Sperimentalismo e provocazione nel cinema degli anni Sessanta di Věra Chytilová

Martina Mecco

 

La produzione cinematografica di Věra Chytilová si presenta dominata da un carattere fortemente eclettico, una sinergia di elementi differenti che vengono armonizzati con maestria attraverso la cinepresa. Accanto a nomi come quelli di Jíři Menzel, Miloš Forman o Jaromil Jireš – per citarne solo alcuni –, Chytilová fu una rappresentante eccezionale della Nová Vlna, movimento cinematografico cecoslovacco nato negli anni Sessanta del secolo scorso. Il fenomeno della Nová Vlna contribuì, come affermato anche dallo scrittore Petr Král, a formare una vera e propria scuola, che non trascendeva da implicazioni di carattere sociopolitico o ideologico, per i posteri. Si venne così a definire la peculiarità del cinema cecoslovacco, sebbene sia evidente come questo si rifacesse in modo più o meno indiretto al fenomeno francese della Nouvelle Vague, a cui si deve proprio il nome Nová Vlna, e risentisse anche dell’influenza di altri contesti cinematografici stranieri, tra cui per esempio il Neorealismo italiano, in particolare quello di produzione felliniana

La formazione di Chytilová, nata nel 1929 ad Ostrava, avvenne presso la FAMU di Praga, dove entrò all’età di 28 anni. Negli anni precedenti, dopo aver studiato per un breve periodo architettura a Brno, si era dedicata alle professioni più disparate, dall’esperienza di modella a quella presso gli studi cinematografici praghesi di Barrandov, vivendo così in una condizione di profonda confusione e incertezza. Chytilová fu l’unica donna ad essere ammessa e a frequentare negli anni 50 i corsi della FAMU, tenuti da registi del calibro di Otakar Vávra. Nonostante il grande entusiasmo, il suo lavoro fu oggetto, sin dagli albori, di una sorta di incomprensione. Già nel caso di Strop (1962, “Il soffitto”), il film-documentario con cui conclude gli studi di regia, Chytilová incontrò la resistenza di František Daniel, che non ne approva il progetto iniziale, definendo la prima versione della sceneggiatura “troppo kitsch”. La seconda e definitiva stesura venne accettata grazie all’aiuto di Pavel Juráček, compagno di studi e futuro sceneggiatore della Nová Vlna che aveva già collaborato, sempre durante gli anni di studio alla FAMU, alla sceneggiatura di Auto bez domova (“Una macchina senza dimora”, 1959) di Jan Schmidt – altra importante personalità del cinema degli anni Sessanta e regista di Konec srpna v hotelu Ozón (“La fine di agosto all’hotel Ozón”, 1967).

Prima di affrontare quelli che sono gli aspetti fondamentali dell’attività cinematografica di Chytilová degli anni Sessanta, nonché osservare come questa si sia evoluta da soluzioni inizialmente “classiche” – per quanto questo aggettivo non si adatti affatto al lavoro della regista – verso sinergie compositive estrose, si rivela necessario porre delle premesse inziali. La produzione della regista può essere, infatti, divisa in due macrofasi, nelle quali è comunque possibile ravvisare evoluzioni consistenti. Il primo è quello che va dalla fine dei suoi studi alla FAMU, che coincide con la realizzazione di Strop nel 1962, alla produzione di Ovoce stromů rajských jíme (“Il frutto del Paradiso”) del 1969. La seconda fase, invece, inizia nel 1976 con Hra o jablko (“Il gioco della mela”) e si protrae fino a Hezké chvilky bez záruky (“Bei momenti senza garanzia”) del 2006. Chiaro è che questa distinzione è frutto di una convenzione volta a evidenziare come la primissima fase di Chytilová sia da considerare come indipendente dalla seconda. A rendere ancora più netto questo distacco tra gli esordi della regista e la sua produzione più matura concorrono i sei anni di silenzio a seguito della fine della Primavera di Praga. L’invasione delle truppe del Patto di Varsavia, la deposizione di Dubček e l’assegnazione del potere a Husák portarono a una stagnazione culturale e a un irrigidimento della censura: misure governative che misero a tacere l’esplosione culturale che aveva caratterizzato buona parte degli anni Sessanta, terreno particolarmente fertile per una creatività come quella di Chytilová. Il Partito si espresse, naturalmente, anche nell’ambito del contesto cinematografico, denunciando l’allontanamento del cinema cecoslovacco da quelli che erano i principi marxisti-leninisti cui doveva sottostare la cultura prediligendo divenire, invece, succube delle tendenze occidentali. Gli anni del silenzio rappresentarono un momento molto complesso nella vita della regista, la cui evoluzione stilistica venne bruscamente interrotta. Nonostante ciò, non si arrestò la sua intraprendenza, spinta soprattutto dalla tenacia che la caratterizzava, a cercare di realizzare nuovamente prodotti cinematografici originali e in linea con la sua poetica. Sebbene questi tentativi non superarono mai la rigida maglia della censura, di rilievo fu il contributo al progetto di Vojtěch Cach dedicato a Božena Němcová, per il quale, nel 1972, scrisse una sceneggiatura che venne bocciata in quanto distorceva la verità e la concezione comune della vita della scrittrice. Un’altra collaborazione senza successo fu quella con Karel Cop, per il quale nel 1973 scrisse due sceneggiature che non vennero mai portate sul grande schermo, rispettivamente quella di Smrt na inzerát (“Annuncio di morte”) e la commedia Jak se státí mužem (“Come si diventa un uomo”). La continua frustrazione provata da Chytilová di fronte a questi ripetuti tentativi di sabotaggio del suo genio artistico sfociò in una lettera inviata ad Husák nell’ottobre del 1975 – lo stesso anno, casualmente, di un’altra importante lettera sempre inviata al Presidente, questa volta redatta da Václav Havel. All’interno della lettera si legge:

