Bianca Dal Bo
“[…] ma non tutti i tempi son gli stessi,
verrà forse stagione in che,
rannodando questo rotto filo
io dica ciò che qui manca e si conveniva.”
(Miguel de Cervantes Saavedra, “Prólogo” in Los trabajos de Persiles y Sigismunda)
Ha solo dodici anni Günter Grass quando, allora accanito divoratore di libri, capisce di voler seguire la follia di diventare un artista e avere tutte le qualità per crescere insieme a questa sua provocante vocazione. Nato a Danzica il 16 ottobre del 1927, Grass, l’anno successivo allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale si iscrive a un concorso letterario pescato casualmente da una rivista della gioventù hitleriana Hilf mit!. Così comincia, direttamente da una terra di libri bruciati, una storia di libri che ancora arde senza esaurirsi, così fantasticamente viva da ricevere, nel 1999, il Premio Nobel. Durante il discorso di premiazione, Grass allude anche a quel personale e controverso once upon a time del suo passato:
“I immediately set to writing my first novel. Influenced by my mother’s background, it bore the title The Kashubians, […]. There was so much throttling, stabbing, and skewering, so many kangaroo-court hangings and executions that by the end of the first chapter all the protagonists and a goodly number of the minor characters were dead and either buried or left to the crows. Since my sense of style did not allow me to turn corpses into spirits and the novel into a ghost story, I had to admit defeat with an abrupt end and no ‘To Be Continued …’. Not for good, of course, but the neophyte had learned his lesson: next time he would have to be a bit more gentle with his characters.”
La storica dissertazione porta proprio il titolo di To be continued… e, in effetti, riflette quel fantastico stile sconfinato e stuzzicante dell’artista. Sotto tutti i punti di vista immaginabili e con coraggio originale Grass rompe confini. Il primo grande suo successo è un romanzo, Die Blechtrommel (“Il tamburo di latta”, 1959), che si scopre, poi, essere solo l’inizio di una trilogia, la Trilogia di Danzica, completata con i due romanzi Katz und Maus (“Gatto e topo”, 1961) e Hundejahre (“Anni di cani”, 1963). Alle prime pubblicazioni seguono svariati premi e numerosi altri romanzi dai titoli letteralmente bestiali tra cui Örtlich betäubt (“Anestesia locale”, 1969), Der Butt (“Il rombo”, 1977), Kopfgeburten oder Die Deutschen sterben aus (“Parti cerebrali, ovvero i tedeschi che si estinguono”, 1980), Die Rättin (“La ratta”, 1986), Im Krebsgang. Novelle (“Il passo del gambero”, 2002).
Ma l’entrata in scena di Grass come scrittore straborda da ogni lato: non solo romanzi, non solo poesia, non solo saggistica… insomma, non solo scrittura. Grass si rivela un artista dell’eccedenza, dell’esagerazione (spesso tacciato di disgustoso e irriverente), che curiosa con creatività nell’ambito della drammaturgia, della scultura, della pittura… E, ancora, il suo trascinante andare fuori tema, uscire dai bordi di ogni disciplina, penetra nei suoi stessi libri come un’orchestra di strumenti misti: lungo il corso scosceso della narrazione, già di per sé un bel cesto dalle trame intricate, Grass digredisce bucando rattamente la storia con inaspettate illustrazioni, poesie, casarecce ricette culinarie. Astuto cuoco della parola, gioca nella sua magica pentola a creazione, con fette del proprio vissuto, passato e presente e futuro, qualche litro di immaginazione e un pizzico di sale, che diano sapore alla banale e un po’ dura realtà di, per esempio, una patata non ancora abbrustolita. Insomma, la materia prima dei mondi fantastici di Grass sono elementi naturali, animali, piante, cibi, ciò che è vita e permette vita.
