Intervista con Bruno Osimo, come da manuale del traduttore – 1 parte

Intervista a cura di Marianna Kovacs

Bruno Osimo è semiotico, da settembre 2020 è consulente scientifico della Scuola Superiore per mediatori linguistici di Padova.  È docente alla scuola Civica Altiero Spinelli di Milano con i corsi di traduzione editoriale e saggistica da russo e inglese verso l’italiano, è traduttore professionale, ha tradotto Čechov, Tolstoj, Dostoevskij, Bulgakov, Propp e molti altri, ha pubblicato numerosi testi e articoli di Teoria delle traduzioni, con particolare attenzione alle teorie di Jurij Lotman e Anton Popovič, è suo il Manuale del traduttore del 1998 edito da Hoepli.

Tra le ultime traduzioni troviamo anche il volume Anna Achmatova. Tutte le poesie (1904-1966). Versione metrica. Ne ha curato direttamente la pubblicazione, così come per altri interessanti suoi precedenti lavori.


MK: Innanzitutto benvenuto a Padova, anche se solo virtualmente. La prima domanda è legata a questa città dove da settembre ha iniziato l’esperienza di consulente scientifico della scuola superiore per mediatori linguistici. Come si trova Padova?

BO: Conosco bene la città, ci ho vissuto quattro anni, ho fatto le scuole medie e la prima liceo a Padova, che è anche l’unica città dove ho vissuto oltre a Milano.

 

MK: Ci può parlare della Scuola Superiore per mediatori linguistici di Padova? Qual è la differenza di questo percorso di studi rispetto alla tradizionale facoltà di lingue dell’università?

BO: Mi sono laureato all’università in un secondo tempo e in prima battuta mi ero diplomato in una scuola simile a quella dove adesso lavoro a Padova e a Milano. Direi che c’è una certa differenza. Ho notato che all’università si fa molta più letteratura che nella nostra scuola dove diamo maggior spazio alla mediazione linguistica, quindi alla traduzione scritta e orale fin dal primo anno. Le ore di lingua sono numerose, ma sono ancora più numerose le lezioni dedicate alla traduzione. Cerchiamo di preparare persone, in quanto mediatori linguistici, che possono entrare in un’azienda ed inserirsi in mansioni che richiedono la conoscenza delle lingue. Poi naturalmente resta aperta la possibilità di accedere a una laurea specialistica anche per i nostri diplomati, sia all’università che alle scuole di mediazione linguistica che hanno un biennio di specializzazione.

 

MK: La nostra rivista è interessata al mondo dell’Europa Orientale e abbiamo la curiosità di conoscere il suo percorso con le lingue. Lei ha iniziato a studiare il russo negli anni Settanta. Come si è avvicinato a questa lingua e come è nato questo amore, se di amore si tratta?

BO: È stato un amore, sicuramente. Lo è in parte ancora, anche se è molto cambiato nel corso di questi 45 anni. Nel 1975 ero un ragazzo di 16 anni, mio padre lavorava in un’azienda dove offrivano, come succedeva in molte aziende, una combinazione turistica otto giorni Mosca-Leningrado, all’epoca si chiamava così. Ho un fratello molto più grande di me che viveva già per conto suo e in quell’occasione la famiglia si è riunita per fare questo viaggio. Io all’epoca ero un contestatore, un militante, dicevo di essere comunista, non sapendo bene quello che stavo dicendo, ma per onestà devo dire che mi ritenevo comunista. Quando ho saputo che questo viaggio si sarebbe svolto alcuni mesi più tardi, ho preso in mano una vecchia grammatica russa, credo di Nina Potapova, era un’edizione molto vecchia, forse del 1956, pubblicata da Editori Riuniti, e ho cominciato a studiare, e quindi immaginandomi certi suoni come per esempio il suono y perché nel libro veniva indicato come una via di mezzo tra la i e la u. Quando siamo partiti il primo di maggio io sapevo parlare grosso modo come parlano gli indiani nei film western, con gli infiniti e con i nominativi delle parole, e sapevo dire pochissime cose, però queste pochissime cose sono servite molto in quegli otto giorni. Mi ricordo che un’amica dei miei genitori un giorno doveva spedire un pacco e mi ha detto di accompagnarla e io in qualche modo veramente primordiale le ho fatto da interprete all’ufficio postale. Quando poi sono tornato da questo viaggio, entusiasmante perché io comunque avevo un filtro ideologico e quindi vedevo soltanto quello che volevo vedere, mi sono subito iscritto a un corso di russo organizzato dall’associazione per i rapporti culturali con l’Unione Sovietica a Milano che è durato due anni, tenuto da una bravissima docente, Maria Giulia Carrara, che mi ha accompagnato durante la quarta e la quinta liceo scientifico. Quindi c’era un certo paradosso perché a scuola non si studiava, parlo naturalmente della mia scuola, si contestava il latino, si contestavano quasi tutte le materie, a volte ci si rifiutava di andare in classe, si facevano manifestazioni, quasi tutti i giorni eravamo in corteo per andare a protestare contro qualcosa. Poi però io marginalmente nel pomeriggio andavo a studiare il russo. Questa spinta ideologica nel corso degli anni è diventata molto diversa da quella che era allora, ma mi ha permesso di non essere del tutto ignorante in quegli anni di contestazione. Vi assicuro che voi non riuscite a rendervi conto di com’erano quegli anni perché voi adesso, anche quando siete dei contestatori, lo siete in modo molto più intellettuale. Noi invece eravamo proprio dei contestatori, distruttivi. Tendevamo a non studiare nulla, quindi il russo è stata la mia unica salvezza dal punto di vista dello studio.

