentale della comunità: dal modo in cui obbligatamente guardano indietro al comportamento manifestato all’epoca delle deportazioni e a come lo stato, consegnando loro a prezzo di favore gli averi dei deportati, li abbia resi complici.
MM: Ci vorrebbe parlare del suo ultimo romanzo, Sinfonia Europa (2019)? Anche in questo caso lei affronta degli aspetti particolarmente importanti della storia ungherese del Novecento. Qual è il ruolo della Storia in questo romanzo e la relazione con il suo protagonista András?
SG: La storia dei genitori, come ho accennato poco fa, è spesso un segreto agli occhi dei figli, in particolar modo dopo grandi drammi storici. La vergogna, l’umiliazione, l’essere vittima di stupro, che Enikő, madre di András, subisce dai soldati russi, possono essere difficilmente o forse per niente comunicate tra un genitore e figlio. András, figlio di una famiglia romena-ungherese, sceglie istintivamente il violino come vocazione, con il quale cerca il linguaggio dell’universalità, gettando un ponte sopra la dualità della sua vita, e altrettanto istintivamente seguirebbe fino in Germania l’amata Maia, musicista del suo stesso conservatorio, nell’emigrare dalla Romania. Non sa che la sua scelta nel profondo brancola tra i segreti celati nella propria origine, mentre sulle orme del padre la Securitate prova ad assoldarlo. Nel frattempo, un compositore di Berlino Ovest, e prigioniero di guerra sopravvissuto a un campo di lavoro sovietico, scrive da oltre due decenni scrive la sua sinfonia sull’Europa lacerata in due e un memento a un amore rovinato, il figlio invece, che similmente ad András non sa nulla del passato, è scivolato dal movimento studentesco dentro a una cellula terroristica e si prepara a far scoppiare una bomba proprio nel concerto dove verrà presentata l’opera musicale che dà il titolo al libro. La storia delle due famiglie infine si congiunge ma i due ragazzi scelgono strade assai diverse. La dittatura e la libertà generano altre individualità, altre sensibilità.
Questo libro è stato scritto in una lingua diversa, più asciutta di quella dei romanzi a cui ho fatto prima riferimento. Ho sperimentato un’altra lingua che potesse far percepire con il suo distacco la soffocante atmosfera della dittatura e le sensazioni e i ricordi soffocati dai genitori.
SD: Nel racconto “Trans” della raccolta 1945 e altre storie, ha messo al centro un personaggio protagonista che sta terminando gli studi per diventare rabbino, quando inizia a sentirsi intrappolato in un corpo e un’identità di genere che non gli appartengono. Mi è parso che questo racconto lanci un messaggio di speranza per la comunità LGBT+ ungherese, anche se l’emancipazione della protagonista avviene rinunciando al suo paese e trasferendosi a San Francisco. Come mai questo interesse per un tema come quello dell’identità di genere, fra l’altro in uno dei pochi racconti della raccolta con un finale ottimista?
SG: È una speranza assai tenue se una persona deve lasciare la propria casa e l’università per diventare ciò che è. Tuttavia, questa possibilità risplende indubbiamente nel racconto. Nella vita del ragazzo semi-orfano i sostegni sono una madre comprensiva e un maestro, una sorta di surrogato paterno. Quest’ultimo, con un background occidentale e in quanto uomo di modo, è comprensivo ed è in grado di aiutare anche concretamente il ragazzo nella sua crisi esistenziale. La posta in gioco di questo racconto è la conciliabilità tra identità di genere e identità religiosa, tra libertà e tradizione, ossia una possibilità di interpretare la tradizione che dia occasione all’individuo di trovarvi dentro il proprio posto, anche quando si confronta con sfide eccezionali. Alle persone non occorre scegliere tra le proprie identità ma provare a conciliarle. Non occorre gettare fuori bordo la zavorra della tradizione per poter navigare con il vento della libertà. Navighiamo più lentamente al massimo ma il vento non ci porta alla deriva. D’altro canto però, senza vento non si può navigare. In politica giocano sempre un ruolo di aut-aut, la vita reale, al contrario, è fatta di compromessi.
SD: Nel racconto “Affetto” in 1945 e altre storie affronta il tema della maternità, argomento che in letteratura gli stereotipi di genere vogliono che sia trattato solo dalle scrittrici donne e rivolto a un pubblico femminile. Nel racconto, i confini dell’amore materno per il figlio con una disabilità intellettiva sfociano nella perversione e nell’incesto, col fine ultimo di rendere felice il figlio. Le tinte torbide del racconto mi hanno ricordato la Ágota Kristóf della Trilogia della Città di K.. Perché come scrittore affrontare il tema della maternità, soprattutto in questi abissi oscuri che sono spesso considerati tabù?
SG: La figura determinante nelle società feudali, patriarcali e non di rado militari dell’Europa orientale è di solito il padre severo, repressivo. I ragazzi ereditano spesso questo ruolo diventando tali e quali ai padri. Questo è controbilanciato a volte dalle madri che lottano per i loro figli, anche se questa lotta conduce talvolta alla separazione, come in Sinfonia Europa, o in un contesto interamente diverso alla tragedia, come nella novella intitolata “Affetto”. Ma in altri miei scritti sulla famiglia post-Shoah compaiono anche la madre insicura, troppo apprensiva e l’erede, che vive le ambivalenze relative al proseguimento dell’esistenza e che vorrebbe ripudiare l’incarnazione dell’ordine paterno.
Apparato iconografico:
Immagine di copertina fornita dall’autore: Tibor Tóth, Petőfi Cultural Agency.