Yuliya Oleksiivna Corrao Murdasova
Vasyl Barka (1908-2003) è una delle personalità della letteratura ucraina meno conosciute, una voce storica potente all’interno del panorama letterario mondiale grazie alla sua opera Žovtyj knjaz’ (“Il principe giallo”) tradotto da Alessandro Achilli per Pentàgora Edizioni. Pseudonimo di Vasyl’ Kostjantynovyč Očeret, Vasyl Barka nasce nella regione di Poltava da una famiglia di umili origini e si interessa in età precoce all’arte e alla filologia che inizia a studiare a Krasnodar nel 1928. Sin dai primi anni dell’adolescenza possiede idee che vengono considerate “sovversive”: quando nel 1930 pubblica la sua prima raccolta di poesie Šljahy (ucr. Шляхи, it. “Percorsi”) viene accusato di “nazionalismo borghese” con il tentativo di ripristinare la religiosità nelle “tracce del capitalismo”. Durante la sua carriera letteraria e accademica pubblica diverse opere su commissione e altrettante per se stesso, ma queste ultime vanno perse durante la Seconda Guerra Mondiale. Si può notare uno spartiacque che ha segnato il suo vivido interessa per la storia ucraina, ovvero l’iscrizione al dottorato in ucrainistica e il successivo passaggio a quello di storia delle letterature medievali dell’Europa occidentale dell’Istituto pedagogico di Mosca a causa delle forti pressioni subite.
Nella storia dei genocidi del Novecento, il Holodomor (il termine ucraino che deriva dall’espressione moryty holodom, it. “uccidere con la fame”) appare ancora sconosciuto e ignorato, probabilmente a causa dell’enorme macchina della segretezza messa in atto durante il regime comunista. Vasyl Barka ha riflettuto e analizzato il tema del Holodomor per circa 25 anni durante i quali appuntava le sue riflessioni, i racconti dei testimoni che incontrò nei campi per rifugiati nel 1943 in Germania, nonché quelle dei familiari. Infatti, la tortura operata attraverso la fame toccò la famiglia del fratello dello scrittore e questo risultò essere un’ulteriore spinta per il romanzo-testimonianza Il principe giallo pubblicato a New York nel 1962. Nel romanzo si snodano le vicende della famiglia Katrannyk attraverso immagini di vita quotidiana dipinte con un realismo impressionante durante la tragedia che prenderà il nome di Holodomor. In ogni difficile circostanza, la famiglia rimane unita anche nella separazione, ma soprattutto fedele alla morale universale e contadina: persino in fin di vita, Myron Danylovyč non rivela dove si trova il prezioso calice liturgico (p. 142) che doveva esser dichiarato e confiscato. La famiglia dei Katrannyk è un esempio di molte altre famiglie di contadini ucraini che non si sono piegati alla collettivizzazione forzata e per questo condannati alla fame dal regime sovietico negli anni 1932-33.
“La vita è diventata migliore, compagni, la vita è più allegra!”
È questo lo slogan beffardo che risuona per le città di tutto il paese, pronunciato dallo stesso Iosif Vissarionovič Džugašvili – Stalin, all’inizio di ciò che sarebbe diventato un genocidio di milioni di persone (i numeri oscillano tra i 4 e i 7 milioni) perpetrato con consapevolezza dai fautori del “culto della personalità”.
Nel 1932 l’Unione Sovietica ha pochi anni di vita, ma già vede il fallimento nella progettazione a lungo termine del kolchoz e sovchoz a causa di una grande carestia che si abbatte proprio sul cosiddetto “granaio dell’Unione Sovietica”, ovvero l’Ucraina. Dopo essersi assicurati il controllo della neonata Repubblica Ucraina attraverso le politiche della korenizacija che comportava diverse concessioni e libertà culturali e identitarie, il regime cambia nel 1928 lanciando offensive alla “rivolta culturale” ucraina intraprendendo un programma di rapida industrializzazione, russificazione e creazione di apparati tecnologici necessari per eleggersi potenza internazionale. La “questione ucraina”, nella quale si trovano le élite intellettuali ucraine e i contadini orgogliosi e contrari alla collettivizzazione, sono da subito percepiti da Stalin come una minaccia alla stabilizzazione e crescita della potenza sovietica. Per tale ragione, la carestia è usata da “quello che sta al Cremlino” (p. 139) come pretesto in forma di sterminio della “questione ucraina”. Infatti, la fame non è emersa come il risultato di disastri naturali, siccità o mancanza di raccolto, ma è una parte delle decisioni politiche del regime comunista finalizzate al fisico sterminio degli ucraini. Al tempo stesso, iniziano le confische ai danni di quella classe dei contadini considerati benestanti e per questo temuti: i kulaki. La cosiddetta dekulakizzazione prevedeva confische di ogni genere (cibo e proprietà) fino alla deportazione in Siberia. Secondo la Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio adottata dall’ONU nel 1948 questa azione politica descritta con il nome di “Holodomor” è classificata come crimine contro l’umanità.