È proprio in uno slancio d’amore verso l’esistenza, pur non sembrando tale a prima vista, che Günter Grass scrive La ratta, dodici capitoli di circa trenta pagine sull’epilogo dell’umanità. Una struttura che ricorda un tempo nostro, mesi scanditi in giorni e ogni capitolo è provvisto di una piccola introduzione, un’alba che fa luce al lettore su una storia ormai già spenta. Nell’era del tutto esaudito, a Natale si continua a regalare per misericordia e il narratore, alla ricerca di spunti per una poesia sull’educazione del genere umano che si autoannienta in necessità inventate, desidera un ratto. Un bel ratto natalizio da cui subito la poesia parte, irrefrenabile e intertestuale. Il racconto, inizialmente innocuo, di un bizzarro regalino di Natale viene rapito da molte altre storie parallele: il piano del narratore e del suo ratto natalizio si apre subito al piano parallelo del narratore mentre sogna di essere l’ultimo uomo sopravvissuto sulla Terra e, rinchiuso in una cella spaziale, guarda le cose dall’alto con coscienza. A parlare e controllare il sogno è La Ratta, che narra dell’attuale era post-umana e della sopravvivenza del popolo dei ratti e della loro evoluzione in mancanza degli uomini. La causa dell’annientamento dell’uomo pare essere, come fine di un’esistenza di individualismo e indifferenza, il Grande Botto, una catastrofe termonucleare pensata dall’uomo stesso, che con cura ha deciso di non incenerire almeno i propri monumenti. In un allarmante presagio costante di fine, a questi due strati si accozzano altre storie: le fiabe dei “Grimmfratelli”, i cui personaggi cercano di entrare nel mondo per salvare i boschi bruciati; cinque donne in rotta in mezzo al mare destinate al conteggio delle meduse e, in realtà, alla città sommersa di Vineta; il pittore Malskat che lotta per la falsità dei propri dipinti senza essere creduto; Matzerath, personaggio resistente ad ogni morte, direttamente dalla Trilogia di Danzica, regista di un contorto film sui personaggi delle fiabe. Una pentola creativa di prosa e poesia in cui tutto è manomesso, una matriosca di falsificazioni, una libresca architettura di piani esagonali da cui non si esce.
“I nostri sogni si annullano
Entrambi ben desti siamo
confrontati l’un l’altro
fino all’esaurimento.
Sognai un uomo,
disse il ratto che mi viene in sogno.
Lo catechizzai finché credette,
mi sognò e disse nel suo sogno: il ratto
di quale io sogno crede di sognarmi;
ci leggiamo così negli specchi
e ci interroghiamo.
Ma se per caso entrambi,
il ratto e io
fossimo il sogno
di una terza specie?
Alla fine, esaurite le parole,
vedremo che cosa è reale
e non solo umanamente possibile”. (p. 342)
Le invenzioni realmente bugiarde di Grass s’accostano all’ingannevole mise en abyme de El retablo de las maravillas (“Il teatrino delle meraviglie”, 1615) – o fotografie della realtà? – di Miguel de Cervantes. Proprio come Grass, deliziato da ogni forma d’espressione, il romanziere per eccellenza, astuto esperto dell’arte dell’occhiolino, non frena la propria fantasia nemmeno per quanto riguarda i generi: Il teatrino delle meraviglie è un intermezzo, un’opera teatrale marginale e fantastica, una pausa teatrale all’interno dello spettacolo principale, una bugia dentro la bugia, storia nella storia, specchio nello specchio… In così poche battute di dialogo, Cervantes affronta però con cura, come le delicate poesie di Grass (dal quale fugace momento lirico, ammette l’autore, ha inizio ogni sua fantasticheria romanzesca), temi brucianti del proprio tempo, come le persecuzioni razziali della Spagna del Secolo d’Oro – e dell’altrettanta sporcizia sotto le lisce superfici dorate – contro tutti i cristiani non puri (cristianos viejos). Nel teatrino due cantambanchi irrompono in un paesino di campagna, di quelli barricati nei propri pregiudizi, avvisando che solo chi ha sangue puro riuscirà a vedere lo spettacolo tratto dalla storia di Tontonelo de Tontonelas. Nel rispetto della negra honrilla, questo duro onore che disprezza, tutti mentono, fingono di vedere, seppur niente – come i lussuosi vestiti di un certo imperatore nudo –, nulla di nulla è visibile. Oltre al gioco di scatole bugiarde che rinchiudono altre scatole illusorie, denunciando i fatti dell’era di Cervantes (di radici ebraiche e in costante esilio) e distruggendo il sipario di ciò che è reale, vengono in seguito menzionati anche “millanta topi”, un “branco di topi che arriva adesso discende in linea retta da quelli che si allevarono nell’arca di Noè; ce n’è di bianchi, di variegati, di variopinti, di blu; ma tutti topi.” L’immaginazione di Cervantes gioca con le Sacre Scritture: in realtà, secondo la Bibbia, nell’Arca di Noè, i topi vengono lasciati fuori. Vermi, piccioni, lumache e la loro lenta bava, tutto ma non i topi, questi sporchi ratti delle chiaviche… rattamente esclusi dalla truppa, pur somigliandole tanto. La comunità di ratti di Cervantes, in cui ogni variopinta sfumatura è ben accetta, sembra richiamare le stirpi e le genie umane (ormai non più tanto accoglienti), il nostro branco di ratti purtroppo addormentati, discendenti nel mito biblico dai tre figli di Noè: Sem, Cam e Iafet.
