Giulia Sorrentino
Kir Bulyčev è lo pseudonimo di Igor’ Vsevolodovič Možejko (Mosca 1934-2003), uno dei più celebri autori di fantascienza sovietici per bambini e adulti, ma non solo: Možejko è anche uno storico, traduttore, critico e sceneggiatore. Comincia a usare il nome d’arte Kir Bulyčev, ispirato dal nome della moglie e dal cognome della madre, nel 1965, quando esordisce come scrittore di fantascienza. È particolarmente amato per una serie di opere conosciute con il titolo Priključenija Alizy (“Le avventure di Aliza”), la cui protagonista Aliza Selezneva è una ragazzina che vive nella Mosca di fine XXI secolo ma che ha la possibilità di viaggiare nel tempo e visitare pianeti lontani accompagnata dal padre, professore di zoologia e direttore del Kosmozoo di Mosca o da amici. La serie su Aliza accompagnerà Bulyčev per tutta la sua vita e diventerà un vero e proprio cult in Unione Sovietica.
Bulyčev è stato uno tra gli autori di fantascienza più riportati sullo schermo. Dalle “Avventure di Aliza” sono stati tratti il film d’animazione Tajna tret’ej planety (“Il mistero del terzo pianeta”, 1981) e la miniserie televisiva Gostja iz buduščego (“Ospiti dal futuro”, 1984), tra le altre opere cinematografiche. Solo del racconto Моžno poprosit’ Ninu (“Potrei parlare con Nina?”), di seguito riportato in traduzione, esistono svariati adattamenti per lo schermo, tra cui:
Čto-to s telefonom (“Che ha il telefono?”), regia: Konstantin Osin, URRS, 1979. (https://www.youtube.com/watch?v=TsMXAodHYbE)
Raznovidnost’ kontaktov (“Contatti di altro tipo”), regia: Valerij Obogrelov, URSS, 1987. (https://www.youtube.com/watch?v=C9vXGX7BrKg)
Dorogoj Vadim Nicolaevič (“Caro Vadim Nicolaevič”), regia Vladimir Ufimcev, Russia, 2014. (https://www.youtube.com/watch?v=qu2U_lO-62k&t=8s)
Možno poprosit’ Ninu?, regia: Polina Beljaeva, Russia, 2016. (https://www.youtube.com/watch?v=K_FoSK13vOk)
Vremennaja Svjaz’ (“Collegamento temporaneo”), regia: Dmitrij Abolmasov, Russia, 2020. (https://www.youtube.com/watch?v=CmfXwyLypT0)
Anche la protagonista del racconto Моžno poprosit’ Ninu è una ragazzina, Nina, a cui capita di rimanere coinvolta in una straordinaria e inverosimile conversazione con uno sconosciuto che sfida le leggi dello spazio e del tempo, e che segnerà profondamente la sua esistenza. Attraverso le vicissitudini dei due personaggi il lettore rivive il contrasto tra due periodi della recente storia russa, non troppo lontani cronologicamente tra di loro ma profondamente differenti. La vicenda fantascientifica si intreccia con quella storica per cogliere l’occasione di ravvivare la memoria su uno dei temi più cari ai russi, ovvero la sofferenza e il sacrificio che hanno portato alla vittoria nella Grande guerra patriottica. Il racconto viene anche riportato con il titolo Telefonnyj razgovor (“Una conversazione telefonica”) ed è stato scritto nel 1970 ma pubblicato per la prima volta nel 1973.
La traduzione è tratta dalla seguente edizione: Kir Bulyčev, Моžno poprosit’ Ninu, in Monumenty Marsa, Mosca, Eksmo, 1973.
Potrei parlare con Nina?
– Potrei parlare con Nina? – chiesi.
– Sono io.
– Nina? Perché hai questa voce strana?
– Strana come?
– Diversa dal solito. Più acuta. C’è qualcosa che non va?
– Non saprei.
– Forse non avrei dovuto chiamarti?
– Ma chi parla?
– Da quando non mi riconosci più?
– Riconoscere chi?
La sua voce era più giovane di Nina di circa vent’anni. Anche la voce di Nina in effetti era più giovane della sua proprietaria, ma di soli cinque anni. Se non conosci una persona è difficile indovinare la sua età dalla voce. Le voci spesso invecchiano prima delle persone a cui appartengono. A volte invece rimangono giovani a lungo.