Si è detto che non ho prodotto nulla per cinque anni, che i miei film erano per natura sperimentali, evasivi e pessimisti, che avevo contatti con artisti nazionali come Jiří Trnka o Jan Werich, che i miei premi internazionali provenivano principalmente dai festival occidentali, che ho presidiato al Mannheim Festival, che ho adottato un posizione elitista, che avuto una risposta minima da parte degli spettatori, che i miei film sono stati sopravvalutati dalla critica e che ‘non è sembrato’ che io abbia ‘compreso la linea di condotta odierna tracciata dal Partito Comunista Cecoslovacco’. Mi rifiuto di accettare una critica posta in questi termini. Nessuno ha ancora condannato gli esperimenti, anzi, in una conferenza tenutasi nell’ottobre del 1972, lei, compagno Presidente, lei stesso ha sottolineato il diritto degli artisti a sperimentare. I miei film non sono irrealistici. Sono tutti engagé e per questo non possono essere evasivi. La mia spiegazione del loro significato, che ho proposto numerose volte, non è mai stata confutata.

In un’intervista con il cinematografo di origine ceche Robert Buchar, emigrato negli Stati Uniti all’inizio degli anni Ottanta, viene chiesto a Chytilová di descrivere come si presentasse la situazione in Cecoslovacchia all’indomani dell’invasione. Nella risposta non si risparmia, denunciando così la difficile situazione in cui la cultura cecoslovacca era stata riversata, nonché l’ipocrisia del sistema comunista. Accanto a questo forte sconvolgimento, persisteva comunque negli intellettuali la volontà di reagire, citando direttamente Chytilová: È stato orribile! All’inizio pensavamo di non comunicare con loro, ma poi è arrivata la voglia di lavorare, di dire qualcosa, o almeno di essere contrari, a voce alta e non solo in silenzio. All’inizio ci siamo tirati indietro, abbiamo pensato: ‘Questa è la fine’ […]. Ma poi, quando si è presentata l’opportunità di produrre film – per continuare e per opporsi – produrre film è diventato una missione.”

Tornando quindi agli anni Sessanta, questi si profilavano come un momento molto prolifico per la produzione cinematografica di Chytilová. Un periodo che, come già osservato, vide la regista come una protagonista dalla Nová Vlna, ruolo esemplificato dalla sua partecipazione alla produzione di Perličky na dně (“Le perline sul fondo”, 1965), trasposizione cinematografica di alcuni dei racconti di Bohumil Hrabal realizzata da diversi esponenti del cinema dell’epoca. Il contributo di Chytilová avvenne con la realizzazione di Automat Svět, dove il personaggio principale Karlík era interpretato da Vladimír Boudník, importante esponente della produzione artistica underground di quegli anni. Volendo trovare dei denominatori comuni per le pellicole realizzate in questo primo periodo, due sono certamente la centralità della figura femminile e l’attenta indagine della società. Dal punto di vista tecnico, invece, occorre evidenziare l’importanza che fin da subito svolge la componente musicale, che diverrà poi la vera protagonista in Ovoce stromů rajských jíme insieme a quella del colore: le immagini vengono infatti sovrastate da tinte forti creando un prodotto che, partendo dal realismo della Nová Vlna, sfocia in una metafora biblica sviluppata secondo tecniche dal sapore surrealista. Altro aspetto che segna questa prima fase è il fatto che nel processo di realizzazione delle pellicole si può notare un’interessante fase di elaborazione che intercorre tra la stesura della sceneggiatura e il prodotto finale. Difatti, come sottolineato anche dallo stesso Otakar Vávra, la fase creativa della regista si concentrava principalmente nel momento delle riprese, dove avvenivano continuamente modifiche e tagli al progetto iniziale. Con Strop la regista, come già affermato pocanzi, si diploma alla FAMU, iniziando così un percorso volto a mostrare, attraverso lo strumento della cinepresa, tanto la quotidianità dei suoi soggetti – come nel caso di O něčem jiném (“Qualcosa di diverso”, 1963) – tanto quanto la ribellione ad essa – è questo il caso di Sedmykrásky, che inizialmente doveva avere come titolo Chudobky (sinonimo in ceco per “sedmykrásky”).