Per attuare questo piano arrivarono da Mosca i collaboratori più fidati di Stalin, Lazar Kaganovič (originario dell’attuale Černobyl’) e Vjačeslav Molotov. Nel 1928 si introduce la cessione obbligatoria del grano, nonché “la tassa statale” di produzione di un quantitativo impensabile di grano che dovrà poi esser confiscato. Si crea il meccanismo delle “lavagne nere”: ogni mese vengono pubblicati sui giornali i nomi di villaggi, aziende, persone che non avevano soddisfatto la produzione del grano imposta dal regime. Essere sulla “lavagna nera” equivaleva andare incontro ad una morte certa. Questo meccanismo bloccò ogni movimento di merci, sia trasporto che commercio, creò frontiere e posti di blocco, eliminò le scorte di cibo per gli ucraini dell’Ucraina e Kuban’, istituì il divieto di spostamento e la presenza di unità militari per il controllo quotidiano della popolazione nei villaggi.
“Le vittime di questo attacco furono decisamente più numerose di quelle causate dalla guerra di Hitler contro gli stati occidentali in tutta la sua durata.” (Vasyl Barka)
Come affermano diversi studi, tra cui quello della giornalista Anne Applebaum, l’assetto organizzativo della carestia fu creato ad hoc per due ragioni: mettere a tacere la resistenza ucraina contro le leggi statali ed estirpare la persistente idea nazionale ucraina. Infatti, il risultato della carestia artificiale e indotta è quello di estinguere qualsiasi forma di dissenso, ergo le menti pensanti e i contadini. Un elemento di notevole importanza che si nota da diversi documenti e dall’opera stessa di Barka è che non tutte le regioni soffrirono la fame allo stesso modo, a conferma dell’artificiosità della carestia come forma legalizzata attraverso la violenza di massa contro gli ucraini perpetrata sia dai governatori che dalle persone di altre regioni che venivano a contatto con i profughi. Persone comuni erano assoggettate, persuase e psicologicamente sottomesse dai governatori tanto da perpetrare la fame, estirpare il necessario, non accogliere i loro simili, come si legge ne Il principe giallo:
“[…] Mio marito ha incontrato quel vecchietto e gli ha detto: “Ehi tu, dammi un po’ qua la tua roba!”. Gli ha preso tutto. Ma non per sé, per il kolchoz. Perché pensava che fosse giusto così e si sforzava di fare del suo meglio. E l’ha lasciato così, nudo in mezzo alla neve. […] Quando qualcuno si metteva a parlare dei morti di fame li interrompevo subito: “Chi è onesto non muore. Solo i kulak e i fannulloni muoiono. Mio marito lavora e sta benissimo.” (p.164)
Nel romanzo si incontrano diversi piani di riflessione. Il piano realistico è dato dalla rappresentazione vivida, dettagliata, cruda della tragedia che investe la famiglia Katrannyk del villaggio di Kletonoči. Nella prosa così diretta e complessa, data anche dallo stile modernista proprio di Barka, trapela sempre la speranza e la fede che, in un primo luogo, sembra esser destinata all’ideologia comunista come parte di una grande famiglia, e successivamente una fede più nobile verso le persone, il proprio villaggio. La famiglia Krannyk appare essere una sorta di metonimia che raccoglie in sé tragedie di più famiglie, diversi villaggi e vaste aree del territorio. È l’emblema della disgrazia della fame e della sopportazione che si dispiega in una tetra casa, in un villaggio che con il tempo diventa fantasma e la ricerca costante di cibo. Aleggia nel romanzo, come nella vita dei personaggi, una morte fittizia e al tempo stesso reale poiché dotata di coscienza e corpo: proprio questa parte si interseca con il piano psicologico e metafisico dell’opera che presenta non solo diversi simboli e caratteri spirituali, ma anche la personificazione della stessa morte sotto il nome dell’innominabile Stalin. La realtà quotidiana sembra essere sotto il potere di una forza mistica. I protagonisti stessi riconducono le disgrazie a un diavolo, un satana (che spesso è “colui che sta a Mosca”, “la colpa è tutta di quel fanatico baffuto”), a una figura dell’oltretomba, un principe giallo. Si possono notare caratteri sia simbolici della cultura popolare e religiosa ucraina, come la presenza di figure delle forze oscure rappresentati dai colori predominanti della quotidianità della fame. Vasyl Barka ne introduce diversi e quello che primeggia è il giallo in diverse tonalità: spiccano il nero dei volti scavati dalla fame, al bianco della neve e del ghiaccio quali simboli della solitudine ed eternità, il giallo zolfo e giallo fiammeggiante, le pareti giallastre, il giallo ed il verdastro degli occhi delle persone morenti e degli avvoltoi, così da passare dal giallo oro del grano che porta la vita al cavallo giallo (verdastro) del cavaliere dell’Apocalisse che simboleggia il sistema totalitario che conduce alla rovina trasformando il pittoresco villaggio ucraino in un grande cimitero. I contadini si aggrappano alle credenze (“soffia per scacciare gli spiriti malvagi”, p.18) e ai sentimenti che li rendono umani come la speranza, rifiuto di rubare il grano e la fiducia nel prossimo, ma notano con il lento passare del tempo che non vi è rimasto alcun sentore di umanità nei membri del Politburo.
