Martina Cimino
Herta Müller, vincitrice del premio Nobel del 2009 per aver rappresentato “con la concentrazione della poesia e la franchezza della prosa il mondo dei diseredati”, occupa nel panorama letterario contemporaneo una posizione peculiare, in gran parte dovuta alla sua esperienza biografica.
L’autrice, infatti, pur essendo nata nel 1953 nel distretto di Timiç a Nitzkydorf, un villaggio del Banato svevo – regione dell’attuale Romania occidentale al confine con l’Ungheria e la Serbia – fa parte di quella minoranza tedesca, ancora presente nel territorio della Transilvania, che aveva iniziato la migrazione tra il X e il XII secolo in seguito alla lenta conquista del territorio da parte degli ungheresi. Con l’unione della Transilvania alla Romania nel 1919, tale minoranza si trovò a far parte di uno stato multietnico e, in seguito al diffondersi dell’ideologia nazista negli anni Trenta, ad attirarsi l’odio della popolazione locale con conseguente internamento nei lager sovietici. Vittima di tale violenza fu anche la madre dell’autrice, su cui ricadde il peso dell’appartenenza alle SS del marito e, successivamente, della persecuzione operata, a causa della posizione avversa al regime della figlia, da parte della Securitate durante il regime di Ceaușescu. La sensazione di non appartenenza alla cultura dominante e, nello specifico a nessuna delle due culture con cui convisse, dovuta all’isolamento della regione e al dialetto tedesco parlato, fu dunque una costante nella vita dell’autrice che, nel saggio In ogni lingua dimorano altri occhi, contenuto nel volume Der König verneigt sich und tötet (“Il re s’inchina e uccide”, 2003), definisce la propria esperienza con la cultura e la lingua romena sorprendente e al contempo difficile, in quanto tarda.
“[…] passando da una lingua all’altra accadono trasformazioni. La prospettiva della madrelingua di fronte a ciò che è visto è diversa rispetto a quella della lingua straniera. […] La lingua madre da questo momento in poi non è più l’unica stazione degli oggetti, la parola della lingua madre non è più l’unica misura delle cose.” (p. 33)
La lingua romena rappresenta per lei la scoperta di una nuova sensibilità estetica, offertale dalla sua dimensione altamente evocativa, in cui il rapporto tra significato e significante è molto più diretto, perché richiama anche degli attributi non ricavabili nel tedesco. In modo esemplare, il saggio precedentemente nominato, evidenzia la differente percezione del mondo che si offre a un parlante che ha piena conoscenza di due lingue perché la possibilità di una percezione multipla del mondo è sia fonte di irrequietezza e confusione sia di un’espressività estremamente intensificata. Dunque, le differenze non interessano solo l’aspetto terminologico e semantico, ma anche l’uso sociale della lingua e, nel caso del romeno, la dimensione politica che le è intrinseca a causa dell’uso propagandistico che ne viene fatto da parte dello stato. Perciò, il rapporto che si delinea con il romeno è quello della costrizione, delle minacce e degli interrogatori a cui è stata sottoposta da parte degli agenti della Securitate, ampiamente descritti nel volume Der fremde Blick oder Das Leben ist ein Furz in der Laterne (“Lo sguardo estraneo”, 1999) e rievocati anche nei romanzi, tra i quali Herztier (“Il paese delle prugne verdi”, 1994). Pertanto, di fronte a un regime che travisa la verità e la maschera, l’autrice tenta nella propria opera un ritorno al nominare, al ripristinare l’ovvietà di quelle cose familiari divenute estranee e la riconquista di una realtà frantumata, percepibile attraverso una presente sensazione di paura e colpevolezza – originata in primis dall’arruolarsi del padre nelle SS, che con la sua morte diventa materia dei racconti inseriti negli anni Ottanta in Niederungen (“Bassure”, 1982), in Drückender Tango (“Tango soffocante”,1984) e in Barfüßiger Februar (“Febbraio scalzo”, 1987) –. È entro tale cornice che si innesta la finzione letteraria. Finzione che, pur rielaborando dei ricordi personali, non è pienamente iscrivibile all’interno del genere memoriale in quanto, mettendo in relazioni i vari livelli della realtà, mira a creare una commistione tra scrittura e ricordo. Un ricordo fallace, fluttuante e mutevole che può non corrispondere esattamente a quanto vissuto e che, venendo riproposto nelle opere mülleriane secondo una relazione di tipo associativo, permette l’inserimento di quell’elemento romanzesco volto a sottolineare la distanza che intercorre tra l’autrice e i suoi personaggi.
Nel portare avanti questo tentativo, la lingua a cui si affida è l’alto tedesco della Germania che, imparato in tenera età attraverso i libri, viene percepito come l’unica vera lingua nella quale è lecito pensare:
“[…] i libri nella casa estiva venivano contrabbandati in paese. Erano scritti nella madrelingua in cui il vento si coricava. Non la lingua ufficiale del paese. Ma nemmeno una lingua infantile proveniente dai paesi. Nei libri si trovava la madrelingua, ma il silenzio del paese che vieta il pensiero nei libri non c’era. Credevamo che là, da dove provenivano i libri, tutti pensassero. Annusavamo i fogli e ci scoprivamo con l’abitudine di annusare le nostre mani. Ci meravigliavamo che, leggendo, le mani non diventassero nere come l’inchiostro da stampa dei giornali e dei libri pubblicati nel paese.” (p. 47)
Perciò, concentrandosi sulla necessità di una comunicazione che sia autentica e libera, l’autrice riflette sulla propria condizione di esule e come essa sia innegabilmente legata all’espressione. Pertanto, la scelta di non scrivere in romeno, se non in poche eccezioni, ha il valore di una testimonianza di fedeltà nei confronti della propria lingua madre che rappresenta lo strumento a cui generalmente ci si affida. A questa condizione di esclusione corrisponde un desiderio di inclusione che assume le forme del riscatto sociale – per esempio dai crimini commessi dal regime hitleriano –, al cui interno l’uso del tedesco diventa il presupposto per il raggiungimento di un centro che dovrebbe essere in grado di garantire la possibilità di raggiungere una completezza identitaria, percepita in tutta la sua manchevolezza. L’identità, dunque, viene vissuta come divisa tra due mondi, appesantita dal fardello di una paura che, tragicamente esposta allo sguardo altrui, finisce per condizionare la sua vita anche dopo l’emigrazione in Germania nel 1987, attraverso le vicende editoriali.