– Ad ogni modo, – dissi. – Ascolta, ti chiamo per una mezza faccenda.
– Deve aver sbagliato numero, – disse Nina. – Io non la conosco.
– Sono io, Vadim, Vadik, Vadim Nikolaevič! Che ti succede?
– Ah, vede, – Nina sospirò, come se le dispiacesse interrompere la conversazione. – Non conosco nessun Vadik o Vadim Nikolaevič.
– Mi scusi, – risposi io e riagganciai.
Non ricomposi subito il numero. Aveva ragione, avevo sbagliato. Era come se le mie dita non avessero voluto chiamare Nina. E avevo composto un altro numero. Ma perché?
Cercai un pacchetto di sigarette cubane nella scrivania. Erano forti come sigari, probabilmente perché fatte con i loro scarti di produzione. Di quale faccenda avrei potuto parlare con Nina? O “mezza faccenda”? Nessuna. Volevo solo sapere se era a casa. Ma se non era a casa, non cambiava niente. Poteva essere da sua madre, ad esempio. O a teatro, visto che era una vita che non ci andava.
Richiamai Nina.
– Nina? – chiesi.
– No, Vadim Nikolaevič, – rispose Nina. – Ha sbagliato di nuovo. Che numero fa?
-149-40-89.
– Il mio è (Arbat) – uno – trentadue – cinque tre.
– Arbat corrisponde a 4?
– Arbat corrisponde alla lettera G.
– Ha ragione, è completamento diverso, – dissi. – Mi scusi, Nina.
– Si figuri, – disse Nina. – Tanto non ho niente da fare.
– Cercherò di non sbagliare più, – risposi io. – Il telefono non funziona, si deve essere inceppato qualcosa e finisco per chiamare lei.
-Eh sì, – annuì Nina.
Riagganciai.
Forse bastava aspettare un po’, o comporre il numero dell’ora esatta per far in modo che al centralino si ricollegassero le linee e io riuscissi a telefonare.
“Sono le ore 22 in punto”, – disse la donna del numero “100”.
All’improvviso pensai: se la sua voce era stata registrata tanti anni fa, mettiamo dieci, poteva darsi che componesse il numero “100” quando si annoiava o quando era sola in casa, per ascoltare la sua voce, la sua voce da giovane. Ma forse era già morta. E allora il figlio o una persona che l’amava componeva il “100” per ascoltare la sua voce.
Richiamai Nina.
– Pronto, – disse la Nina con la voce giovane. – È di nuovo lei, Vadim Nikolaevič?
– Sì, – risposi io. – Evidentemente i nostri telefoni si sono collegati per l’eternità. La prego di non arrabbiarsi o pensare che la prenda in giro. Ho composto il numero che mi serviva con molta attenzione.
– Certo, certo, – disse Nina rapidamente. – Non l’ho pensato neanche per un minuto. Ha tanta fretta, Vadim Nikolaevič?
– No, – risposi io.
– La faccenda con Nina era importante?
– No, volevo solo sapere se era a casa.
– Sentiva la sua mancanza?
– Come posso dire…
– Ho capito, è geloso, – disse Nina.
– Lei è una persona buffa, – dissi io. – Quanti anni ha, Nina?
– Tredici. E lei?
– Quaranta passati. Ci divide un muro di mattoni molto spesso.
– E ogni mattone è un mese, giusto?
– Anche un solo giorno può essere un mattone.
– Sì, – sospirò Nina, – allora è un muro molto spesso. E adesso a cosa sta pensando?
– Difficile a dirsi. In questo momento a niente. Sto parlando con lei, no?
– Se lei di anni ne avesse avuti tredici o anche quindici, avremmo potuto fare conoscenza – disse Nina. – Sarebbe stato molto divertente. Io le avrei detto: ci vediamo domani sera al monumento di Puškin, mi farò trovare lì alle 7 in punto. E non ci saremmo riconosciuti. Dove si incontra lei con Nina?
– Dipende dalle volte.
– Anche da Puškin?
– Non proprio. A volte ci incontravamo davanti al “Rossia”.
– Dove?
– Al cinema “Rossia”
– Non lo conosco.
– Beh, in piazza Puškin.
– Non mi dice niente lo stesso. Lei probabilmente scherza, io la conosco bene piazza Puškin.
– Non importa, – dissi io.
– Perché?
– È passato tanto tempo.