 

MK: Lei fa anche il traduttore dal russo oltre che il professore e l’autore di testi specialistici sulla traduzione. Una volta il lavoro del traduttore era un lavoro solitario, in un ufficio con vocabolario cartaceo bilingue. Oggi tutto questo è cambiato, siamo continuamente on-line, ci confrontiamo magari anche fra colleghi. Com’è il suo approccio, con chi si confronta?

BO: La premessa è molto precisa. All’inizio si lavorava proprio con i dizionari bilingui e nel mio caso anche con la macchina da scrivere: ne avevo due, una italiana è una Olivetti con i caratteri cirillici. Allora era molto faticoso, bisognava inserire nel rullo della macchina da scrivere un foglio e poi la carta copiativa e la carta velina dietro. Ogni volta che si faceva un errore bisognava correggerlo con il bianchetto che però era già un lusso, altrimenti con la gomma e con la penna su tutte le copie. Si cercava di fare meno correzioni possibili. Quindi il modo di tradurre è cambiato radicalmente. Da quando ci sono i computer non è cambiato banalmente solo perché si fa meno fatica, ma proprio perché si fanno molte più correzioni, ci si sente molto più liberi di correggere tanto, quindi il lavoro mentale precedente la prima stesura è più spensierato perché dopo si sa che si può correggere tutte le volte che si vuole. La fase di revisione adesso è diventata molto più importante. Per esempio, nella traduzione delle poesie di Achmatova ho lavorato circa due mesi alla stesura e poi altri due mesi alla revisione. Se avessi avuto la carta copiativa e la macchina da scrivere probabilmente avrei fatto una revisione molto più blanda.

 

MK: Tra i traduttologi si discute molto se la traduzione debba essere source oriented oppure target oriented. Con qualche provocazione c’è chi parla addirittura di traduzione self oriented. Lei cosa ne pensa? Va privilegiata la fedeltà al testo originario, al significato, oppure occorre intervenire ricodificando i messaggi per trasferire il senso del prototesto? Deve prevalere l’autore del testo di partenza oppure il lettore finale della traduzione?

