Opporsi ad un destino già scritto: “La Shoah in me. Memorie di un combattente del ghetto di Varsavia” di Simcha Rotem

Evy Bovo Vania

Pubblicato da Sandro Teti Editore nel 2014, La Shoah in me. Memorie di un combattente del ghetto di Varsavia contiene la preziosa testimonianza di Simcha Rotem, combattente ebreo polacco che militò nelle file della Żob, l’Organizzazione ebraica di combattimento. Il libro appartiene alla collana “Historos”, diretta da Luciano Canfora.

Link al libro: https://www.sandrotetieditore.it/project/la-shoah-in-me-memorie-di-un-combattente-del-ghetto-di-varsavia/


“[…] decidemmo di ribellarci nonostante non ci fossero le condizioni di base per iniziare una rivolta. Non possedevamo né armi, né combattenti addestrati militarmente, né […] una base dalla quale poter preparare ed organizzare un’insurrezione. Il pensiero di combattere nel ghetto era totalmente irrealistico e contrario a tutto ciò che il ghetto rappresenta. Inoltre dovevamo ancora superare l’acceso dibattito riguardante il diritto morale di assumerci la responsabilità per la sorte dei circa 67.000 abitanti ancora in vita. Sapevamo di non avere alcuna possibilità contro l’esercito tedesco. Sapevamo che nessuno sarebbe rimasto vivo. Era solo una questione di come saremmo morti. […]” (Simcha Rotem, 1997 Wallenberg Lecture)

Sono gli anni Ottanta quando Simcha Rotem – nome di battaglia “Kazik” – decide di portare a termine la sua testimonianza come militante nella resistenza ebraica. La prima stesura del testo gli venne commissionata nel lontano 1944 dal comandante della Żob, Yitzhak Zuckerman, che sin dal principio si dimostrò consapevole della “responsabilità di salvare dall’oblio e di raccontare la storia degli ebrei polacchi durante “i giorni della distruzione e della rivolta”” (p.15). All’epoca Kazik non aveva che diciannove anni: era entrato nei ranghi della Żob alla fine del 1942, una volta ritornato in città dopo un’estate passata a lavorare in campagna come contadino. Furono i genitori stessi a spingerlo a recarsi fuori Varsavia, sperando che potesse, lontano dagli orrori del ghetto, trovare un po’ di fortuna. Il periodo di tranquillità non durò a lungo: Simcha si sentiva “a disagio, perseguitato dall’idea che la gente nel ghetto stesse soffrendo per la fame e le malattie”, mentre lui se ne stava “disteso tra l’erba verde e il cielo blu” (p.35). L’allontanamento da Varsavia gli permise tuttavia di sfuggire alla Grande aktsia (deportazione) che ebbe luogo nell’estate di quell’anno, quando più di 300.000 ebrei furono deportati dai nazisti a Treblinka.

L’aspetto di Simcha ben mascherava le sue radici ebree, e questo dettaglio, assieme alla perfetta parlata polacca, gli permise in più occasioni di ottenere contatti e aiuti senza destare particolare sospetto. Infatti, come racconta lo stesso protagonista, “la Żob era doppiamente clandestina” (p.46), poiché si nascondeva sia dai tedeschi, che dagli stessi ebrei. Nel 1942 c’erano ancora molti ebrei che “si cullavano nelle illusioni, […] convinti che bisognasse ostacolare il movimento della Resistenza e i suoi alleati” (p.44). Quando si resero conto che i combattenti non erano “nemici del popolo” era ormai troppo tardi.

Tra le numerose vicende narrate da Rotem, centrale è sicuramente l’organizzazione e la messa in atto del salvataggio di alcuni combattenti attraverso la rete fognaria della città. Erano passati una decina di giorni dallo scoppio della celebre rivolta e il ghetto già non esisteva più: l’esercito tedesco lo aveva completamente raso al suolo con cannonate e bombardamenti aerei. Questa decisione venne presa dai tedeschi dopo che per tre giorni i combattenti della resistenza erano riusciti a tener loro testa. I nazisti capirono infatti che nulla potevano i militanti, equipaggiati solamente di armi di fortuna, contro la potenza bellica nemica e così, per evitare ulteriori perdite, presero la decisione di distruggere il ghetto dall’esterno. Sotto alle macerie decine di combattenti erano ancora vivi e portarli fuori dal ghetto era necessario per continuare a lottare contro i nemici. E così l’8 maggio, alle dieci di sera, Kazik comandò un’operazione finalizzata al recupero dei compagni: assieme a un altro militante e due lavoratori delle fogne scese nei canali di scolo e, dalla parte ariana, si diresse verso il ghetto. La missione portò al salvataggio di una trentina di combattenti che vennero immediatamente nascosti nella vicina foresta di Lomianki.

