Marianna Kovacs
“Il 9 aprile 1910 il professore Dezső Kuthy auscultandomi il torace affermò: ‘Una leggera infiammazione all’apice del polmone destro’. Nello studio semibuio e dall’odore di acido fenico mi assalì immediatamente un sentore di cripta. […] A mezzogiorno presi la prima dose di bromuro, alle 2 la seconda, alle 5 la terza e alle 5.30 di mattina, tra i raggi di una splendida giornata primaverile, mi iniettai con la siringa che si trovava sulla mia scrivania la prima dose, 0,02 di morfina in soluzione.” (pp. 139-140)
È così che inizia il lungo calvario del più poliedrico scrittore, musicista e artista del Novecento ungherese. Lo racconta anche in uno dei successivi diari, affermando che la paura della tubercolosi giocherà un ruolo sempre più insignificante rispetto alla crescente dipendenza dalla morfina. Attorno a Géza Csáth si chiude un circolo vizioso: l’insofferenza verso la vita lo costringe ad assumere la morfina, e poi il Pantopon, ma ciò rende ancora più insopportabile la sua esistenza anziché procurargli l’auspicata euforia. Il cugino Dezső Kosztolányi, altra figura importante nella letteratura ungherese, disse che nel suo caso il morfinismo è stato una conseguenza e non una ragione. Quando si rivolge a questo veleno sa inconsciamente di scegliere il pericolo minore. Cerca di sfuggire dalla malinconia che nei suoi scritti risuona come un dolce canto ultraterreno.
Csáth si laurea in medicina, diventa psichiatra e lavora in una delle migliori cliniche per malattie mentali. Fu tra i primi in Ungheria ad occuparsi della teoria della psicoanalisi freudiana.
Nei suoi scritti l’obiettivo principale è quello di rivivere e illuminare nel modo più profondo possibile i fenomeni della realtà. Il metodo della sua rappresentazione è solitamente paragonato al lavoro del medico perchè il lettore ha l’impressione di ricevere nelle narrazioni una diagnosi precisa delle figure. Lo scrittore vuole vedere tutto in profondità, andare alle radici. I racconti di Csáth sono caratterizzati da una forte vicinanza al soggetto.
Secondo il critico Endre Illés “è stato lo scrittore della materia, dei sensi, del corpo, del dolore, della bellezza, ma soprattutto è stato lo scrittore della sperimentazione in cui il corpo perisce”.
È vero che cerca casi estremi di destino umano, ma come scrittore non è interessato alla patologia, bensì alla conoscenza dell’uomo. Nei decenni in cui Csáth si presenta al pubblico si ispira prima di tutto alle scienze naturali, in particolare alla psicologia medica, di cui diventa un profondo conoscitore e mediatore. “Aveva uno zelo febbrile per il lavoro clinico – scrive di lui Kosztolányi nel 1919 nella rivista “Nyugat” (“Occidente”) – e, sulla scia di Freud e ancora in giovane età, scrisse un libro sul meccanismo psichico della malattia mentale.”
Csáth crea un’arte realistica a tema chiuso, una tecnica concisa, anche quando l’argomento è un caso estremo o anche solo una storia spaventosamente inquietante. Il racconto Matricidio è uno degli scritti più forti. Penetra nella giungla spirituale di bambini selvaggi, dove l’attrazione sessuale e il bisogno assetato di piena conoscenza delle passioni spingono immature anime adolescenti verso la brutalità. Il racconto è un pezzo prezioso di realismo psicologico in cui ogni singolo gesto è motivato e dove l’evento estremo del matricidio si verifica alla fine della novella in modo tale che ogni antecedente giustifica il terribile atto. La voce obiettiva della chiusura del racconto sottolinea ancor di più la potenza della trama: “Tornarono in camera loro, si lavarono le mani e vuotarono l’acqua dalla bacinella, ma non ebbero bisogno di cambiarsi, perché non c’erano tracce di sangue sui loro vestiti.” (p. 63)
Lo scrittore Frigyes Karinthy lo descrive con le seguenti parole: “Sente molto bene che il principale mezzo per provocare un effetto è la pseudo-oggettività omicida, accresciuta fino alla crudeltà che apre e tocca impassibilmente gli organi più sensibili della vita.”
