Eleonora Smania
Tra i personaggi più eclettici rappresentativi del panorama letterario, artistico e culturale contemporaneo russo non si può non citare il nome di Ljudmila Petruševskaja. Nata a Mosca il 26 maggio 1938, Ljudmila Stefanovna Petruševskaja è una poetessa, scrittrice prolifica, traduttrice, pittrice, drammaturga e sceneggiatrice. Nonostante avesse già iniziato a scrivere durante gli anni Sessanta, riuscì a pubblicare solo nella seconda metà degli anni Ottanta, quando ormai era già divenuta celebre negli ambienti del teatro non allineato. Attraverso gli innumerevoli grotteschi ritratti di autentiche donne sovietiche l’autrice ha descritto la quotidianità sovietica a seguito della Perestrojka in tutto il suo squallore e degrado, decostruendo la grande narrazione ottimistica della propaganda ufficiale del periodo e mettendo in luce gli aspetti più problematici e scabrosi che caratterizzavano la vita dei cittadini e cittadine sovietiche. A partire dagli anni Novanta ha ottenuto prestigiosi riconoscimenti letterari e artistici, tra i quali il premio internazionale Alexandr Puškin nel 1991 ad Amburgo, il premio statale russo per la letteratura e l’arte nel 2002, il premio indipendente Trionfo (2002), nel 2008 il premio Bunin per Mal’enkaja devočka iz Metropol’ (“La bambina dell’hotel Metropole”, 2006), il premio del teatro Stanislavskij e il premio World Fantasy per il suo celeberrimo romanzo Žila–byla ženščina, kotoraja chotela ubyt’ sosedkovo rebenka (“C’era una volta una donna che ha cercato di uccidere il figlio del suo vicino”, 2009).
C’era una volta una donna che ha cercato di uccidere il figlio del suo vicino non è la prima antologia di racconti scritta da Petruševskaja; difatti, la prolifica scrittrice moscovita ha pubblicato diverse antologie, tra le quali Rekviemy (“Requiem”), produzione in prosa dal carattere fortemente programmatico pubblicato nel 2001. Come si può intuire dal titolo stesso (che prende spunto dalla parola latina usata per indicare la preghiera d’invocazione per i defunti), Requiem è un ciclo di racconti nei quali i lettori e le lettrici esplorano il concetto di morte, inteso come entità dotata di molteplici sfaccettature. In Requiem si narra di diverse tipologie di morte, dalla fine dell’amore coniugale, al crollo delle speranze giovanili, dalla graduale scomparsa della voglia di vivere, al degrado spirituale e così via. Tali variegate esperienze di morte vengono raccontate attraverso uno sguardo turpe e deprimente, reso su carta attraverso l’uso di immagini disturbanti al limite del surreale e un linguaggio crudo. In ogni racconto presente nell’antologia, la morte narrata appare solitaria, assurda, irrazionale e persino tragicomica. Tra i racconti presenti, Kto otvetit (“Chi risponderà”) è tra i più memorabili e fondamentali per analizzare in modo più preciso la poetica petruševskiana. Inizialmente pubblicato nel 1988 nella raccolta Bessmertnaja ljubov’ (“Amore immortale”) come parte della sezione Monologi (“Monologhi”) e poi successivamente in Requiem, Chi risponderà narra la vicenda di Vera Petrovna, donna colpita da una malattia e abbandonata a se stessa che muore agonizzante in un ospedale di provincia. Come si può ben notare, la trama è molto semplice, tuttavia, ciò su cui ci si deve focalizzare non è la struttura della trama ma la modalità con la quale viene narrato l’evento. Il racconto presenta un’introduzione particolare.
“Chi risponderà alle candide lacrime di Vera Petrovna, alle sue candide e deboli lacrime senili sul letto d’ospedale prima che Vera Petrovna morisse? Chi vendicherà il sangue di Vera Petrovna – non letteralmente il suo sangue, il sangue non fu versato e si congelò nelle vene, ma si dice così – chi ne vendicherà il sangue e Vera Petrovna, che al termine della sua vita è diventata folle a causa dei diversi farmaci, che ha patito incomprensibili e strani tormenti senza aver alcuna colpa e che diceva alle ragazze, sue collaboratrici ‘Fa vedere che mutandine hai!’” (p. 106)
Come in un vero e proprio monologo con sé stessa, la voce narrante si pone dei quesiti ben precisi: perché una donna come Vera Petrovna deve morire senza nessuno accanto? Perché deve trascorrere ciò che le resta da vivere mentre è agonizzante e stordita dai farmaci? Chi dovrà rispondere della vita di Vera Petrovna? Nonostante tali domande non ottengano mai risposta all’interno del racconto, il lettore e la lettrice acquisiscono fin da subito una consapevolezza: la condizione di Vera Petrovna appare tanto crudele e assurda quanto reale. È proprio grazie al linguaggio diretto e crudo dell’autrice se la sofferenza sperimentata da Vera Petrovna sembra terribilmente reale. I tormenti vissuti sul lettino d’ospedale non fanno altro che degradare la figura della donna morente, privata dei suoi ultimi atti di lucidità a causa dei farmaci che le somministrano. La sofferenza non viene elevata, poiché rappresenta un passo in più verso la privazione della dignità di Vera Petrovna in quanto essere umano e l’annullamento della carne. Proprio per tale motivo chi legge prova sensazioni contrastanti, come rabbia, tristezza e ribrezzo, di fronte al trattamento riservato al corpo di Vera Petrovna.