O něčem jiném

O něčem jiném, premiato al Festival di Mannheim, mostra degli sviluppi interessanti rispetto a Strop ed è, inoltre, la prima vera pellicola di cui Chytilová cura sia la sceneggiatura che la regia. L’aspetto più interessante di O něčem jiném è la modalità con cui viene costruita la vicenda, ovvero portando avanti in modo parallelo le storie delle due protagoniste, Eva e Věra, che rappresentano due esempi di donne che, per quanto distanti, sono riconducibili a una condizione di crisi che le accomuna. In questa scelta di Chytilová non si ha tanto la costruzione di due prospettive poste in un rapporto di mutevole contrappunto, quanto, piuttosto, lo sdoppiamento di un’unica identità. Eva, ispirata nonché interpretata dalla campionessa ceca Eva Bosáková, rappresenta la componente corporea mentre Věra quella spirituale. Inoltre, se Eva deve interfacciarsi con la dimensione sociale del pubblico, Věra è invece rinchiusa nel microcosmo famigliare. Ad essere centrale in Chytilová è proprio questo problema del rapporto dell’individuo con la società, declinato in modi differenti: se in O něčem jiném la complessità della struttura bipartita cela una prospettiva piuttosto classica di quest’analisi, Sedmykrásky cerca di superare questo limite. Anche nel terzo film della regista si ritrova quella dualità presente in quello precedente che, tuttavia, viene semplificata da due aspetti: la mancanza di un parallelismo esplicito e il fatto che venga dato il medesimo nome a entrambe le protagoniste, ovvero Marie. Inoltre, si assiste a un’ulteriore evoluzione: mentre in O něčem jiném la cinepresa si “limita” a mostrare e problematizzare le dinamiche sociali dell’epoca, in Sedmykrásky questa diventa strumento di esplicita provocazione. A determinare la riuscita di un prodotto a tratti profondamente differente concorrere anche l’uso del colore che, venendo impiegato secondo modalità innovative, preannuncia l’apoteosi del ruolo che questo ha in Ovoce stromů rajských jíme. Sperimentazione delle tavolozze che diviene possibile grazie alla stretta collaborazione che Chytilová istituisce con il marito, nonché responsabile della fotografia, Jaroslav Kučera e la sceneggiatrice Ester Krumbachová – figura importantissima nel contesto della Nová Vlna legata al nome di Jan Němec, che collaborò alla realizzazione di diversi film come Ucho (“L’occhio”, 1970) di Karl Kachyňa o Valérie a týden divů (“Valeria e la settimana delle meraviglie”, 1970) di Jaromil Jireš.

Věra Chytilová e Jaroslav Kučera

Spesso ci si imbatte in tentativi di interpretare il discorso sviluppato all’interno delle pellicole di Chytilová – specialmente in quelle precedentemente analizzate, dove il centro della narrazione è occupato da una o più figure femminili – in chiave femminista. Ruby Rich in un intervento contenuto in Issues in Feminist Film Criticism cerca di delineare l’evoluzione del ruolo della donna nell’ambito della regia, portando come esempi anche figure del cinema mitteleuropeo come Márta Mészáros o la stessa Věra Chytilová. Riferendosi proprio a quest’ultima, definisce Sedmykrásky in termini di “uno dei primi film di una donna a muoversi nella direzione della sessualità anarchica”. L’attenzione che Chytilová riserva all’universo femminile all’interno dei suoi lavori è innegabile, si pensi solo a come il soggetto sia principalmente femminile e a come venga indagato il rapporto tra la figura della donna e la società. Lo stesso atteggiamento femminista della regista viene sottolineato da Škvorecký in Všichni ti bystří mladí muži a ženy (“Tutti quei meravigliosi giovani uomini e donne”):