Se la sua passione distruttrice non avesse ucciso prima il suo spirito creativo e poi il suo io, sarebbe diventato certamente una delle personalità di spicco della narrativa realista ungherese del secolo.
József Brenner, alias Géza Csáth, nato nel 1887, inizia a scrivere un diario all’età di dieci anni. Per lui è la prima conoscenza della scrittura che presto diventa abitudine persistente e permanente fino alla morte, dando così una specie di cornice alle opere letterarie. L’artista tiene i diari in modo coscienzioso e metodico e, oltre ad annotare le date esatte, redige anche dei riassunti mensili e annuali. Gli studi finora svolti si sono occupati prevalentemente del diario scandaloso del 1912-1913, l’unico ad essere stato tradotto e pubblicato in italiano.
“È un pensiero tremendo e opprimente non avere più voglia di scrivere. Da quando mi dedico soprattutto all’analisi, analizzando tutti gli aspetti del mio inconscio, non sento più la necessità di scrivere. Eppure l’analisi causa soltanto sofferenza, disinganno e un’amara consapevolezza della vita. Al contrario, scrivere può donare gioia e pane. Ora non più! Vado avanti con difficoltà e lacerato dal dubbio. L’autocritica castra le idee sul loro nascere. Le mie più intime emozioni, ancora inespresse, non riesco a tradurle in parole scritte. Me lo impedisce il pensiero che gli altri possano leggere e scoprire la mia interiorità, così come mi accade leggendo le opere di altri scrittori da psicoanalista.” (p. 21)
Già nelle prime righe Csáth esprime un’intera ars poetica, in cui indica e caratterizza le tappe più importanti della carriera di scrittore. Questa citazione esplicita il ruolo centrale della psicoanalisi nella sua opera, piuttosto che nella vita, poiché è proprio la psicoanalisi a provocare un cambiamento nella performance artistica. La crisi letteraria di Csáth e la frattura del suo percorso si spiegano con lo sviluppo della tossicodipendenza, con le malattie presunte o reali e con i conseguenti problemi di vita privata. Acquisire un approccio, un pensiero e un modo di esprimersi psicoanalitici significa che la legittimità positivista della letteratura si sta rivelando ormai insufficiente: la psicoanalisi è uno strumento più efficace della letteratura per conoscere e forse risolvere i conflitti, i segreti, le profondità dell’anima. Inoltre, l’approccio analitico significa anche un maggior grado di riflessività, una consapevolezza della natura illusoria dell’“onestà”.
Col tempo le note quotidiane riportate nell’opera autobiografica di Csáth si legano sempre più alla sfera radicalmente privata con l’esposizione aperta dei due grandi “segreti”: vita sessuale e dipendenza dalla morfina. Nei diari Csáth tiene il conto preciso della quantità di morfina assunta e delle donne consumate.
“La responsabile delle stanze! Questo è un nuovo capitolo. Breve ma succoso. Una ninfomane di trentasei anni, corpulenta e col naso grosso, la mezzana delle cameriere, con un culo enorme e un petto un po’ sceso ma bello, una magistrale depravazione e pelle rosa liscia come il velluto. Il suo brutale benessere e la sua spaventosa sensualità, che facevano ricordare una baccante, avevano suscitato il mio interesse. L’avevo vista una volta alle piscine termali. Il costume bagnato le aderiva strettamente addosso mostrando le sue magnifiche forme. La configurazione dei fianchi, la linea della schiena, tutto il corpo nella sua interezza erano di una bellezza rara. Allora ho deciso di lanciarmi seriamente alla sua conquista, anche se desideravo introdurre nella mia imminente vita coniugale una completa fedeltà a Olga, tuttavia una donna del genere non aveva mai figurato nel mio menù.” (p. 48)
È quasi commovente leggere l’ultima parte del diario in cui lotta per cercare di controllare e superare le sue dipendenze.