– Quanto?
La ragazzina non voleva riagganciare. Chissà perché si ostinava a continuare il discorso.
– È sola a casa? – chiesi.
– Sì. Mia mamma ha il turno serale. È infermiera in un ospedale militare. Si fermerà lì per la notte.
Sarebbe potuta tornare stasera, ma ha dimenticato a casa l’autorizzazione.
– Capisco, – dissi. – Bene, vai a letto, ragazzina, che domani c’è scuola.
– Mi parla come a una bambina piccola.
– No, cosa dici, io ti parlo come a un’adulta.
– La ringrazio. Solo ci vada lei a letto, se ci tiene, alle sette di sera. La saluto. E non provi più a chiamare la sua Nina, che poi rischia di ritrovare me, e di svegliare una bambina piccola.
Riagganciai. Poi accesi il televisore e scoprii che il modulo lanciato sulla Luna aveva percorso 337 metri in una sessione. Il modulo faceva il suo lavoro, invece io non combinavo niente. Decisi di provare a chiamare Nina per l’ultima volta che erano già circa le undici, per un’ora intera mi ero perso in sciocchezze. E decisi che se mi fosse ricapitata la ragazzina avrei riagganciato subito.
– Lo sapevo che avrebbe richiamato, – disse Nina, appena raggiunta la cornetta. – Per favore non riagganci. Mi sto annoiando molto, ad esser sincera. Non ho niente da leggere ed è ancora presto per dormire.
– E va bene, – dissi. – Allora parliamo. Perché non dorme a quest’ora?
– Sono solo le otto, – disse Nina
– Ha l’orologio indietro, – dissi. – Sono già le undici passate.
Nina scoppiò a ridere. Aveva una bella risata, tenera.
– Si vuole proprio sbarazzare di me a tutti i costi eh? – disse. – Siamo in ottobre, ecco perché si è fatto buio e a lei sembra che sia già notte.
– Adesso è il suo turno di scherzare? – le chiesi.
– No, non scherzo. Non solo ha l’orologio sbagliato, ma anche il calendario.
– Perché sbagliato?
– Adesso non mi verrà a dire che da lei non è ottobre, ma febbraio.
– No, dicembre, – risposi io. E chissà perché, come se non mi credessi da solo, guardai il giornale appoggiato a fianco sul divano. “Ventitré dicembre” si leggeva sotto il nome della testata.
Restammo un po’ in silenzio, io sperando che lei a un certo punto si congedasse. Ma invece mi chiese d’un tratto:
– Lei ha cenato?
– Non ricordo, – risposi con sincerità.
– Vuol dire che non ha fame.
– Vero, non ho fame.
– Io invece ho fame.
– Come, a casa non c’è niente da mangiare?
– Niente! – disse Nina. – Rotolano le palle di fieno. Non lo trova divertente?
– Non saprei neanche come aiutarla, – dissi io. – Invece di soldi ne ha?
– Sì, ma solo un po’. E tutto è già chiuso. Ma tanto che cosa vuoi comprare?
– Sì, – annuii. – È tutto chiuso. Vuole che frughi nel frigorifero per vedere cosa c’è?
– Lei ha un frigorifero?
– Uno vecchio, – risposi. – Marca “Sever”. Le dice niente?
– No, – disse Nina. – E se trova qualcosa poi che fa?
– Poi? Prendo un taxi al volo e glielo porto. Basta che scenda all’ingresso.
– Lei vive lontano? Io in vicolo Sivzev Vražek. Numero 15/25.
– E io in via Mosfil’movskaya. Vicino alle colline Lenin. Dietro all’università.
– Non conosco neanche questo posto. Ma non importa. L’ha pensata bene, e la ringrazio per questo. Allora che cos’ha nel frigorifero? Chiedo tanto per, non pensi male.
– Se lo sapessi, – dissi io. – Adesso porto il telefono in cucina e guardo insieme a lei.
Mi spostai in cucina, con il cavo che mi strisciava dietro come un serpente.
– Eccoci qua, – dissi, – apriamo il frigorifero.
– Può portarsi il telefono dietro? Non avevo mai sentito prima una cosa del genere.
– Certo che posso. Il suo telefono dov’è messo?
– In corridoio. Appeso alla parete. Ma cos’ha nel frigo?
– Allora, dunque… cosa c’è qui nel sacchetto? Delle uova, niente di interessante.