La figura sinistra della Morte rappresentata dal Principe Giallo è ispirata al Vij gogoliano: ha posato il suo sguardo infernale sulla parte più fragile e potente della popolazione ucraina, i contadini, scatenando così le forze del male. Tuttavia, il mondo esterno sembra esser allo scuro di questo orrore. La macchina esecutrice del Politburo ha pensato anche a come nascondere, eliminare e, successivamente, negare la morte per fame perpetrata. L’arrivo della morte, per fame e angoscia, doveva avvenire ed essere osservata in silenzio perché “se quelli del partito avessero saputo che stavano seppellendo quell’uomo avrebbero fatto fuori tutta la sua famiglia, per eliminare ogni traccia di quelle fucilazioni” (p.123). Venivano usate qualsiasi forma della mistificazione più crudele per celare agli occhi esterni, persino dello stesso grande Paese sovietico, quello che accadeva nel centro del “granaio dell’Unione Sovietica”. Si fa posto quella che oggi chiamiamo “la banalità del male” dei generali e della polizia davanti alla propria gente: il sogno del generale Otrohodin è quello di portare a termine “il sogno” del partito e dietro di esso vi è una regolarità nel metter in difficoltà gli altri, i suoi complici e i suoi nemici, “fino a farli fuori completamente” (p.68).
Come risultato del Holodomor vi è il trauma culturale di un’intera società ucraina. Nonostante la presenza e il costante ritrovamento di documenti che testimoniamo le atrocità degli anni 1932-33 resta comunque impossibile recuperare tutte le autentiche esperienze vissute. Questo rende ancora più doloroso e, a livello subconscio, attuale e vivo il sentimento di condivisione istituzionalizzata di un periodo storico ancora così sconosciuto. La resistenza di una intera classe sociale è stata distrutta, e la paura del ritorno della carestia – in qualsiasi forma – resta attuale tuttora. Il trauma della fame e di ciò che ha comportato è stato trasmesso dai genitori ai figli per generazioni come forma di consapevolezza e prevenzione di un futuro sempre più instabile. Il passato appare più attuale durante alcuni scenari storici – come la Rivoluzione del Maidan o la Guerra nel Donbass – soprattutto perché ha superato la barriera dell’oblio dopo anni di ricerca, documentazione e tentativi di cancellazione della sua storia. Il principe giallo di Vasyl Barka è il romanzo perno di una storia ancora troppo spesso ignorata che possiede elementi chiave per comprendere una parte di storia del Novecento, come la frattura di mentalità che intercorre tra perpetratori e oppressi.
Bibliografia:
Vasyl Barka, trad. di Alessandro Achilli, Il principe giallo, Savona, Pentagora Edizioni, 2016.
Ettore Cinnella, Ucraina. Il genocidio dimenticato. 1932-1933, Pisa, Della Porta Edizioni, 2015.
Andrea Graziosi, Lettere da Kharkov. La carestia in Ucraina e nel Caucaso del Nord nei rapporti dei diplomatici italiani 1932-1933. Torino, Einaudi, 1991.
Apparato iconografico:
Immagine 1: https://armyinform.com.ua/2021/07/vasyl-barka-mytecz-yakyj-odyn-iz-pershyh-zagovoryv-pro-golodomor-na-ukrayinskyh-zemlyah/
Immagine 2: https://www.iconur.it/oltre-l-isola/59-disumana-e-la-potenza-della-fame-il-holodomor-in-ucraina-nel-1932-33-parte-seconda-e-terza
Immagine 3: https://holodomormuseum.org.ua/tema-pro-holodomor/mati-1933-go/