Le fantasticherie di Günter Grass non sono, dunque, una torre d’avorio. Al contrario, il suo approccio all’arte come libera espressione di verità possibili e plurali si oppone a ogni fisso e potente dogma, all’infallibile motto della globalizzazione, alla verità senza alternative del capitalismo. Il favoloso To be continued… di Grass vela un concreto e sentito impegno sociale e sconfina nell’attuale realtà del lettore, dubita dei sostantivi e nuota in un errante verbo: cervanteando, Grass si avventura nei territori dell’ignoto alla maniera di un altro non abbastanza conosciuto narratore esiliato, Juan Goytisolo (Barcellona 1931 – Marrakesh 2017), che approfitta del Premio Cervantes, ricevuto nel 2014, per aprire bocca e orecchie: “Tornare a Cervantes e assumere la follia del suo personaggio come una forma superiore di integrità mentale, tale è la lezione di Don Chisciotte. Così facendo non sfuggiamo alla realtà iniqua che ci circonda. Al contrario ci affondiamo dentro bene i piedi. Diciamo ad alta voce che possiamo. Noi, i contaminati dal nostro primo scrittore, non ci rassegniamo all’ingiustizia.” Contagiato anch’egli dal primo scrittore, Grass lotta con la fantasia contro una colpa personale che lo condanna a una vergogna tormentosa: un passato da entusiasta giovane arruolato con le Waffen-SS, ignaro della carneficina nascosta da lodi alla nazione. La scrittura è per Grass una redenzione morale senza fine di un passato di domande silenziate e la speranza di risvegliare queste domande nel lettore. Così continua a sbucciare in diversi artistici modi la buccia della sua vita a cipolla e, seppur combattendo di solito a suon di tamburi inventati e parole preziose di cascate di ratti, si dedica, infine, anche a un salato lavoro autobiografico: Beim Häuten der Zwiebel (“Sbucciando la cipolla”, 2006). Il risultato è tutt’altro che lacrimoso. Questa letteratura-verità, giudicata ipocrita e troppo tarda, scatena la tempesta e inonda lo scrittore di critiche riguardo una vita personale nascosta fino agli ottant’anni.
