“Appunti di un giovane medico” di Michail Bulgakov. Un volto pallido nella sconfinata oscurità della campagna russa

Martina Mecco

 

“Ma taceranno a mezzanotte ogni creatura e la carne,
perché la primavera ha sparso la voce
che, solo appena torni bel tempo,
si potrà vincere la morte
con lo sforzo della resurrezione.”
(Boris Pasternak, Poesie di Jurij Živago)

Il tema della malattia, strettamente connesso a quello della morte, permea a fondo la produzione letteraria russa. A voler restringere il raggio d’analisi, non può sfuggire l’elaborazione che, a partire dalla fine del XIX secolo, viene fatta del tema. Si pensi, ad esempio, a due racconti celeberrimi pubblicati a soli dieci anni di distanza, Krotkaja (“La mite”, 1876) di Fëdor Dostoevskij e Smert’ Ivana Il’iča di Lev Tolstoj (“La morte di Ivan Il’ič”, 1886). Il racconto di Tolstoj, in particolare, rappresenta uno dei casi letterari più interessanti dal punto della vista della condensazione narrativa. Egli riesce, difatti, a comprimere in un numero ristretto di pagine le ultime ore di malattia del protagonista, impregnando la descrizione di riflessioni esistenziali molto simili a quelle che verranno poi sviluppate in opere successive e di più ampio respiro come Voskresen’e (“Resurrezione”, 1899). Già in Vojna i mir (“Guerra e pace”, 1865-69) Tolstoj costruisce un tipo di discorso intorno alla questione della medicina, evidenziando il suo profondo scetticismo nei confronti dei medici e degli effettivi benefici delle loro pratiche, giungendo addirittura al disprezzo. Lo stesso caso della morte di Tolstoj, avvenuta ad Astapovo, è stato mitizzato all’interno del panorama letterario, come nel caso delle parole di Boris Pasternak che rammenta il corpo inerme del grande autore russo come segue: “in un angolo non giaceva una montagna, ma un vecchietto raggrinzito, uno di quei vecchi creati da Tolstoj, da lui descritti e fatti conoscere a decine nelle sue pagine.” Un altro caso celebre è quello di Anton Čechov, la cui produzione letteraria è profondamente influenzata dagli anni dediti alla sua professione di medico. Oltre a Ostrov Sachalin (“L’isola di Sachalin”, 1895), attento reportage della sua esperienza di medico sull’isola, a essere luogo di sviluppo del tema sono molti dei suoi racconti. Due esempi, a tal proposito, sono racconti brevi come Chirurgija (“Chirurgia”, 1884) o Tif (“Il tifo”, 1887). Necessario è anche citare il racconto lungo Palata n. 6 (“La corsia n. 6”, 1892), dove il medico Andrej Efimyč, un idealista oppresso dall’impossibilità di realizzare le sue stesse utopie, si fa portavoce di una delle domande su cui si regge tutto il racconto, definito “raccapricciante” dallo stesso Lenin: “E poi, a che pro impedire alla gente di morire, se la morte è la fine normale e legittima di ognuno?” (p. 541). Una questione, quella sollevata da Čechov, che si insinua nel pensiero di molti scrittori del Novecento, basti pensare a quante volte questa venga rimarcata da Witold Gombrowicz in Kurs filozofii w sześć godzin i kwadrans (“Corso di filosofia in sei ore e un quarto”, 1969). All’interno della “Sesta lezione” la riflessione ontologica dell’autore si scontra con l’impossibilità dell’uomo di emanciparsi dalla sua condizione appunto mortale cui è condannato, vedendosi impotente nel tentativo non solo di percepirla, ma anche di spiegarla.