– Uova?
– Già. Di gallina. Vuole mica che le porti del pollo? No, è francese, congelato. Da quando l’ha cucinato fa in tempo a morire di fame. E la mamma a tornare dal lavoro. Meglio se le porto degli insaccati. Anzi no, ho trovato delle sardine del Marocco, 16 copechi a scatoletta. Da mangiare con mezzo barattolo di maionese. Mi sente?
– Sì, – disse Nina a voce molto bassa. – Ma perché scherza così? All’inizio volevo ridere un po’, ma ora sono diventata triste.
– Perché dice questo? Ha veramente così tanta fame?
– No, lei lo sa bene.
– So cosa?
– Lo sa, – disse Nina. Poi dopo un po’ di silenzio aggiunse: – Già che c’è mi dica, ne ha di caviale rosso?
– No, – risposi io. Però ho un filetto di halibut.
– Basta così, per favore, – disse Nina con fermezza. – Meglio cambiare tema. Ho capito tutto.
– Capito cosa?
– Che anche lei ha fame. E cosa vede dalla finestra?
– Dalla finestra? Case, la fabbrica di stampa e sviluppo delle pellicole. Proprio adesso, alle undici e mezza, sta finendo il turno e molte ragazze stanno uscendo dall’ingresso. Si vedono anche gli studi della “Mosfil’m”. E una squadra di vigili del fuoco. E la ferrovia. Ora ci sta passando un treno locale.
– E lei vede tutto questo?
– Il treno a dire la verità sta passando lontano. Si vede solo una fila di lucine, di finestrini!
– Lei è un gran bugiardo!
– Non si parla così agli adulti, – dissi. – Posso sbagliarmi ma di certo non posso dire bugie. Quindi cosa avrei detto di sbagliato?
– Che vede il treno. Questo non è possibile.
– Cos’è, invisibile, per caso?
– No, è visibile, solo che non può avere le luci accese. Lei non ci ha neanche guardato fuori dalla finestra.
– Perché? Ci sono proprio di fronte.
– E da lei in cucina la luce è accesa?
– Certo, sennò come avrei fatto a frugare nel frigorifero al buio? La lampadina dentro si è fulminata.
– Vede, questa è già la terza volta che la becco!
– Nina cara, spiega che cosa mi avresti beccato fare.
– Se lei guarda fuori allora la finestra non è più oscurata. E se la finestra non è più oscurata allora ha spento la luce. Giusto?
– Sbagliato. Perché mai avrei dovuto oscurare la finestra? Cosa c’è, una guerra?
– Ohi ohi ohi! Come fa a dire così tante bugie? Cosa le sembra, pace, questa?
– Beh posso capire il Vietnam, il Medio Oriente… Ma non parlo di quello.
– Neanch’io parlo di quello… Aspetti, è invalido?
– No, per fortuna ho tutto al suo posto.
– Ha un permesso di lavoro?
– Quale permesso?
– E allora perché non è al fronte?
Solo a quel punto cominciai a sospettare che qualcosa non quadrasse. Sembrava che la ragazzina si prendesse gioco di me. Ma lo faceva con una naturalezza e una serietà tale da quasi spaventarmi.
– In che fronte dovrei essere, Nina?
– In quello più comune. Dove tutti. Dove papà. Al fronte con i tedeschi. Parlo seriamente, non scherzo. Lei invece parla in modo così strano. Che non stia mentendo sul pollo e sulle uova?
– Non mento, – risposi io. – E non c’è nessun fronte. È il caso che venga davvero da lei?
– Io parlo davvero sul serio! – disse Nina quasi urlando. – La smetta. All’inizio era interessante e divertente. Ma adesso non lo è più. Mi scusi, è come se non stesse fingendo ma dicesse la verità.
– Lo giuro, ragazzina, dico la verità.
– Adesso sì che mi è venuta paura. La nostra stufa non scalda quasi. È rimasta poca legna. E fa buio. Ho solo un lumino. Non c’è l’elettricità oggi. E quanto non vorrei starmene da sola. Mi sono imbacuccata con tutte le cose pesanti che avevo.
E proprio a quel punto in modo brusco e stizzito ripeté la domanda:
– Perché non è al fronte?
– In quale fronte potrei mai essere?
– Che fronte ci può mai essere nel 1972!
– Mi sta prendendo in giro?