“Ma questo ostinato e malinconico « Fai vedere che mutandine hai!» pronunciato al tramonto di una vita, quando tutti sapevano che Vera Petrovna stava morendo e sarebbe morta molto presto in agonia, rimase riecheggiando nelle orecchie anche molto dopo che Vera Petrovna morì, lasciata in suppurazione alle correnti d’aria nel corridoio di qualche malandato ospedale per malati cronici e disperati, ma anche per persone sole, senza nessuno che intercedesse per portarle in un ospedale migliore anziché lasciarle a morire nell’umidità, tra correnti d’aria, gemiti e fetore attorno.” (p. 106)
La vita di Vera Petrovna è giunta alla fine dopo un lungo percorso segnato dalla solitudine e dalla sofferenza, durante il quale la protagonista si trasforma da “donna non giovane ma coraggiosa e strillona” a “creatura barbuta e baffuta, spedita nel corridoio a morire distesa su Dio sa cosa” (p. 106); da un essere umano a un corpo morente e vecchio. La malattia e la morte occupano un ruolo cruciale, poiché svelano il segreto della vita: l’invecchiamento, fase inevitabile e dolorosa di quest’ultima è il momento di preparazione all’espulsione della vita dal corpo una volta superata l’età della gioventù. Un destino tragico comune a tutti gli esseri umani che non deve essere temuto o ripudiato ma compreso. La tragedia della mortalità umana deve essere quindi oggetto di riflessione.
Altra caratteristica stilistica della raccolta che risalta immediatamente all’occhio è l’inserimento dell’elemento comico – al limite del grottesco – che permea la narrazione: stordita dai medicinali che i dottori le somministrano e dai dolori che la rendono agonizzante sul lettino dell’ospedale, Vera Petrovna chiede alle colleghe che vengono a farle visita di mostrarle l’intimo. L’aspetto più paradossale è che le colleghe che solevano visitare Vera Petrovna avranno come unico e continuo ricordo della donna deceduta proprio il suo “Fammi vedere che mutandine hai”, pronunciato nei suoi momenti di delirio. L’umorismo nero che caratterizza la produzione petruševskiana chiaramente funge da elemento di contrasto con le condizioni allucinanti in cui la protagonista – come tante altre persone all’interno di quell’ospedale – muore. L’inaspettato elemento comico sottolinea, quindi, la situazione di degrado e incuria nelle quali persone sfortunate tanto quanto Vera Petrovna si ritrovano volenti o nolenti, una situazione non molto distante dalla realtà. La critica alla società sovietica, talmente concentrata nel promuovere a tutti i costi un ideale utopico di umanità al punto da sacrificare l’individuo alla collettività, traspare evidente in Chi risponderà. La tragedia della mortalità umana, esperienza universale con la quale ciascun individuo si rapporta in modo molto intimo, viene ignorata e accantonata dalla società sovietica.
Oltre a ciò, è curioso osservare come l’immagine della morente Vera Petrovna di creazione petruševskiana richiami inevitabilmente un altro personaggio morente molto celebre della tradizione letteraria russa e mondiale, ossia il personaggio tolstoiano Ivan Il’ič. In Smert’ Ivana Il’iča (“La morte di Ivan Il’ič”, 1886) il protagonista si ammala a causa di un banalissimo eppure fatale incidente domestico. Debilitato dalla malattia e indebolito dal dolore costante, Ivan Il’ič ripensa alla propria vita, realizzando gli errori commessi e i falsi idoli inseguiti per tutta la vita e riconciliandosi con la morte.
“‘E la morte? Dov’è?’
Aveva cercato la sua solita paura della morte, quella di prima, e non l’aveva trovata. Dov’era? Che morte? Non c’era nessuna paura perché non c’era nessuna morte.
Invece della morte c’era la luce.” (p. 49)
Il paragone tra i due personaggi letterari e le loro storie non fa altro che evidenziare la desolazione e la disperazione alla base della tragica vicenda di Vera Petrovna, privata della possibilità di vivere in maniera più dignitosa ed intima gli ultimi atti di vita e di riflettere sulla sua tragedia personale. Ancor più desolante è ciò che l’autrice fa intuire ai lettori e alle lettrici: le condizioni nelle quali Vera Petrovna muore nel racconto, per quanto grottesche e terrificanti, non sono tanto diverse da quelle sperimentate in prima persona da uomini e donne russi vissuti nella società tardo-sovietica. La realizzazione che una morte così atroce e desolante possa essere un possibile modello universale per molte persone è ciò che sconvolge e fa rabbrividire chi legge questo racconto di Ljudmila Petruševskaja. Chi risponderà è una lettura difficile e a tratti crudele, poiché la realtà che viene narrata è a sua volta difficile e crudele.
Bibliografia:
Francesco Bigo, Il riscatto delle lacrime. Il tema della solitudine e della violenza in opere scelte di Ljudmila Petruševskaja e Svetlana Vasilenko. Un’analisi tematica, Università degli Studi di Trento, 2019, pp. 123-126.
Gabriella Elina Imposti, Metamorfosi del corpo nella cultura (post)sovietica, Between, vol. III, n. 5, maggio 2013.
Lev Tolstoj, La morte di Ivan Il’ič, Milano, Feltrinelli, 2017.
Ljudmila Petruševskaja, Rekviemy, Mosca, Vagrius, 2001. (I passaggi tratti da quest’opera sono stati tradotti per l’occasione da me E.S.).
Apparato iconografico:
Immagine 1: https://www.liveinternet.ru/community/lj_petrushevskaya/page32.shtml