“Mezzanotte e un quarto. Con oggi inizio una nuova era della mia vita. Devo disintossicarmi completamente dalla morfina e devo regolare il consumo di Pantopon come farmaco da utilizzare di rado. Negli ultimi due giorni si sono manifestati dei sintomi che fanno dedurre che il mio organismo ora pretende un massiccio aumento delle dosi. Perché devo mettere fine a questo gioco pericoloso.” (p. 123)
“Sono riuscito a evitare completamente la droga con l’intelligente combinazione di alcol, bromuro, aspirina, acqua fredda e bagno caldo, mantenendo fermo e forte il mio proposito.” (p. 148)
Csáth è lo scrittore della vita. Non è semplicemente un letterato che resta sempre fuori dalla propria opera, che crea soltanto “letteratura”, nel senso che questa potrebbe essere contrapposta alla “vita”. È un eroe in cui vita e scrittura non si separano, il suo modo di creare non è mimetico. È come se fosse il rovescio dell’armonia tra vita e letteratura. Csáth proprio per questo occupa una posizione ambigua nel canone letterario ungherese, al confine tra quello classico e quello alternativo, quasi di controcultura.
La lotta con la droga e con gli altri demoni non si placa. All’inizio del 1912 riesce a rimanere quasi cinque mesi senza droga, ma poche settimane dopo si illude ancora con false promesse:
“Per il 6 febbraio, giorno della morte di mia madre, sarò completamente libero. Ultima iniezione il 5 febbraio. L’ultima della mia vita. […] Rileggo sorridendo le ultime sconsolanti annotazioni del diario. In fondo in esso ci sono cose molto serie. Una lotta disperata, uno sforzo per liberarmi dalla droga.” (pp. 155-156)
Csáth si mette spesso davanti allo specchio per sputarsi in faccia o per disprezzarsi. Si immerge in se stesso, ma allo stesso tempo si osserva e si descrive, e tutto ciò lo rende completamente alienato da se stesso. Oscilla tra sincerità illusoria e autoinganno, ma questo viene notato solo dal lettore. Il diario è così inquietante e sconvolgente proprio perché per Csáth i due non si separano: l’autoinganno lo riempie di un’insoddisfazione altrettanto profonda quanto lo è il confronto sincero. Ad esempio, il modo in cui pianifica una vita felice e crede di essere in grado di realizzarla è così straziante da leggere come quando dice a se stesso: “Ora devi soffrire, cane, essere orrendo e schifoso, soffri e roditi il fegato.” (p. 155) Lascia la stessa sensazione quando, dopo una serie di fallimenti, non pensa minimamente di cercare le proprie colpe, mettendo così in luce la condizione di un uomo senza speranza. Proietta in tal modo l’immagine sconvolgente del riflesso dell’odio su sé stesso:
“Sono così repellente, debole e pietoso che davvero mi meraviglio che Olga ancora mi ami e non mi tradisca. Che non le faccia schifo la mia voce debole e velata, il mio vizio di guardarmi di continuo allo specchio […], il mio pene cinico e raggrinzito, il mio muso consunto, i miei discorsi insulsi, la mia vita impotente e priva di lavoro, il mio essere sospettoso e abulico, la spudoratezza con la quale ogni giorno mi ritiro a lungo nel bagno, la mia stupidità. Credo anche di puzzare perché, avendo l’olfatto ormai insensibile, non sento più l’odore né del mio culo pulito male né della mia bocca cariata.” (pp. 152-153)
Riga per riga il diario rivela la perdita della vita, la soppressione del “potere dinamico” dell’anima. Csáth combatte invano, viene spinto sempre più in profondità da una forza inarrestabile. Non può far altro che scrivere la cronaca del proprio destino come un osservatore esterno. Sembra che scrivere non significhi solo registrare gli eventi, ma anche realizzarli. Le conquiste e le avventure non finiscono a letto, ma sulla carta. Il tono impersonale con cui riferisce delle donne — questi oggetti viventi — suggerisce che la conquista non si esaurisce con il possesso del corpo femminile, ma con la fissazione di quel possesso. È come se lo scopo principale della conquista non fosse afferrare una donna, ma documentarne il fatto.
L’impulso a registrare, a documentare, a calcolare suggerisce che le donne (o le droghe) non possono più procurare piacere all’uomo promesso alla morte. Più precisamente, non lo portano all’estasi, che non è più di natura sessuale, ma al pieno possesso della vita. Tutti i tentativi di Csáth in questa direzione falliscono perché fissa l’asticella irrealisticamente troppo in alto. Ma perché pone la felicità a una distanza irraggiungibile? Forse perché tutto ciò che può effettivamente realizzare lo riempie di infelicità. Mette l’asticella troppo in alto perché rimane lui stesso al di sotto della vita. Da mezzo morto, nello stesso modo in cui un prigioniero della morte non è soddisfatto della vita, Csáth vuole essere immediatamente immortale.