Allo stesso modo, anche le protagoniste dei suoi romanzi sono incastrate tra due tempi e, convivendo con un sentimento d’angoscia quotidiana, lottano per ricomporre la propria identità. Un esempio chiarificatore è la vicenda del romanzo Reisende auf einem Bein (“In viaggio su una gamba sola”) che, pubblicato nel 1989 alla vigilia del crollo del muro di Berlino, ripropone l’esilio volontario dell’autrice. In esso la protagonista, Irene, abbandona “il paese del dittatore”, dipinto con i connotati della Romania di Ceaușescu, per andare “nell’altro paese”, presumibilmente la Berlino Ovest degli anni Ottanta, dopo aver conosciuto un uomo tedesco che vive a Marburg, Franz, e aver riscoperto il legame con la propria lingua madre. Il rapporto tra i due si svolge quasi unicamente attraverso le cartoline che Irene gli scrive, dapprima nel proprio paese d’origine e poi una volta arrivata in Germania, dove si trova a vivere un’esistenza sospesa in attesa della concessione della cittadinanza. L’ arrivo nel nuovo paese si rivela in realtà essere una fuga da un passato impossibile da sradicare, sia nelle abitudini quotidiane quanto nelle possibilità espressive. Perciò, il confronto con la cultura d’origine è la prima risorsa a cui la protagonista ricorre davanti a ogni nuova esperienza. Confronto che crea un senso di vertigine e instabilità espresso già nel titolo. Infatti, le esperienze che vive, amori, brevi viaggi e una quotidianità squallida, sono sempre condizionate dal peso di quel passato che la ancora al ricordo e la relega al ruolo di osservatrice. Osservare è, dunque, l’unico modo che la protagonista ha di perseverare nel tentativo di partecipare alla vita nel nuovo paese. Un tentativo incerto che assume la concretezza degli oggetti che tocca e della casa in cui vive, assegnatale dall’ufficio immigrazione, e nei quali si consuma il vero fulcro della sua estraneità e della sua impossibilità di agire: il silenzio. Una dimensione che agli altri personaggi risulta insopportabile ma che per Irene corrisponde a un isolamento a tratti volontario, tanto insistito nella narrazione da far dubitare il lettore della sopravvivenza della protagonista.
Non casuale è anche la scelta del nome della donna che, richiamandosi a una delle Città invisibili di Italo Calvino, permette di avvicinarsi al modo di sperimentare dell’autrice con la tecnica del collage; tecnica che, descritta nel romanzo quando Irene crea delle cartoline per esprimere gli effetti del trauma, le permette di assemblare un nuovo prodotto a partire da fonti diverse. Dunque, la frammentarietà di queste opere le rende, analogamente, manifestazioni del dissidio interiore dell’autrice e forse l’espressione più tangibile di quel vissuto traumatico che, come Irene può venir catturato da sguardi diversi.
“A poter vedere una città da dentro, sarebbe una città diversa. Irene è il nome per una città vista da lontano e quando ci si avvicina, la città diventa un’altra. Una cosa è una città per colui che passa senza entrare, un’altra cosa per colui che da lei viene catturato e non esce; una cosa è la città nella quale si arriva per la prima volta, altra è quella che si abbandona per non tornare mai più; ognuno merita un nome diverso; forse ho già parlato di Irene sotto nomi diversi; forse ho parlato soltanto di Irene.” (pp. 95-96)
Bibliografia:
Herta Müller, In viaggio su una gamba sola, Marsilio, Venezia, 1992.
Herta Müller, Il re s’inchina e uccide, Keller editore, Rovereto, 2001.
Herta Müller, Il paese delle prugne verdi, Keller editore, Rovereto, 2008.
Herta Müller, Lo sguardo estraneo, Sellerio editore, Palermo, 2009.
Herta Müller, In trappola, Sellerio editore, Palermo, 2010.
Herta Müller, Bassure, Feltrinelli, Milano, 2013.
Jelena Reinhardt, Dalla periferia al centro: la figura del taglio in Elias Canetti e Herta Müller, in “Già troppe volte esuli. Letteratura di frontiera e di esilio”, Università degli Studi di Perugia, Perugia, 2014, vol. II, pp. 255-264.
Pavlo Shopin, Multisensory perception and tactile metaphors for voice in the work of Herta Müller, in “Journal of Literary Semantics”, De Gruyter, Berlino, 2019, n. 48, pp. 129-143.
Ruxandra Diaconu, Herta Müller – Between Two Worlds, in “Revista de Ştiinţe Politice. Revue des Sciences Politiques”, Editura universitaria Craiova, Craiova, 2012, n. 35, pp. 104-111.
Simona Mitroiu, Life Narratives of the Past: Herta Müller on Communist Romania, in “The European Legacy”, Routledge, London, 2019, n. 24:2, pp. 202-219.
Apparato iconografico:
https://www.nobelprize.org/prizes/literature/2009/muller/facts/