Sull’eco di questi autori, tra i quali occorre annoverare anche Nikolaj Gogol’, si sviluppa la produzione di Michail Afanas’evič Bulgakov (1891-1940). Tra i maggiori rappresentanti della scena teatrale e della prosa russa tra le due guerre, sebbene la sua opera sia caratterizzata da una ricezione inizialmente tradita dai tragici esiti della Rivoluzione e dai dettami dello stalinismo, Bulgakov raggiunge la popolarità di cui oggi gode solo successivamente, ovvero in riferimento a quello che viene riconosciuto in termini di suo “capolavoro”, Master i Margarita (“Il Maestro e Margherita”). L’ampio tema della malattia, connesso a quello della morte, si sviluppa in diverse opere della prima fase della sua produzione. Tema che, nel caso specifico di Bulgakov, si inserisce in un interesse rivolto in generale al contesto scientifico, declinato, seppur con esiti radicalmente diversi, in alcune opere redatte negli anni ’20 come povest’ celebri quali Rokovye jajca (“Uova fatali”, 1924) o Sobač’e serdce (“Cuore di cane”, 1925). Questo interesse rivolto all’ambito scientifico e, nello specifico, a quello della medicina trova la sua motivazione nella biografia stessa dell’autore, che in parte condivide con quella del già citato Čechov. Difatti, prima della decisione di dedicarsi pienamente alla scrittura e al teatro, Bulgakov si laurea in medicina nel 1916 all’Università di Kiev e inizia la carriera di medico nell’oblast’ di Smolensk, inizialmente a Nikol’skoe e, successivamente, a Vjaz’ma. Durante gli anni della guerra civile, tematica che viene indagata a fondo nell’opera di Bulgakov, viene spedito al fronte dove è impiegato in qualità di medico e giornalista. L’attività di medico si conclude ufficialmente nel 1920, circa un anno prima del trasferimento a Mosca, città in cui inizia a intensificarsi la sua attività in ambito letterario e teatrale.

Nel caso di Bulgakov esiste una profonda intersezione tra la sua produzione letteraria e la dimensione dell’esperienza, questo lo si osserva in riferimento a due aspetti già menzionati, ovvero l’aver vissuto in maniera diretta i drammi della guerra civile e l’aver esperito l’attività di medico. Queste due componenti corrispondono a due dei principali elementi attorno cui è costruita la vicenda narrata in Belaja Gvardija (“La guardia bianca”). Pubblicata nel 1924 sulla rivista “Rossija”, l’opera ebbe particolare successo tra il pubblico e Bulgakov ne trasse una pièce dal titolo Dni Turbinych (“I giorni dei Turbin”, 1926), inscenata da Stanislavskij nell’ottobre del 1926 al MAT (Moskovskij chudožestvennyj akademičeskij teatr) e definita da Stalin una vera e propria “dimostrazione della forza travolgente del bolscevismo”. L’opera si presenta come una delle principali rielaborazioni letterarie degli anni della guerra civile, dove gli eventi che caratterizzano la Kiev degli anni 1918-1919 vengono osservati con un’attenzione particolare da parte di Bulgakov, il quale mostra già molta di quella componente ironica che verrà soprattutto sviluppata successivamente nel teatro. A catturare l’attenzione del lettore avvezzo alla biografia dell’autore in Belaja Gvardija è la raffigurazione di uno dei personaggi principali, ovvero Aleksej Turbin, ufficiale bianco e medico che nel corso della vicenda si ammala di tifo – la stessa malattia che colpì Bulgakov durante gli anni di servizio al fronte.

L’opera in cui maggiormente è possibile ravvisare una rielaborazione, sebbene non venga direttamente dichiarato, dell’esperienza di Bulgakov nelle vesti di medico è Zapiski junogo vrača (“Appunti di un giovane medico”), una raccolta di racconti scritti tra il 1916 e il 1919, ovvero negli anni trascorsi a Nikol’skoe e Vjaz’ma prima di essere spedito nel Caucaso. Come nel caso di altre opere, anche in quello delle Zapiski è complesso ricostruire le vicende che hanno portato alla versione completa di cui oggi si dispone.  I singoli racconti vengono, infatti, pubblicati per la prima volta su rivista tra il 1925 e il 1926, per la precisione su “Medicinskij rabotnik” e su “Krasnaja panorama”. Nel 1963 ne viene pubblicata una versione parziale e in parte modificata per la “Biblioteca di Ogonëk”, mentre la prima pubblicazione completa in volume risale solo al 1982. Il titolo scelto da Bulgakov non è del tutto casuale, difatti riecheggia un riferimento a Zapiski vrača (“Appunti di un medico”, 1901) di Vikentij Veresaev, un’opera di carattere autobiografico in cui trova anche posto una critica nei confronti del sistema medico russo di inizio secolo. La vita di Veresaev è in un certo senso assimilabile a quella di Bulgakov. Anch’egli originariamente medico, nonostante le sue inclinazioni letterarie, viene spedito al fronte durante la guerra russo-giapponese, esperienza traumatica da cui emerge l’opera Na japonskoj vojne (“Nella guerra giapponese”, 1906-1908), in riferimento alla quale Gor’kij riconobbe in Veresaev un “testimone sobrio e onesto” della guerra.

