Federica Florio
“Erano già passate le dieci di sera quando a Obljaj, alla porta dei Princip, bussò un gendarme, loro parente, intimandogli di presentarsi immediatamente alla stazione di polizia di Grahovo perché ‘Gavro ucciso Verdinand’.” (p. 11)
Inizia così l’ultimo romanzo di Miljenko Jergović, L’attentato, pubblicato qualche mese fa dalla casa editrice Nutrimenti. L’opera, tradotta dal croato da Ljiljana Avirović, ha visto la luce in Croazia nel 2017 con il titolo Nezemaljski izraz njegovih ruku e ha suscitato un entusiasmo immediato, nonché una notevole curiosità: l’autore, con la sua solita ironia e l’immancabile ricerca storica, si è cimentato nella ricostruzione di quello che potremmo considerare come l’attentato più famoso del mondo e che ha cambiato, in modo radicale, le sorti dell’umanità.
Link al libro: https://www.nutrimenti.net/libro/lattentato/
A chiunque è noto l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando per opera del giovane Gavrilo Princip, la famosa “goccia che fece traboccare il vaso” – come la definiscono i libri di storia – e che segnò l’inizio della Grande Guerra. Un attentato tragico tanto quanto anonimo, che tutti ricordano ma che pochi conoscono davvero: di quel lontano 28 giugno 1914 si rammentano i nomi del carnefice e della vittima, eppure quanti sanno chi erano veramente Princip e l’arciduca?
L’obiettivo di Jergović sembrerebbe, a prima vista, quello di dare voce a questi due protagonisti della storia del Novecento, ricostruendone i volti a partire dagli ideali e dai sogni, nel tentativo di dare forma agli animi che – senza rendersene conto – hanno cambiato il corso della storia europea. Gavrilo Princip e l’arciduca Francesco Ferdinando non potevano essere più diversi: “Antipodi, i cui destini, sentimenti e visioni del mondo determinavano i punti estremi della loro epoca” (p. 21). Gavrilo era un giovane serbo-bosniaco dedito alla poesia e alla letteratura, pieno di furore ideologico e modernista. L’arciduca, invece, era un uomo poco colto, erede quasi per caso di uno degli imperi più potenti dell’epoca; mal sopportato dalla sua stessa corte, si era inimicato l’imperatore per quello che veniva considerato come un banale capriccio amoroso. Due uomini diametralmente opposti, i cui destini sono stati uniti sul Ponte Latino di Sarajevo – denominato “Principov most”, “Ponte di Princip”, durante l’era jugoslava – da una pallottola.
“Dal punto di vista letterario è interessante collocare per la prima volta in uno stesso racconto e mettere in relazione questi due uomini, entrambi malati di tubercolosi, cresciuti accanto a madri forti e dominatrici (o accanto a una madre e a una matrigna). Perché va detto: il loro rapporto in realtà è durato al massimo tre secondi. A malapena si videro l’un con l’altro.” (pp. 27-28)
Sembra incredibile che un attentato simile, organizzato dai giovani membri del gruppo terroristico Mlada Bosna (Giovane Bosnia), abbia portato negli anni successivi alla morte di oltre quattordici milioni di persone. Jergović spiega passo passo come Princip si sia trasformato da semplice contadino di un paesino sperduto, al confine tra la Turchia ottomana e la Dalmazia veneziana, in un rivoluzionario pronto a sacrificare la propria vita in cambio della morte di un tiranno. Ma così come si concentra su Princip, l’autore si dedica anche all’erede al trono asburgico e al suo desiderio di recarsi a Sarajevo: una fantasia incomprensibile tanto per la corte viennese quanto per il resto dell’Europa dato che “Il viaggio a Sarajevo era considerato una provocazione dai serbi, dai russi e dai francesi e, in fin dei conti, sembrava assolutamente inutile e rischioso per l’arciduca” (pp. 22-23).
