Claudia Deretti
Ancor prima che scrittrice, Slavenka Drakulić è una giornalista di origini croate. Costretta all’inizio degli anni Novanta ad abbandonare la terra natìa per trasferirsi in Svezia come rifugiata politica, non cessò tuttavia il suo attivismo pubblicando sia romanzi che vere e proprie raccolte di aneddoti, interviste e storie fin dai primi anni di lontananza dalla patria. È chiaro il fulcro dell’interesse della scrittrice, riassunto in una dichiarazione espressa durante un’intervista nel marzo del 2000:
“[…] E io sono una donna. Così ho deciso che queste erano le storie che volevo raccontare. Le storie di guerra parlano di distruzione e battaglie e del numero dei morti e di eroismo, raramente riguardano una donna o donne in generale.”
Drakulić è da sempre una delle voci più impegnate a far luce sulle ombre gettate dalle guerre jugoslave, vissute del resto in prima persona, e in particolare ha saputo incanalare ed esprimere le voci di migliaia di donne derubate della propria identità, della propria umanità. Se la guerra ha lasciato tracce ancora visibili sui muri delle case bosniache, quello che è riuscita a generare attraverso l’espropriazione dei corpi delle donne ridotti alla stregua di carne da macello tinge di mostruoso una storia già sanguinante. Nel 1993 il Consiglio di sicurezza dell’ONU istituisce ad hoc il Tribunale dell’Aja, incaricato di svolgere processi per i crimini di guerra commessi anche durante le guerre jugoslave. In tale sede il conflitto bosniaco rivela in tutta la sua crudezza le pratiche disumane applicate nei campi di prigionia e le migliaia di uomini, donne e bambini uccisi sulla base della loro presunta appartenenza etnica. Le testimonianze delle violenze passano attraverso le labbra di molte donne, che una dopo l’altra raccontarono episodi agghiaccianti alla presenza di imputati recalcitranti ad ammettersi colpevoli. Nella stessa intervista la scrittrice racconta della genesi di Kao da me nema (1999), titolo originale della versione tradotta in inglese come S.: a novel about the Balkans:
“Nel 1992 volevo scrivere un libro di documenti, testimonianze raccolte dalle vittime di stupro, con una mia introduzione. Questa era l’idea di partenza. Ma più leggevo e ascoltavo testimonianze, meno ero convinta che avrebbero funzionato per il lettore di un libro del genere. Il modo in cui le storie venivano raccontate – si assomigliavano, erano ripetitive e piuttosto… povere, in qualche modo limitate. Così l’effetto che davano non era quello di identificazione, ma di noia.”
Come emerge anche dal romanzo, lo stupro rappresenta uno stigma paralizzante nella cultura patriarcale bosgnacca, e la posizione meno illuminata, quella della donna che lo subisce, ne è la parte essenziale. Molte donne furono costrette a portare a termine le gravidanze imposte, venendo liberate tramite scambi di prigionieri solo una volta scaduto il termine ultimo per praticare l’aborto. Alcune di loro partorirono e uccisero i neonati: “è meglio così” è la spiegazione che viene fornita il più delle volte. Si deve soffocare, nascondere il disonore più grande per una donna e per la sua famiglia. È l’unico gesto rimasto alle donne per rivendicare il proprio valore, l’appartenenza prima di tutto a se stesse. Un tumore, un parassita, è così che S. ̶ protagonista del romanzo ̶ chiama l’essere che cresce dentro di lei. Il disgusto racchiuso in queste parole grida alla profanazione senza pietà: il corpo delle donne è calpestato e bruciato, come bandiera nemica da ridurre a brandelli in segno di potere. Il loro grido è ancora più agghiacciante perché muto, contemporaneamente armato di una coscienza propria. Lungo tutto il romanzo, il tema della scelta e della responsabilità si srotola e si frammenta in più direzioni. Tocca non solo le donne del campo ma anche le figure che gravitano attorno alla stanza delle donne, un locale in un edificio a parte adibito a dormitorio dove i soldati tengono il loro harem privato. N. è la moglie del guardiano del campo. È lei ad occuparsi dei bisogni essenziali delle ragazze, a portare loro la zuppa calda, qualche vestito. Non può definirsi la figura perno dell’intero romanzo, eppure dalla sua presenza scaturisce una delle riflessioni più potenti ̶ tra le tante ̶ che il romanzo contiene.