BO: Dipende dal singolo testo, e dal singolo autore soprattutto. Se sto traducendo Cechov, che è un autore che io amo alla follia e di cui sto traducendo parecchi racconti, uno a uno li pubblico in “samizdat”, deve prevalere assolutamente l’autore. Quindi faccio delle traduzioni molto filologiche e piene di note del traduttore. Tutte le volte che c’è una parola che indica un elemento di realia, tanto per fare un esempio, per il terrazzino d’ingresso non è ancora presente крыльцо (kryl’co) nel dizionario italiano, a differenza di trojka, balalaika, ecc., io faccio una nota, scrivo esattamente cos’è, ma non scrivo terrazza, ingresso, o qualcosa di generico, preferisco che il lettore sia auspicabilmente attirato da questi dettagli esotici e, se vuole, legge la nota, e se non vuole va avanti lo stesso, però ha questa possibilità. Quando parlo con i miei studenti dico sempre che dobbiamo fare un continuum degli autori che vanno dal testo sacro fino al testo più sciatto, scritto male. Per testo sacro intendo anche il testo sacro vero e proprio, quindi anche la Bibbia, il Vangelo, qualsiasi testo sia sacro per una certa religione, che secondo me è blasfemo tradurlo, però se qualcuno ti chiede di tradurlo tu lo devi fare. Quello va fatto nel modo più filologico possibile, per arrivare poi ad un testo sacro come lo intendevo prima quando parlavo di Čechov, quando parlo di Achmatova, quando parlo di grandi autori o autrici che hanno un valore in quanto tali, giù giù fino ai testi più squallidi, che magari spesso sono dei testi contemporanei perché i testi squallidi non sopravvivono al tempo. Ho tradotto una decina di anni fa un romanzo, ovviamente non vi dico l’autore ed il titolo perché mi sembrerebbe poco carino, ma era un romanzo di un autore ucraino che scrive in russo e secondo me era proprio un brutto romanzo, però lo stavo facendo a pagamento per un editore e quando l’ho consegnato mi ha detto ‘la tua traduzione è brutta’ e io ho risposto ‘si, certo, è brutta perché è uguale all’originale’. ‘No, ma noi l’abbiamo letto e ci è sembrato bello’. E allora ho domandato ‘ma scusate, in che lingua l’avete letto?’ ‘Ah si, l’abbiamo letto in tedesco’. ‘Forse l’editore tedesco aveva fatto un grande lavoro di editing e voi mi avete consegnato l’originale russo e io l’ho tradotto per come era in russo’, insomma, non voglio entrare troppo nei dettagli. Quello era un libro che non andava tradotto, ma se per caso bisognava proprio tradurlo, lo si doveva fare in modo non filologico. Però in quel caso l’editore te lo deve dire.

Tornando alla tua domanda, bisogna vedere qual è la dominante. Jakobson ha questo bellissimo concetto di dominante del testo, bisogna parlare anche di dominante della traduzione. Se una persona oggi legge Achmatova in italiano, secondo me, l’unico motivo per cui lo fa è perché vuole conoscere come scriveva Achmatova in russo e non gliene importa nulla del traduttore, e quindi è giusto dare una traduzione filologica con note. Nella mia traduzione di Achmatova ci sono tante note. Se invece uno legge un best seller russo che esce oggi e dopodomani sarà dimenticato, un page turner come dicono gli americani, che va bene per la spiaggia, che deve entrare da un orecchio e uscire dall’altro, allora tutto va bene. A quel punto il traduttore può mettersi completamente in mezzo, filtrare, rifare i giochi di parole, ricreare le barzellette che non fanno ridere se tradotte ma crearne di nuove in italiano, è lecita qualsiasi cosa perché la dominante non è più l’aspetto filologico ma è semplicemente l’intrattenimento nel senso più brutto del termine.

 

MK: Umberto Eco afferma che tradurre corrisponde a “dire quasi la stessa cosa” e che preliminarmente vanno negoziati i criteri di flessibilità. Viene sostenuto da altri che il tipo di traduzione dipende dallo skopos e che quindi, a seconda del destinatario, si dovrà avere un’impostazione diversa. Crede che sia eccessiva la discrezionalità che viene concessa al traduttore?

BO: Popovič diceva che c’è proprio una poetica della traduzione. Quando noi parliamo di una cultura emittente e di una cultura ricevente dobbiamo anche pensare che c’è una cultura traducente in mezzo. Il traduttore non può essere trasparente. Basta leggere Vygotskij sul linguaggio interno per capire che il testo non viene semplicemente ricevuto, ma entra nel cervello del traduttore e viene completamente rielaborato, perché viene compreso, poi viene tradotto nel linguaggio interno che non è un linguaggio verbale e infine viene riverbalizzato nella lingua della cultura ricevente. Non soltanto la ragione del traduttore entra in gioco, ma anche il suo inconscio e quindi è impossibile pensare che ci siano soltanto due culture in gioco.