L’autore si concentra in modo quasi ossessivo sulla fatalità, su tutti quei minuscoli dettagli che hanno intrecciato indissolubilmente il destino di due uomini che non si conoscevano affatto; perfino Princip, che ha organizzato l’attentato per mesi, non sapeva chi fosse realmente l’arciduca: lo vedeva esclusivamente come un tiranno, un mero simbolo del potere imperiale, non come un uomo, perché “se avesse pensato a lui come uomo, Gavrilo Princip non avrebbe sparato” (p. 28).
Jergović riflette a lungo sulla fatalità di quel 28 giugno, sui dettagli che hanno portato al fallimento del piano originale dell’attentato. È un caso, infatti, che Princip abbia sparato all’arciduca: si è ritrovato davanti all’obiettivo per uno scherzo del destino, in seguito ai numerosi errori degli altri attentatori, dovuti sia alla giovane età (ad eccezione di Muhamed Mehmedbašić, erano tutti sotto i venticinque anni) che all’inesperienza. L’attenzione dell’autore si concentra a lungo sullo stato psico-fisico dei membri della gruppo terroristico e sulla loro incapacità, durante gli interrogatori, di svelare i particolari di quella giornata; i loro ricordi si mescolano, privi di una logica e della percezione dello scorrere del tempo. Nella confusione generale di un’Europa traumatizzata, la curiosità del giudice istruttore delle indagini, Leo Pfeffer, si focalizza proprio sulla mancanza della memoria, sull’incapacità di ricordare i particolari di un omicidio che è durato l’equivalente di un battito di ciglia, ma che ha avuto ripercussioni sulla Grande Storia per oltre cent’anni.
Considerare L’attentato come un semplice resoconto dettagliato di ciò che avvenne il 28 giugno 1914 sarebbe decisamente riduttivo: quello di Jergović è un romanzo davvero personale, che parla di Grande Storia quanto di vita individuale. Sono tante le voci che si rincorrono tra le pagine: non servono solo a mostrare i diversi punti di vista o a raccontare i retroscena che hanno portato Princip e Francesco Ferdinando a incrociarsi sul Ponte Latino, bensì a mostrare la Bosnia – di allora e di oggi – nella sua totalità. L’autore omaggia la sua città natale, Sarajevo, facendone un ritratto brutalmente sincero: la Bosnia appare come una terra martoriata, lacerata nel profondo da conflitti troppo antichi per essere sanati. Come dice lui stesso:
“L’idea di uno Stato plurinazionale, pluriconfessionale, e dell’uguaglianza di tutti gli uomini davanti alla legge, in Bosnia era arrivata come un miracolo insieme all’Austria, inserendosi in un odio ben radicato e zeppo di pregiudizi.” (p. 19)
Jergović guarda alla sua terra natale così come guarderebbe un genitore: ne vede tutti i difetti, la critica aspramente, ne evidenzia i problemi socio-culturali… ma, allo stesso tempo, la ama e la rispetta, e in ogni pagina traspare quell’amore che tipicamente s’intreccia al senso di appartenenza. Spesso, inoltre, la narrazione segue l’andamento del rapporto travagliato e a dir poco complesso tra Patria e individuo. Il risultato è un’opera policromatica e polifonica, che richiede la giusta dose di attenzione per riordinare i pezzi di un puzzle che sembra noto a tutti, ma che in realtà nasconde ambizioni, vite e ideali rimasti nell’ombra per più di un secolo. Sarajevo rimane una città malintesa, ribelle, piena di giovani sognatori guidati da ideali che non trovano posto in una società eterogenea e irrimediabilmente spaccata come quella bosniaca. Una città che è diventata famosa quasi per caso, che tutti ricordano ma che nessuno riesce davvero a comprendere, perché, per quanto si possa indagare sull’attentato della Mlada Bosna, la vita rimane un groviglio di legami personali, occasioni perse, delusioni e ideali indelebili. Ma Miljenko Jergović, la complessità dell’esistenza, riesce a metterla per iscritto con la stessa facilità con cui il proiettile di Princip ha trafitto l’arciduca.
Apparato iconografico:
Immagine di copertina: https://www.babelio.com/users/AVT_Miljenko-Jergovic_8462.jpg
Immagini 1 e 2 presenti nella copertina del volume edito Nutrimenti.