Silvia Macario
L’estate dell’anno 1912 rappresenta una data centrale nella vita dell’autore lubecchese: non solo porta a termine una delle sue opere più note, Der Tod in Venedig (“La morte a Venezia”, 1912), ma, in un soggiorno presso il sanatorio di Davos, ha la prima ispirazione per il romanzo Der Zauberberg (“La montagna magica”, 1924), un’opera che ha segnato il Novecento e che l’autore descrive come “dal vasto orizzonte interiore, con elementi politici, filosofici e pedagogici, che costituisce un tentativo di rinnovare il Bildungsroman” (p. 12).
In quell’anno la malattia bussa alla porta di casa Mann, e Katja, moglie di Thomas, viene ricoverata a Davos a partire da marzo, mentre il marito la raggiunge dal 15 maggio al 12 giugno. Il romanzo nasce in origine come una novella contrapposta a La morte a Venezia, con l’intenzione di narrare una storia grottesca in cui “il pensiero della morte che era stato il motivo della novella veneziana doveva essere volto al comico: qualcosa come un dramma satiresco […]” (p. 11). L’opera però ha una genesi di circa 12 anni, con una pausa già nel 1915, allo scoppio del primo conflitto mondiale, ed una seconda nel 1921, giungendo a conclusione solo nel 1924.
La malattia e la morte sono un leitmotiv centrale nell’opera: il protagonista, il giovane amburghese Hans Castorp, giunto al sanatorio in visita al cugino Joachim Ziemssen, si scoprirà presto malato a sua volta e la sua permanenza si protrarrà per sette anni, “i sette favolosi anni del suo incantamento” (p. 689), in un orizzonte temporale che diventa via via sempre più indefinito e sospeso, giacché al sanatorio “anche il concetto di tempo è (o era) lussuoso” (p. 689).
Mann descrive minuziosamente il tipo di vita che i pazienti trascorrono nel sanatorio, scandita da pasti molto ricchi, lunghe ore di riposo assoluto sulla sedia a sdraio in terrazzo, brevi passeggiate, serate musicali. Uno stile di vita su cui Mann esprimerà la propria contrarietà in modo molto deciso:
“Quel mondo di ammalati è chiuso in sé e tenacemente avviluppante […]. È una specie di surrogato della vita che in un tempo relativamente breve estrania del tutto i giovani dalla vita reale, attiva. […] Quelle case di cura sono (o erano) un fenomeno tipico del mondo d’anteguerra, pensabili soltanto in una forma di economia capitalistica ancora intatta. Soltanto in tali condizioni era possibile che i pazienti facessero quella vita, a spese delle loro famiglie per anni o magari per sempre. Oggi è finita o quasi.” (p. 689)
Nel sanatorio Berghof il protagonista incontra una schiera di personaggi curiosi, oltre naturalmente ai due medici, il dottor Behrens, stimato chirurgo, ed il dottor Krokowski, assistente del dottor Behrens, che si interessa di psicoanalisi e che organizza persino una seduta spiritica per dilettare i pazienti. Su tutti aleggia l’ombra della malattia: la signorina inglese che beve un tè “color sangue”, una ragazza “straordinariamente magra”, la signorina Stöhr che lamenta di essere “tanto fiacca”, Hermine Kleefeld “che fischia col pneumotorace” (p. 62). Eppure l’atmosfera è lieta, come nota lo stesso Castorp:
“Tutto si svolgeva allegramente, non si aveva l’impressione di trovarsi in un luogo di dolore. Giovani abbronzati dell’uno e dell’altro sesso entravano canterellando, parlavano con le cameriere e attaccavano la colazione con formidabile appetito.” (p. 57)
Il cugino Ziemssen si spinge addirittura a dire che “morte e malattia, a rigore, non sono cose serie, sono piuttosto come un bighellonare ozioso; serietà, se vogliamo essere precisi, c’è soltanto nella vita laggiù” (p.63). Hans Castorp dimostra subito di non essere affatto spaventato dalla malattia e dalla morte, rimanendo divertito dall’usanza di portare a valle i pazienti deceduti con delle slitte, e accettando di buon grado di occupare una stanza in cui è appena morta una paziente. Nel corso del romanzo, questa sua disposizione verso la morte diventa una vera fascinazione, che raggiunge l’apice nell’incontro con la nobildonna russa Clawdia Chauchat, per la quale egli prova una forte attrazione, acuita dal pallore e dalla malattia della donna:
“[…] le braccia di Clawdia erano nude fino alle spalle… quelle braccia tenere e piene ad un tempo, che spiccavano straordinariamente bianche sulla serica scurezza del vestito, in maniera così impressionante che Castorp chiuse gli occhi mormorando tra sé: “Dio mio!”. […] La completa, spiccata, abbacinante nudità di quelle membra d’un organismo malato fu un avvenimento che si rivelò ben più forte della trasfigurazione di allora, un fenomeno cui non era possibile reagire se non chinando la testa e ripetere senza voce “Dio mio!” (p. 316)