Dopo ‘O něčem jiném’ era già evidente il tratto più marcato della personalità artistica di Věra: il suo femminismo quasi militante. A volte mi sembra che Věra sia prima di tutto una donna e soltanto dopo un essere umano – ciò si manifesta in ‘Sedmykrásky’.” (pp. 114-115)

Innegabile è dunque la possibilità di interpretare Sedmykrásky, in chiave femminista. Tuttavia, la domanda che occorre porsi è se sia effettivamente possibile adattare questo tipo di interpretazione anche al resto della produzione degli anni Sessanta. La scelta di inserire delle figure femminili al centro dell’azione è da considerarsi anche un effetto nei confronti della forte autoreferenzialità presente all’interno della sua produzione. Nello specifico, dal momento in cui il fine è quello di indagare la realtà attraverso la cinepresa, lo scontrarsi con una società fortemente patriarcale porta all’intenzione di voler denunciare i valori che la rappresentano. Più che un discorso di genere, quello di Chytilová è da considerarsi una riflessione sulla moralità della società. Le figure femminili vengono plasmate nelle pellicole della regista portando l’attenzione tanto sulle percezioni di queste – si pensi a come vengano resi i sentimenti in un film come O něčem jiném – quanto sulla dimensione carnale del corpo femminile. A quest’ultimo proposito, il riferimento si rifà al modo in cui, attraverso scelte tecniche formidabili nel campo del colore e della musica, avvenga la rappresentazione del nudo in Ovoce stromů rajských jíme.

Ovoce stromů rajských jíme

L’interpretazione femminista si problematizza se si cerca di applicarla ad altre pellicole degli anni Sessanta. Difatti, se in Sedmikrásky questa incontra anche gli intenti di Chytilová, il discorso cambia se si considera O něčem jiném. Difatti, l’interesse è principalmente volto a rappresentare e analizzare problemi di carattere sociale. Il fatto che nel prodotto finale la critica assume dei tratti interpretabili come femministi è dovuto all’assetto sociale dell’epoca. Stando infatti alle parole stesse di Chytilová, l’intenzione dietro alla realizzazione della pellicola corrispondeva alla volontà di indagare non tanto la condizione della donna e i problemi relativi alla sua condizione sociale, quanto il complesso sistema di relazioni che la riguardano. Uno sguardo che, come sottolineato anche da Jan Čulík, è orientato piuttosto su un principio di individualismo. Nonostante ciò, non si può eludere da quanto Chytilová fosse consapevole di rivestire, in quanto donna, un ruolo complesso quanto importante nella società dell’epoca e, soprattutto, nel contesto cinematografico:

Il vero problema, tuttavia, è un altro. Ero una regista donna. Ma ero anche una madre e una cittadina di uno stato socialista e per questo motivo ero cosciente dei miei diritti e lotterei sempre per questi. Non accetterei mai di essere destituita dal mio impiego per ragioni non valide, perché questo cozza con lo spirito degli ideali socialisti. […] In quanto cittadina, donna, madre e regista, continuerò a lottare per gli ideali di una società socialista e farò del mio meglio per portarli alla loro realizzazione.

 

Bibliografia:

Jan Čulík, In search for authenticity: Věra Chytilová’s films from two eras, in “Studies in Esteuropean Cinema”, V.9, 2018, pp. 198-218.

Josef Škvorecký, Všichni ti bystří mladí muži a ženy, České Budějovice, Horizont, 1991.

Hana Havelková, Libora Oates-Indruchová (ed.), Vyvlastněný hlas: Proměny genderové kultury české společnosti 1948-1989, Praha, Sociologické Nakladatelství, 2015

Luboš Ptáček (ed.), Panorama českého filmu, Olomouc, Rubico, 2000.

Lukáš Skupa, Perfectly unpredictable: early work of Věra Chytilová in the light of censorship and production reports, in “Studies in Esteuropean Cinema”, V.9, 2018, pp. 233-249.

Roberto Turigliatto (a cura di), Nová Vlna. Cinema cecoslovacco degli anni ’60, Torino, Lindau Edizioni, 1994.

Sitografia:

Ruby Rich, In the name of feminist film citicism, in: Patricia Erens (ed.), Issues in feminist film citicism: https://publish.iupress.indiana.edu/read/issues-in-feminist-film-criticism/section/beac5708-f61c-4545-bd90-84665ef46e8d#ch18 (ultima consultazione: 18/11/2021).

 

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