“Doveva aver avuto la possibilità di scegliere, perché ogni essere umano ha una scelta. Ma cosa posso saperne io o chiunque altro delle possibilità di scelta di qualcuno, pensa S. Può solo attestare che nello scegliere tra l’essere gentile e l’essere crudele con le donne nella stanza, N. ha scelto di essere gentile, di prendersi cura di loro, di portare loro pane e sapone, di consolarle. Proprio in questo consiste la sua scelta. Forse non è abbastanza forte per fare nient’altro, qualcosa di meglio o di più conscio.” (p. 92)
Tutti, in modo differente, sono volenti o nolenti parte dell’ingranaggio. Lo sono i soldati, il Comandante, e anche N. che fa da figura di congiunzione tra due realtà fratturate e divise. Sembra che con la sua presenza la donna introduca un’altra verità devastante: l’assuefazione al male. S. riflette sul discrimine tra lei e il resto di quel mondo giocato da una mano violenta contro il potere di identificazione di una persona:
“Una volta che sospetti di essere tu stessa capace di fare la stessa cosa, è già troppo tardi. Perché hai già impercettibilmente mosso il primo passo dall’altra parte, la loro parte.” (p. 92)
C’è qualcosa di profondamente ammirevole e al contempo avvilente nella pragmaticità di Drakulić la quale, consapevole che il pubblico avrebbe dovuto attendere svariati anni prima di poter leggere un racconto completo di una testimone diretta, cede all’unica opzione rimasta: quella di fabbricare la parte mancante del racconto attraverso la creazione di un personaggio romanzesco personificato da S., che rimane tuttavia l’unico personaggio fittizio del romanzo. Ogni altra testimonianza riportata nel libro è successa realmente; designando ogni personaggio con la sola iniziale del nome, l’autrice riporta voci e storie di sopravvivenza al limite del credibile. Le parole che non sanno essere pronunciate senza lasciare scoperto uno strato ancora infetto sono realtà solo per queste ultime, e in questo forse consiste la maledizione peggiore di queste donne: rimanere “queste donne”. In loro la battaglia non ha ancora avuto termine e ne divide le vite tra il passato e il presente. Nel romanzo poco dopo che le è stato annunciato l’imminente trasferimento in un campo per rifugiati in Svezia, S. compra in una libreria un piccolo dizionario di svedese. È tentata di fare una lista non delle parole utili da imparare ma di quelle da evitare, da tagliare fuori dal futuro.
Ancora oggi, più di vent’anni dopo la fine della guerra, le autorità politiche riescono a sfruttare le tensioni tra famiglie e i postumi della pulizia etnica perpetrata. Non è raro in Bosnia ricordare tra i propri cari un lutto subito in quegli anni e ritrovarsi come vicino di casa un ex-nazionalista serbo o i suoi figli e nipoti. I tentativi di riconciliazione attraversano impennate e picchi sintomo di una mancanza, secondo la giornalista croata, di un vero impegno dai vertici politici in tal senso, che hanno il compito tutt’oggi di dare l’impulso per mettere pace tra i cittadini di una nazione ormai dissolta ma che inspiegabilmente si conserva nei suoi echi più cupi.
Bibliografia :
Slavenka Drakulić, S.: A Novel About The Balkans, New York, Penguin, 2000.
Sitografia:
https://archive.nytimes.com/www.nytimes.com/books/00/04/02/reviews/000402.002coopet.html
https://www.salon.com/2000/03/09/drakulic_2/ (la traduzione dei brani tratti dall’intervista è stata realizzata per l’occasione da me C.D.)
https://www.youtube.com/watch?v=zYwANv94kck
https://www.youtube.com/watch?v=6PXMfvWLTcs
Apparato iconografico:
Foto 1. https://images.app.goo.gl/njnM9oYZHmMV8C6T9