La voce cambiò di nuovo di tono, si fece diffidente, piccola, alta solo un palmo da terra. E un’immagine incredibile e dimenticata si manifestò davanti ai miei occhi: quella di me stesso molti anni prima, trenta o anche più. Quando anch’io avevo 12 anni. E in camera avevo una stufetta a carbone. E io me ne sto seduto sul divano con le gambe piegate. E c’è una candela accesa, o è una lampada a cherosene? E un pollo sembra una cosa irreale, un uccello fiabesco, che mangiano solo nei romanzi, anche se a quel tempo non pensavo al pollo…
– Perché sta in silenzio? – chiese Nina. – È meglio se parla.
– Nina, – replicai io. – Che anno è?
– Il quarantadue, – disse Nina.
Io intanto ricomponevo nella mia mente il puzzle di incongruenze nelle sue parole. Non conosce il cinema “Rossija”. Ha un numero di telefono di sole sei cifre. Le finestre oscurate…
– Ne sei sicura? – le chiesi.
– Sì, – rispose Nina.
Credeva a quello che diceva. Forse era stata la sua voce a ingannarmi? Forse non aveva tredici anni? Forse era una donna quarantenne che si era ammalata già a quel tempo, bambina, e le sembrava di essere rimasta in guerra?
– Mi ascolti, – dissi calmo. – Non riagganci. Oggi è il ventitré dicembre del 1972. La guerra è finita ventisette anni fa. Lo sa questo?
– No, – rispose Nina.
– Sì che lo sa. Adesso sono le undici passate… Come glielo posso spiegare?
– Va bene, – disse Nina docilmente. – Quello che so è che non mi porterà il pollo. Ci sarei dovuta arrivare, che non si trovano polli francesi in giro.
– Perché?
– Ci sono i tedeschi in Francia.
– È da un bel po’ che in Francia non ci sono più i tedeschi. Solo se sono turisti, ma se è per quello ci sono anche da noi.
– Ma come? Chi li fa entrare?
– Perché non dovrebbero?
– Non le passi per la testa di dire che i crucchi ci sconfiggeranno! Probabilmente lei è solo un sabotatore o una spia.
– Si sbaglia, lavoro per il COMECON, il consiglio di mutua assistenza economica. Mi occupo dell’Ungheria.
– Ecco un’altra bugia! In Ungheria ci sono i fascisti.
– Gli ungheresi hanno cacciato da un bel po’ i loro fascisti. L’Ungheria è una repubblica socialista.
– Fiù, temevo che lei fosse per davvero un sabotatore. Ma invece si inventa proprio tutto. No, non ribatta. Mi racconti piuttosto di quel che sarà dopo. Si inventi quello che vuole, basta che mi faccia star bene. La prego. E mi scusi se sono stata così scontrosa. È solo che non avevo capito.
Io smisi di controbattere. Come spiegarlo? Mi immaginai di nuovo lì seduto sul divano proprio nel 1942: quanto mi sarebbe piaciuto scoprire quando i nostri avrebbero preso Berlino e impiccato Hitler. E scoprire anche dove avevo perso la tessera del pane di ottobre. E dissi:
– Sconfiggeremo i nazisti il 9 maggio del 1945.
– Non può essere! Manca ancora così tanto.
– Ascoltami Nina, senza interrompere. Ne so di più. Prenderemo Berlino il due maggio. Faranno persino una medaglia: “Per la presa di Berlino”. E Hitler si toglierà la vita. Prenderà del veleno e lo darà a Eva Braun. E poi i soldati delle SS porteranno il suo corpo nel cortile della Cancelleria del Reich, lo ricopriranno di benzina e gli daranno fuoco.
Io raccontavo tutto questo non a Nina. Lo raccontavo a me stesso. Se Nina non mi credeva o non capiva subito i fatti, glieli ripetevo obbediente, andavo a ritroso quando mi chiedeva chiarimenti su qualche passaggio, e ci mancava poco che non perdessi di nuovo la sua fiducia quando le dissi che Stalin sarebbe morto. Ma poi la riconquistai raccontandole di Jurij Gagarin e del Nuovo Arbat.