Infine, il metodo a cipolla ritorna non solo nel suo responsabile e pensante approccio senza fine a una colpa personale e collettiva, ma continua a essere la struttura a mille piani dei suoi infiniti libri. Capitolo dopo capitolo, La ratta si lascia sbucciare come un caso in sospeso, pendenti dalle labbra di narratori vari si pelano i diversi veli immaginari di un abisso. In La ratta ratticamente è raccontato con parole menzognere in pagine di carta che ormai l’uomo non è e non sarà. Rattamente siamo un fu e l’umanità decide di fondersi come ghiaccio in una pentola a pressione. E la fredda scelta del preciso tipo di pentola avviene con zelo: la tecnologia fa progressi da gigante e le pentole a pressione sono veloci, permettono di risparmiare tempo. Dopotutto, anche se a volte brucia troppo in fretta qualche bosco delle fiabe oppure si incrementa, con termini alla moda, un global warming, invece che uno screditato global warning… dopotutto, non è più necessario vestirsi con il metodo a cipolla: il freddo non è più un problema e alla buffa domanda che gioca col tempo, “Che ora fa la tua cipolla?”, si tira un sospiro intossicato di malinconico sollievo: non ci sono più cipolle e non c’è neanche più tempo. O forse c’è ancora una speranza, un’incongruenza tra il sogno della ratta e la nostra possibile futura realtà. Gli ultimi resti di un dialogo frangibile tra La Ratta e il narratore nella sua navicella spaziale lasciano intravedere un afferrarsi con le unghie a una vita che ormai svapora:
“Eppure, dico, resta una sufficiente speranza che non voi ratti sognati, ma nella realtà noialtri….
Noi ratti siamo più reali di quanto tu possa sognare. […]
Ma stavolta vogliamo in solidarietà e inoltre con intenzioni pacifiche, mi senti, con amore e dolci come la natura ci ha creati…
Un bel sogno ha detto la ratta prima di svanire.” (p. 408)
Nella pentola a creazione di La ratta tutto si perde come in una nuvola di fumo e, pur coscienti di leggere parola, solo quindi un’era solitaria liberata dalla mente di un poeta, si è coscienti del punto di domanda consistente che traspare dalle righe di queste pagine infinite. Ripetutamente si presenta nel sogno quel non voluto presentimento della fine ma il lettore, anch’egli parte integrante di questa umanità che non vuole più leggere, si sente interrogato da mille roditori e, uditore, rode dentro. Sgranocchiando, come un rapido ratto scattante, rifugi letterari, rifiuti cartacei, il lettore che accetta la speranza di questa proposta presa in giro, rapito da variazioni di difficili giochi di parole, in questo ratto (o rapimento) nelle chiaviche fantastiche di un intermezzo nel suo teatro quotidiano, realmente si riscatta.
In plurali modi e mondi, Günter Grass, professato artista bugiardo per passione e sopravvivenza (per amore della vita), con un ironico riso sotto buffi baffi ingialliti, si diverte avvicinandosi con chi è pronto a seguire la sua musica al suo asintotico obiettivo.
Bibliografia:
Aina Torrent-Lenzen, Michael Erkelenz, Detalle y surrealismo en el microcosmos poético de Günter Grass, in “Cuadernos del Ateneo”, 2001, n. 11, pp. 49-53.
Günter Grass, La ratta, Torino, Einaudi Editore, 2012.
Javier Arce Argos, Los caminos de la sátira en el siglo XX: de George Orwell a Günter Grass, I. E. S. Diego Velázquez, Madrid, 2002, pp. 235-244.
Juan Cruz Ruiz, Hambre y cebolla, in “Minerva: Revista del Círculo de Bellas Artes”, 2007, n. 6, pp. 5-11.
Susan C. Anderson, Lies and More Lies: Fact and Fiction in Günter Grass’s Die Rättin, in “The Germanic review”, 1991, n. 66,3, pp. 106-112.
Theodore Ziolkovski, Günter Grass’s Century, in “World literature today”, 2000, n. 74,1, pp.19-26.
Sitografia:
https://www.nobelprize.org/prizes/literature/1999/7849-gunter-grass-nobel-lecture/ (ultima consultazione: 24/01/2022)
https://www.europapress.es/cultura/noticia-discurso-completo-juan-goytisolo-premio-cervantes-2014-20150423163314.html (ultima consultazione: 23/01/2022)
https://www.doppiozero.com/materiali/lettura/guenter-grass-sbucciando-la-cipolla (ultima consultazione: 23/01/2022)
http://www.cervantesvirtual.com/obra-visor/el-retablo-de-las-maravillas–0/html/ff328a9c-82b1-11df-acc7-002185ce6064_5.html (ultima consultazione: 24/01/2022)
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