Zapiski junogo vrača si presenta come un’occasione per Bulgakov di rielaborare, a distanza di poco tempo, un’esperienza tutt’altro che semplice: lo spazio letterario diviene luogo di riflessione per eccellenza, come lo sarà anche nel caso delle opere successive. A rendere atipica la raccolta, soprattutto in riferimento alla produzione più tarda, è l’attenzione che viene posta sulla questione della medicina. I racconti che appartengono a Zapiski junogo vrača, inoltre, presentano diverse caratteristiche ricorrenti. Prendendo ad esempio quello che apre la raccolta Polotence s petuchom (“L’asciugamano col galletto”), è possibile rintracciare alcune di queste. Innanzitutto, la descrizione del protagonista che riveste, al tempo stesso, il ruolo di voce narrante, di osservatore che esperisce in prima persona gli eventi. A tratteggiare il giovane ricorrono spesso aggettivi che rimandano a uno stato di ansia e di confusione, come “annebbiato”, “nevrastenico” o spesso “accigliato”, cui si aggiungono diverse descrizioni e rimandi a stati di angoscia e desolazione. Questa condizione psichica non viene, però, resa nei racconti attraverso una disamina delle sensazioni del protagonista ma si riversa nelle precise descrizioni che vengono realizzate del paesaggio. Si legga come questo viene descritto all’inizio del secondo racconto, Kreščenie povorotom (“Il battesimo del rivolgimento”):

Per giornate e notti intere cadeva la pioggia, e le gocce battevano incessantemente sul tetto, e l’acqua scrosciava sotto la finestra, cadendo dalla grondaia della tinozza. Fuori c’era fango, nebbia, un’oscurità nera, in cui rilucevano come macchie torbide e sfumate le finestre della casetta dell’infermiere e la lanterna a petrolio sul portone.

Accanto a descrizioni come quella appena citata, compaiono anche passaggi che contengono quell’ironia profondamente bulgakoviana, come quello in cui compare un riferimento a Tolstoj:

A un tratto ricordati certi racconti e chissà perché provai rancore per Lev Tolstoj. ‘Se la passava bene lui, a Jasnaja Poljana’ pensavo ‘lui certo non lo portavano di qua e di là dai moribondi….’” 

L’umore oscuro del protagonista, come viene definito in V’juga (“La tormenta”), trova una sua corrispondenza simbolica nel paesaggio, soprattutto in elementi come il buio e la nebbia. La descrizione della campagna russa realizzata da Bulgakov ha poco a che fare con quelle che si ritrovano nelle opere russe del XVIII e del XIX secolo, manca completamente quella fede nella bontà naturale presente in Nikolaj Karamzin e il paesaggio rurale non si identifica con quell’idea di vasto rifugio tratteggiato da Tentetnikov nelle Mërtvye duši (“Le anime morte”, 1842) gogoliane. Spogliato di elementi russoviani e di tratti che caratterizzato il gusto cosmico goethiano, il paesaggio tratteggiato in Zapiski junogo vrača è, piuttosto, la sede in cui si riversa il malessere e l’angoscia del protagonista, volto pallido nella sconfinata oscurità dei campi. Tuttavia, è possibile rintracciare nella campagna bulgakoviana la presenza di un principio che ricorre anche nelle elaborazioni russe dell’archetipo russoviano, come nell’opera Putešestvie iz Peterburga v Moskvu (“Viaggio da Pietroburgo a Mosca”, 1790) di Aleksandr Radiščev, ovvero la contrapposizione tra la dimensione della città e quella della campagna. Questa contrapposizione ribalta la concezione di Radiščev ed è finalizzata a evidenziare la difficoltà di abituarsi a una nuova condizione di vita, nonché a un nuovo ambiente in cui la solitudine è imperante. L’immagine della città, nello specifico di Mosca, impressa nel ricordo del protagonista, viene delineata in T’ma egipetskaja (“Le tenebre d’Egitto”):

Siamo tagliati fuori dal mondo. […] Là è dolce la vita. C’è il cinema, ci sono i negozi. Mentre ulula e fiocca la neve nei campi, sullo schermo, forse, fluttua un giunco, ondeggiano le palme, occhieggia un’isola tropicale. Noi invece siamo soli.” 