Per quanto riguarda la libertà del traduttore, credo che ci siano dei discorsi paralleli che vanno affrontati. Uno di questi è il discorso del potere perché comunque viviamo in una società dove il potere conta molto. Pensate ad Aldo Busi che ha fatto tante traduzioni, per esempio Alice nel paese delle meraviglie: se voi leggete il racconto tradotto da Aldo Busi leggete più Busi che Carroll, questo non è né bello né brutto. Chi va in libreria dovrebbe saperlo e il libraio che fa bene il suo lavoro dovrebbe consigliare i propri clienti a comprarlo soltanto se piace Aldo Busi. Se invece il cliente vuole leggere un’edizione filologica di Lewis Carroll dovrebbe acquistare un’altra edizione. Nel caso di Aldo Busi non si tratta di un potere politico, è un potere culturale che lui si è conquistato sul campo scrivendo dei romanzi, traducendo delle cose, diventando famoso. Poi negli anni ‘90 ha fatto un’intera collana per la Frassinelli che si chiamava I Classici Classici nella quale voleva che sulla copertina dei libri ci fosse il nome del traduttore. Quindi se andate a vedere questi libri, che non sono più in commercio, troverete per esempio Saltykov Ščedrin, I signori Golovlëv, traduzione di Bruno Osimo, che all’epoca era una cosa rivoluzionaria. I libri di questa collana poi sono tutti dotati di una postfazione fatta dal traduttore. Anche questa è un’altra cosa molto bella che lui ha fatto proprio per la categoria dei traduttori, per aiutarli a uscire dall’ombra. Bisogna lavorare molto sul fronte culturale generale.

 

MK: Quindi si dovrebbero intraprendere iniziative simili per sottolineare l’importanza del traduttore nella fruizione di un testo in un’altra lingua. Altrimenti questa figura resterà eternamente marginale?

BO: È un lavoro molto di lungo termine, che va fatto, bisogna dare coscienza ai lettori, quindi alla società, della differenza che c’è tra leggere l’originale e leggere la traduzione.

Bisognerebbe mettere in guardia il cittadino sul fatto che potrebbe anche leggere una traduzione fatta male. Poi dovrebbero sensibilizzare soprattutto i critici letterari che scrivono le recensioni sui giornali. Quando esce una nuova traduzione di un’opera famosa, per esempio di Anna Karenina, non dovrebbero parlare di quant’è bello il romanzo perché abbiamo altre fonti a cui rivolgerci. Dovrebbero dirci in che cosa questa versione si differenzia dalle precedenti. La casa editrice stessa, nella sua campagna pubblicitaria, dovrebbe dire che questa edizione rispetto alle precedenti è diversa e dirci in che cosa è diversa. Citando un altro esempio, The Catcher in the Rye, Il giovane Holden è stato tradotto recentemente di nuovo da Matteo Colombo: non sappiamo però fino a che punto lui ha avuto la possibilità di spiegare la differenza del suo approccio. L’unica informazione utile in questo caso è in che modo l’approccio di Matteo Colombo alla traduzione o l’approccio di Claudia Zonghetti nella traduzione di Anna Karenina sono stati diversi rispetto a quelli precedenti. Tutto il resto non ci interessa quando esce una nuova traduzione e il focus dell’informazione dovrebbe essere questo. In tal modo anche i non addetti ai lavori potrebbero farsi un’idea circa l’importanza della traduzione. Invece spesso i critici sono i primi recensori a ignorare che cosa è cambiato rispetto all’edizione precedente. Non si può pretendere che il lettore, che magari fa un altro lavoro, indovini in cosa questa traduzione sia diversa.

 

MK: Alla nostra università a Padova si insegna la maggior parte delle lingue dell’Europa Orientale. Capita che per queste lingue, che alcuni chiamano minori, troviamo traduzioni non dirette, ma attraverso una lingua ponte. È successo per esempio con il romanzo Essere senza destino del premio Nobel Imre Kertész che in italiano è stato tradotto dal tedesco e non dall’ungherese. Succede comunque anche con lingue come il coreano o il giapponese che la traduzione passi attraverso l’inglese. Cosa ne pensa?

BO: Penso che sia una grave perdita e credo che spesso sia una questione di pigrizia da parte dell’editore. Figuriamoci se oggi non si trova un traduttore dall’ungherese. Mi ricordo che quando ero studente universitario di russo una mia compagna di corso ha preso dalla libreria dell’istituto di russo un libro, mi pare fosse Guerra e pace e mi ha riferito che probabilmente la traduttrice è un mio parente perché si chiama Osimo. Avevo fatto delle indagini e avevo scoperto che era una mia lontana parente che non conosceva il russo e aveva tradotto Guerra e pace dal francese. Questa era l’edizione Mursia che era presente all’Istituto di russo dell’Università di Milano e quindi tutti gli studenti del primo anno che non sapevano il russo avrebbero letto la traduzione dal francese della mia lontana parente. Queste sono cose abbastanza gravi. Purtroppo anche in questi casi manca la sensibilità.