Il suo diario è anche un costante richiamo alla morte: “Si è messa a piagnucolare, io invece mi sono ritirato nella toilette, e con una potente dose da 0,027, ho commesso un suicidio in miniatura.” (p. 93)
Il desiderio di assorbire completamente la vita è associato a una perfetta mancanza di felicità. È come se Csáth rinunciasse a tutto ora per un’estasi successiva (ovviamente non accadrà mai). Questo libro è il diario dell’attesa: dietro pianificazioni pratiche (abbandono della droga, lavoro attivo, vita civile sicura, eccetera) c’è qualcuno che non solo desidera più soldi, successo o un lavoro migliore, ma che vorrebbe passare dalla morte alla vita. Il lettore ha l’impressione di leggere le annotazioni di una persona con un piede nella fossa. Gli eccessi pianificati, le conquiste, i calcoli simili a bilanci commerciali, i programmi di vita riportati come un elenco sono banali appigli. Tuttavia, neanche questi mezzi “sobri” e “affidabili” sono in grado di arrestare l’uomo che si sta ritirando dalla vita.
“[…] 20) Solo in ospedale mi sono accorto di tutto. In quelle tremende 30 notti insonni, mentre la testa mi scoppiava e ansimavo per la dispnea. È stata una cosa atroce!
21) Poi mi sono reso conto di essere un malato condannato a morire e che non c’era salvezza.” (p. 168)
Allo scoppio della Grande Guerra è arruolato come medico militare. Lontano dalla bellezza dell’amore, lontano dalla possibilità di creazione, gettato in mezzo agli orrori non ha altro rifugio che la morfina che fa dimenticare tutto e dà piacere suicida. A questo punto si scatena il demone. La sua salute è compromessa ormai da una troppo lunga dipendenza dall’oppio. E anche se viene congedato definitivamente in quanto non idoneo, ormai non si torna indietro. Non ci sarà più amore, né creazione, né lavoro, esiste solo la morfina. Quando le sue condizioni si aggravano ulteriormente viene internato in un sanatorio da dove fugge e in un raptus di follia uccide la moglie per poi tentare il suicidio. Viene salvato e nuovamente internato. Tenta un’ulteriore fuga, questa volta per raggiungere Budapest per farsi curare da un suo professore. Corre l’anno 1919 e la storia, nel frattempo, ha ridisegnato la mappa geografica dell’Europa. Alla nuova linea di demarcazione trova uno dei tanti confini che non riesce a superare. I militari serbi lo fermano e sotto il loro sguardo incredulo e sbigottito ingerisce una dose letale di Pantopon, un derivato dell’oppio.
Leggendo il Diario emergono la tragedia dell’inarrestabilità dell’autodistruzione, l’interdipendenza dell’energia creativa artistica e quella tossica, le tappe struggenti del degrado, la solitudine del morfinomane e l’impulso alla solitudine. Non sono eclatanti né il costante aumento delle dosi da iniettare né il numero delle conquiste amorose, ma la dimostrazione sempre più frustrante della brutalità del suicidio lento.
Bibliografia:
Géza Csáth, Diario, Roma-Napoli, Theoria, 1998.
Géza Csáth, Oppio e altre storie, Roma, Edizioni e/o, 1985.
Mihály Szajbély, A varázsló halála. In memoriam Csáth Géza, Nap kiadó, Budapest, 2004.
Sitografia:
https://mek.oszk.hu/00600/00633/00633.htm
http://real.mtak.hu/18413/1/ZVargaZolt%C3%A1n56-61.pdf
http://www.zetna.org/zek/folyoiratok/92/hajdu.html
http://www.naputonline.hu/wp-content/uploads/2020/09/naput106.pdf
https://litera.hu/magazin/osszeallitas/100-eve-halt-meg-csath-geza.html
http://www.kaleidoscopehistory.hu/index.php?subpage=cikk&cikkid=351
Apparato iconografico:
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