La feci persino ridere, raccontandole che le donne avrebbero indossato pantaloni a zampa e gonne veramente corte. Mi ricordai persino di quando i nostri avrebbero attraversato il confine con la Prussia. Persi il senso della realtà. La piccola Nina e il piccolo Vadik erano seduti davanti a me sul divano ad ascoltare. Solo che erano affamati come lupi. Per Vadik le cose andavano anche peggio che per lei; aveva perso la tessera del pane e fino alla fine del mese a lui e alla madre toccava campare solo con la tessera del lavoro di lei, perché Vadik aveva seminato la sua da qualche parte nel cortile, e solo dopo quindici anni si sarebbe ricordato all’improvviso come era andata, e se la sarebbe di nuovo presa pensando che avrebbe potuto ritrovarla anche dopo una settimana; gli era, ovviamente, cascata nello scantinato, quando aveva lanciato il cappotto contro la grata per fare due tiri a pallone.
E solo in seguito le dissi, quando si era stancata di ascoltare quella che riteneva una bella favola:
– Sai dov’è via Petrovka?
– Sì, – rispose Nina. – Non le hanno cambiato nome?
– No, allora…
Le raccontai come entrare nel cortile da sotto l’arco e dello scantinato che avrebbe trovato in fondo, chiuso da una grata. Se era ottobre del quarantadue, a metà mese, allora era possibile che la tessera si trovasse ancora lì dove avevamo giocato a calcio e io l’avevo persa.
– Che cosa terribile! – disse Nina. – Non sarei sopravvissuta a una cosa del genere. Bisogna andare immediatamente a cercarla. Lo faccia.
Anche lei cominciò a prenderci gusto e ad allontanarsi dalla realtà, né io né lei capivamo più in quale anno ci trovassimo: eravamo fuori dal tempo, più vicini al suo quarantadue.
– Io non posso andare a cercarla, – dissi. – Sono passati molti anni. Ma se tu puoi, prova ad andarci, il cortile dovrebbe essere aperto. In caso d’emergenza dirai che la tessera ti è caduta a te.
E in quel momento cadde la linea.
Nina non c’era più. Dalla cornetta usciva un rumore disturbato. Una voce femminile disse:
– È il 148-18-15? C’è una chiamata per lei da Ordžonikidze.
– Ha sbagliato numero, – dissi io.
– Mi scusi, – rispose la voce femminile con indifferenza.
Poi seguirono brevi segnali acustici. Mi misi subito a ricomporre il numero di Nina. Dovevo scusarmi. Dovevo ridere un po’ con lei sull’assurdità di tutta quella vicenda…
– Sì, – disse la voce di Nina. Dell’altra Nina.
– È lei? – chiesi
– Ah, sei tu Vadim? Cosa ci fai sveglio?
– Scusa, – dissi io. – Mi serve un’altra Nina.
– Cosa?
Riagganciai e rifeci il numero.
– Sei impazzito? – chiese Nina. – Hai bevuto?
A quel punto riprovare era inutile. La chiamata da Ordžonikidze aveva riportato tutto al suo posto. Ma qual era il vero numero di Nina? Arbat – tre, no, Arbat, uno, trentadue – trenta… No, quaranta…
La Nina adulta mi richiamò.
– Sono stata tutta la sera a casa, – disse. – Pensavo che mi avresti chiamata per spiegarmi perché ti sei comportato così ieri sera. Ma è evidente che tu sia completamente impazzito.
– Possibile, – annuii. Non avevo voglia di raccontarle dei lunghi discorsi con l’altra Nina.
– Quale altra Nina poi? – mi chiese. – Una Nina ideale? Stai cercando di dire che mi vorresti vedere diversa?
– Buonanotte, Ninočka, – dissi. – Domani ti spiego tutto.
…Ma la cosa più interessante di questa storia strana è il suo epilogo, altrettanto strano. Il giorno seguente di mattina andai da mia madre. Le dissi che avrei messo in ordine il soppalco. Dopo tre anni che le promettevo di farlo, a quel punto presi io l’iniziativa. So che mia mamma non butta mai via niente che le sembra possa essere utile per il futuro. Frugai per circa un’ora e mezza tra vecchie riviste, libri di scuola, serie incomplete di volumi allegati alla rivista “Niva”. I libri non erano impolverati, ma odoravano lo stesso di polvere vecchia e tiepida.