La simpatia di Castorp per la morte lo porta a conoscerla sempre più da vicino, come quando si sottopone ad una radiografia nello studio del dott. Behrens, e vede “ciò che a rigore non spetta agli uomini […]: gettò uno sguardo nella propria tomba” (p. 217). Ed è proprio attraverso la conoscenza della morte che il protagonista giunge infine a conoscere l’amore: come Clawdia sottolinea, “il corpo, l’amore e la morte non sono che uno. Poiché il corpo è la malattia e la voluttà, ed è questo che causa la morte, sì, sono entrambi carnali, ed ecco il loro terrore e la loro grande magia” (p. 332). In una lettera all’amico Paul Amann del 3.8.1915 Mann parla esplicitamente di questa “tendenza verso la simpatia per la morte” all’interno del romanzo, descrivendola inoltre come una caratteristica che gli è propria, un tratto che definisce “profondamente presente in me stesso”. L’autore sostiene inoltre come la morte non sia da intendersi in quanto fine della vita, ma come il più grande avvenimento della vita stessa:
“L’interesse alla morte e alla malattia, ai fenomeni patologici, alla decadenza non è che una variata espressione dell’interesse alla vita, all’uomo, come dimostra la facoltà umanistica di medicina: chi s’interessa ai fatti organici, alla vita, s’interessa in particolare alla morte […].” (p. 11)
Il dualismo di vita e morte raggiunge l’apice nel capitolo Schnee (“Neve”), in cui Castorp, smarritosi sulla montagna a causa di una bufera di neve, vive un sogno che Luca Crescenzi ha definito come “uno dei luoghi più controversi dell’intera opera di Thomas Mann e, insieme, il centro vitale della Montagna Magica”. Ad una prima immagine idilliaca, in riva al mare, di una “bella giovane umanità, intelligente e serena, tanto simpatica da vedere…” (p. 470) si contrappone uno scenario terrificante, un “orrendo banchetto di sangue” (p. 474):
“Due donne grigie, seminude, coi capelli scarmigliati, i seni da streghe penduli e i capezzoli lunghi un dito, erano impegnate là dentro, tra sfiaccolanti padelle di fuoco, in un lavoro orribile. Sopra un catino sbranavano un bambinello, lo sbranavano con le mani in un silenzio sinistro […]” (p. 473)
Tra le possibili fonti di questo passo la critica ha individuato il mito delle Menadi narrato nelle Baccanti di Euripide; inoltre, Helmut Koopman intravede nella scena la rappresentazione di una festa dionisiaca e un probabile riferimento alla Nascita della Tragedia di Nietzsche. Cosa può dunque significare questa rappresentazione di due scenari così diversi? Forse un’accettazione della vera e profonda doppia natura dell’umanità, ma forse anche un ideale di umanità futura, pacifica e votata al rispetto; è necessario tenere a mente, infatti, che tra l’inizio e la fine della stesura della Montagna Magica ha luogo il primo conflitto mondiale, evento che sovverte la realtà dell’epoca e che necessariamente suscita nell’autore profonde riflessioni. La morte non è più un evento distante, legato alla malattia e al sanatorio, ma un fatto che riguarda tutti, forse anche lo stesso Castorp che sceglie di andare al fronte.
“La sconsideratezza della morte è nella vita, senza di essa la vita non sarebbe vita, e nel mezzo sta l’homo Dei […] (p. 475)
La morte dunque “è una grande potenza. Alla sua presenza ci si leva il cappello e si cammina oscillando in punta di piedi” (p. 475). Eppure, Mann invita a non rimanere fedeli alla morte e al passato, se questo preclude il pensiero della vita e del futuro, il pensiero dell’umanità.
“Per rispetto alla bontà e all’amore l’uomo ha l’obbligo di non concedere alla morte il dominio sui propri pensieri.” (p. 475)
Nonostante l’opera abbia al centro proprio la malattia e la morte, o forse proprio per questo, essa viene ad essere in realtà un inno alla vita e all’amore, come si evince dalle ultime parole che l’autore dedica al suo “schietto pupillo della vita”:
“Ci sono stati momenti in cui nei sogni che governavi sorse per te, dalla morte e dalla lussuria del corpo, un sogno d’amore. Chi sa se anche da questa mondiale sagra della morte, anche dalla febbre maligna che incendia tutt’intorno il cielo piovoso di questa sera, sorgerà un giorno l’amore?” (p. 684)
Bibliografia:
Helmut Koopman, Wie wirklich ist das Unwirkliche? Hans Castorp träumt, in “Lebenstraum und Todesnähe”, Frankfurt am Main, Vittorio Klostermann, 2015, p. 75.
Luca Crescenzi, Introduzione alla Montagna Magica, Milano, Mondadori, 2010, p. LXXV.
Thomas Mann, La Montagna Incantata, trad. It. E. Pocar, Milano, Corbaccio, 2018 (1965).
Apparato iconografico:
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