Il racconto dell’autore si snoda tra le vie della Varsavia degli anni ’40, la cui complessa topografia può essere ricostruita sulla base dei numerosi e sempre diversi nascondigli e appartamenti clandestini. Il fitto apparato di note non solo consente al lettore una più ampia visione del contesto storico in cui si svolgono gli eventi narrati, ma include anche informazioni sui molti uomini e donne che si incontrano tra le pagine del testo e i cui contributi alla storia di quegli anni vale la pena ricordare.

“Non ho mai parlato di queste cose con loro usando un linguaggio forbito. Racconto mentre parlo normalmente, nel linguaggio di ogni giorno, quello che uso in casa, al lavoro e con i miei amici. Preferisco rimanere Kazik anche mentre scrivo.” (p.16)

In questo senso, la testimonianza di Rotem non ha tanto intento letterario, quanto più documentaristico: l’autore racconta, in maniera cruda e diretta, gli eventi di cui fu protagonista.

Una delle scene più strazianti descritte nel testo viene raccontata dallo stesso autore nel corso di una conferenza:

“L’Olocausto mi ha lasciato dei ricordi terribili. Il più doloroso di questi mi tormenta ancora oggi, e credo lo farà per sempre. Una notte ero di pattuglia nel ghetto oramai completamente distrutto, quando mi sono imbattuto in una catasta di cadaveri. Si sentiva un pianto: una donna morta teneva tra le sue braccia il figlio ancora in vita. Mi sono fermato per un momento, poi me ne sono andato. I tedeschi sono riusciti non solo ad annientare gli ebrei, ma sono riusciti anche a derubarmi della mia umanità.”

Pur avendo salvato ed assistito numerosi combattenti e civili, il ricordo di Rotem tornava spesso a coloro che non riuscì invece a portare in salvo: il neonato piangente, il resto dei compagni che perse la vita nelle fogne, gli uomini e le donne trovati in mezzo alle rovine del ghetto bombardato. Se è vero che l’ardua sentenza spetta ai posteri, ciò che può essere detto di quest’uomo è che fece tutto ciò che era in suo potere. Come scrisse l’autore a proposito di un Adamczyk, un poliziotto polacco che aiutò i combattenti fino all’Insurrezione di Varsavia e poi scomparve, “era un essere umano e non si trattava di una condizione facile in quei giorni” (p.94).

Nel 1947 Rotem emigrò con la famiglia nell’attuale Israele. Di quel periodo racconta: “In Terra d’Israele, in quasi tutti gli incontri, veniva fuori la domanda: «Come sei riuscito a sopravvivere?». Mi veniva chiesto continuamente e non sempre nella maniera più delicata. Mi sentivo in colpa per essere sopravvissuto ed è per questo motivo che, anche dopo aver imparato l’ebraico, non l’ho mai parlato molto. Evitavo di svelare il mio passato, preferivo non parlare di me stesso e di dove avevo passato gli anni della guerra.” (p.181)

Ciononostante, con il passare degli anni Rotem si impegnò in misura sempre maggiore alla difesa della memoria dei fatti di Varsavia.

Membro della Commissione incaricata di conferire il titolo ai “Giusti tra le Nazioni”, nel 2013 a Rotem venne conferito l’ordine della Polonia Restituita, una delle più alte onorificenze polacche, per le sue azioni nel corso della Seconda guerra mondiale.

Il 22 dicembre 2018 si spense a Gerusalemme: era l’ultimo combattente sopravvissuto alla Rivolta del ghetto di Varsavia. Quando morì, Aliza Vitis-Shomron, l’ultima testimone vivente del ghetto, dichiarò: “È un giorno difficile perché significa davvero che è finita. Sono l’unica rimasta e non c’è nessun altro a mantenere viva la storia. Lui era l’ultimo combattente. Io continuerò a parlarne fino al mio ultimo giorno, ma nessuno vive per sempre. Dopo di me, chi continuerà a raccontare?”.

Assieme a tutti coloro che vissero in prima persona i terribili eventi di quegli anni (Marek Edelman e Irena Sendler tra gli altri), il contributo combattente di Simcha Rotem assume dunque un valore ancora maggiore: si tratta di una testimonianza imperitura che ricorda gli orrori perpetrati dai nazisti in nome di un’ideologia, affermando il coraggio di coloro che ebbero la forza di opporvisi.

 

 

Apparato iconografico:

Immagine di copertina:

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Immagine 1:

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Immagine 4:

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Sitografia:

https://www.youtube.com/watch?v=SF6wMaWzGm4 (09/08/2021)

https://www.jta.org/2018/12/23/israel/simcha-rotem-last-known-surviving-warsaw-ghetto-uprising-fighter-dies-at-94 (09/08/2021)

https://www.washingtonpost.com/local/obituaries/simcha-rotem-jewish-resistance-fighter-and-holocaust-survivor-dies-at-94/2018/12/24/b775c070-0791-11e9-a3f0-71c95106d96a_story.html (09/08/2021)