Finalmente riuscii a trovare l’elenco telefonico del 1950. Era gonfio per i biglietti e i pezzi di carta infilati tra le sue pagine, i cui angoli erano logori e sporchi di unto. L’elenco era così familiare, che mi stupii di essermene potuto dimenticare: se non fosse stato per la conversazione con Nina non mi sarei mai ricordato della sua esistenza. E mi vergognai un po’, come davanti a un abito che dopo aver servito egregiamente il suo proprietario viene consegnato a un rigattiere andando incontro a morte certa.
Sapevo le prime quattro cifre: G-1-32… Sapevo anche che il telefono, se nessuno di noi fingeva, se non ero stato preso in giro, si trovava in vicolo Sivzev Vražek, al numero 15/25. Non c’era nessuna chance di trovare quel telefono. Mi ero seduto con l’elenco nel corridoio, su uno sgabello tirato fuori dal bagno. Mia madre non capì nulla, sorrise solo passandomi a fianco e disse:
– Fai sempre così. Cominci a mettere in ordine i libri, e poi sprofondi nella lettura dopo dieci minuti. Fine delle pulizie.
Non si accorse che stavo leggendo l’elenco telefonico. Trovai quel numero. Venti anni prima era ancora nell’appartamento in cui era nel quarantadue. E risultava a nome Frolova K.G.
Era vero, perdevo tempo in sciocchezze. Cercavo qualcosa che non poteva neanche esistere. Ma riesco a immaginarmi con facilità che il 10% delle persone normali al mio posto avrebbe fatto lo stesso. E andai al vicolo Sivzev Vražek.
I nuovi inquilini dell’appartamento non sapevano dove fossero andati i Frolov, e neanche se avessero mai abitato lì. Ma ebbi un colpo di fortuna con l’amministrazione condominiale. Un’anziana contabile si ricordava di loro e grazie al suo aiuto scoprii tutto quello che mi occorreva, attraverso l’ufficio residenza.
Faceva già buio. Per il nuovo quartiere il vento spazzava un sottile strato di neve tra solitari palazzoni prefabbricati.
In un negozio standard a due piani vendevano polli francesi in pacchetti trasparenti ricoperti di brina. Mi venne la tentazione di comprarne uno e portarglielo come promesso, anche se in ritardo di una ventina d’anni. Ma feci bene a non farlo. Nell’appartamento non c’era nessuno. E da come rimbombò il suono del campanello ebbi l’impressione che fosse vuoto, che i suoi inquilini se ne fossero andati.
Me ne stavo per andare, ma poi, visto che ero arrivato fino a quel punto, suonai al campanello della porta accanto.
– Mi scusi, Nina Sergeevna Frolova vive qui vicino?
Un ragazzo in canottiera, con una saldatrice ancora fumante in mano, rispose con indifferenza:
– Sono partiti.
– Per dove?
– È un mese che sono partiti per il nord. Non torneranno fino a primavera. Nina Sergeevna e anche suo marito.
Mi scusai e presi a scendere le scale. E pensai fosse del tutto probabile che a Mosca non vivesse una sola Nina Sergeevna Frolova classe 1930.
– Aspetti un attimo, – disse il ragazzo. – Mia madre vuole dirle una cosa.
Sua madre apparì lì sull’uscio, aggiustandosi la vestaglia.
– E lei chi sarebbe?
– Sono solo un conoscente. – risposi.
– Per caso Vadim Nikolaevič?
– In persona.
– Eccola, – si rallegrò la donna, – per poco non la lasciavo scappare. Nina non me lo avrebbe mai perdonato. Mi ha detto proprio così: non te lo perdono. E ha attaccato un biglietto sulla porta. Ma probabilmente i ragazzi lo hanno strappato. È passato già un mese. Lei aveva detto che sarebbe arrivato a dicembre. E ha detto anche che avrebbe provato a tornare, ma da così lontano…
La donna se ne stava ritta sull’uscio a guardarmi, forse aspettando che le svelassi un qualche segreto, le raccontassi di un amore sfortunato. Probabilmente aveva fatto il terzo grado anche a Nina: in che rapporti eravate? E anche Nina le aveva risposto: “È solo un conoscente”.
La donna dopo aver fatto una pausa recuperò una lettera dalla tasca della vestaglia.
“Caro Vadim Nicolaevič,
Io lo so per certo che lei non verrà. Come si fa a credere ai sogni d’infanzia, quando anche a noi stessi sembrano solo dei sogni? Eppure la tessera del pane si trovava proprio in quello scantinato del quale aveva fatto in tempo a parlarmi…”
Apparato iconografico:
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