Il riferimento a un’oscurità egiziaca intensifica il baratro in cui viene collocato il centro abitato di Nikol’skoe, oscurità in cui sembra mancare ogni possibilità di acquietare la forte sensazione di oppressione che attanaglia il giovane medico. Questa dimensione tenebrosa della campagna russa richiamano le tenebre della steppa nel Čevengur di Andrej Platonov, in cui ricorre continuamente l’elemento della nebbia accompagnato da accezioni sempre differenti – essa è torbida, agitata, ma anche azzurra e persino azzurrina. Apparentemente non esiste consolazione, se non quella data da un episodio specifico contenuto in Stal’noe gorlo (“Gola d’acciaio”). Nell’ambulatorio giungono una giovane donna con una bambina di tre anni avvolta nel cappotto. Posando lo sguardo su Lidka egli afferma di aver dimenticato tanto la chirurgia quanto la solitudine e prosegue la rievocazione dell’episodio tratteggiandone i lineamenti angelici. Questa parvenza di consolazione viene, però, immediatamente interrotta dalla diagnosi che rivela il fatto che la giovane è affetta da crup difterico, vale a dire una condizione che le impedisce di respirare. La voce narrante, quella del giovane medico, torna su toni tetri descrivendo l’intervento d’urgenza che viene effettuato nel tentativo di salvarla. Difatti, il gusto e l’attenzione di Bulgakov per i passaggi descrittivi non riguarda solo la dimensione del paesaggio, bensì anche gli episodi che si svolgono nell’ospedale. Il giovane medico affronta, come già osservato, una nuova vita nel reparto, luogo in cui la teoria appresa durante gli anni di studio si realizza nell’attività pratica. Questa concretizzazione non è vissuta dal protagonista in modo traumatico, in quanto la dimensione del trauma risiede nel passaggio al contesto della campagna, dimensione di profonda solitudine. Bulgakov dedica molti passaggi al racconto delle operazioni e delle visite, ritagliando anche spazio alla descrizione dei singoli pazienti. L’aspetto che maggiormente colpisce è lo stile impiegato da Bulgakov, il quale predilige una rappresentazione cruda e diretta, evidenziando la presenza del sangue e delineando in modo minuzioso le azioni svolte durante gli interventi. Un esempio che chiarisce questo gusto bulgakoviano per un macabro che richiama ancora una volta l’universo platonoviano di Čevengur si trova nel primo racconto:

La gamba sinistra, in sostanza, non c’era. Dal ginocchio spappolato partivano brandelli insanguinati, muscoli rossi maciullati, e ovunque sporgevano appuntite le bianche ossa schiacciate. L’arto destro era fratturato alla gamba, così che entrambe e ossa spuntavano all’esterno, perforando la pelle. Perciò il suo piede giaceva inerte, quasi avulso, girato di fianco.” 

Nelle Zapiski manca, però, una vera e propria riflessione esistenziale o gnoseologica intorno alla questione della morte. Nonostante i toni tetri e le descrizioni pregne di elementi particolarmente crudi, ad essere esaltata da Bulgakov è la dimensione della vita. Parrebbe esserci, nelle memorie del giovane medico, una sorta di ottimismo nei confronti della pratica medica stessa, nonostante le condizioni psichiche in cui questa viene esperita. La morte appare, ma viene in un certo senso accettata nel suo accadimento in quanto parte della dimensione vitale stessa. Bulgakov mostra, già a partire da questo ciclo di racconti, molti degli aspetti che lo caratterizzeranno successivamente, innovatore ed erede della grande tradizione del racconto russo.

 

Bibliografia:

Aleksandr Radiščev, Viaggio da Pietroburgo a Mosca, Roma, Voland, 2006.

Andrej Platonov, Čevengur, Torino, Einaudi, 2015.

Anton Čechov, Racconti, Segrate, BUR, 2017.

Boris Pasternak, Doktor Živago, Milano, Feltrinelli, 2017.

Maria Luisa Dodero Costa, La campagna nella letteratura russa tra 1700 e 1800, in “Europa Orientalis” VII, 1988, pp. 37-49.

Michail Bulgakov, Appunti di un giovane medico, Segrate, BUR, 2002.

Michail Bulgakov, La guardia bianca, Milano, Feltrinelli, 2010.

Michail Bulgakov, I giorni dei Turbin, Torino, Einaudi, 1997.

Nikolaj Gogol’, Le anime morte, Torino, Einaudi, 2019.

Vikentij Veresaev, Na japonskoj vojne, Sankt Peterburg, Komanda A, 2014.

Witold Gombrowicz, Corso di filosofia in sei ore e un quarto, Milano, Bompiani, 2012.

Sitografia:

www.bulgakov.ru

Apparato iconografico:

Immagine di copertina e Immagine 3:

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Immagine 1:

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Immagine 2:

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