 

MK: Andando agli aspetti tecnici, è attuale il problema dei realia. Sappiamo che in molte lingue sono entrate parole russe come per esempio samovar, kulak, mužik, barin, eccetera.

BO: Parole come mužik non si possono tradurre, secondo me. Se noi abbiamo barin e mužik all’interno di un racconto di Čechov, per esempio, e noi traduciamo tutti e due come uomo o signore, non si capisce che c’era una società nella quale non esisteva persona di sesso maschile neutra. C’era soltanto il mužik, che erroneamente viene tradotto contadino, ma poteva non essere un contadino. Sappiamo che mužik viene da muž e che era fondamentalmente un maschio non intellettuale. E poi c’era il barin che era il signore. Sono due parole che io lascio sempre, naturalmente anche al femminile baba e barynja. Queste parole danno l’idea di una società che non ha classe media. Ci sono soltanto padroni e schiavi, anche dopo il 1861 continuano ad esserci. Čechov scrive dopo il 1861 e usa ancora queste parole. Le troviamo anche sul dizionario italiano e perciò non è necessario nemmeno fare una nota alla traduzione. Io sono dell’idea che, se una parola russa è presente nel vocabolario italiano, la nota è superflua. Tradurre queste parole significa proprio spezzare le gambe all’interpretazione.

 

MK: Ritornando al ruolo del traduttore notiamo sempre più spesso che in alcuni ambiti prende spazio la traduzione automatica o basata su database di memoria. Cosa ne pensa?

BO: Intanto c’è da dire che Google Translate, che è quella che io conosco meglio di queste piattaforme, fa delle traduzioni sempre migliori, certe volte ha delle traduzioni sorprendentemente buone e, vedendo come i giornalisti italiani traducono certe cose, devo dire che a volte rimpiango Google Translate e penso che se l’avessero usato avrebbero fatto un lavoro migliore. Non bisogna demonizzare, non la chiamerei traduzione automatica ma traduzione basata su memoria. Sia Google che Reverso e altri sistemi usano le memorie di traduzione basate sul concetto semiotico di contesto. La traduzione automatica degli anni Sessanta non funzionava perché era basata sull’inserimento nel computer di singole parole. C’era ancora il concetto di equivalenza. Si pensava che fosse sufficiente caricare gli equivalenti (cane, dog, sobaka) e poi si cercava di far tradurre il computer, ma mancava il contesto. Invece adesso vengono inserite delle frasi intere o dei romanzi interi, dei libri interi, e quindi il contesto c’è. Il computer è capace di fare molto bene i calcoli: quando una parola è abbinata ad un’altra parola spesso viene tradotta in un determinato modo. I risultati sono abbastanza buoni. Con i nostri studenti facciamo questo già dall’esame di ammissione, li abituiamo al fatto che esiste la possibilità di usare Google Translate, Reverso, eccetera. L’importante è che sappiano che il risultato non è un testo, ma è qualcosa che va revisionato e trasformato in un testo. Chiediamo loro di non fidarsi del risultato di queste operazioni e di usarlo a proprio rischio e pericolo. È un po’ quello che succede anche con i dizionari bilingui.

Quindi quelli che combattono dentro e fuori le università contro questo tipo di traduzione sono semplicemente un po’ come Don Chisciotte contro i mulini a vento. Non c’è modo di sconfiggere il progresso tecnologico, quello che noi possiamo fare è cercare di usarlo a nostro vantaggio. Quindi io invito tutti i traduttori e gli studenti di traduzione a usare questi strumenti quando sono utili, tenendo presente che dopo ci vuole un post editing, quindi ci vuole una cospicua dose di lavoro. Certe volte il post editing è ancora più lungo del lavoro di traduzione e allora, in quel caso, non vale la pena nemmeno di farlo, tanto vale tradurre da zero. La memoria di traduzione certe volte fa delle connessioni sbagliate. Ci può essere l’autore che mette vicine due parole per la prima volta nella storia dell’umanità e allora il traduttore deve fare la stessa cosa perché la memoria di traduzione e Google non lo capiscono e non lo sanno fare.

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