Federica Florio
Tra le scrittrici sovietiche più popolari e amate, sarebbe impossibile non citare Viktoria Tokareva. Nata a Pietroburgo nel 1937, Tokareva fu testimone degli anni d’oro e del declino dell’Unione Sovietica. Iniziò la sua carriera nel mondo del cinema, tentando la strada della recitazione; dopo un esordio sfortunato, tuttavia, passò alla scenografia e alla scrittura. Tra gli anni ‘60 e ’70 sceneggiò quattordici film, tre dei quali – Džentl’meny udači (“I signori della fortuna” 1971), Mimino (1977) e Šla sobaka po rojalju (“Camminava un cane sul pianoforte”, 1978) – ottennero notevole successo internazionale. Nonostante la fama nel settore cinematografico, l’autrice non è particolarmente conosciuta in Italia: l’opera più nota al pubblico italiano è L’ombrello giapponese (1991). Tokareva è sempre rimasta fedele al racconto breve, genere che si rivela essere una spia rilevante dei mutamenti sociali. Il confronto con Čechov è inevitabile; non solo le citazioni dell’autore sono spesso presenti negli scritti di Tokareva, ma vi è una certa similarità anche nella scelta dei temi trattati, nonché nell’uso dell’umorismo e della satira. Entrambi mostrano le miserie della vita umana, i fallimenti, le speranze amorose e le soluzioni umane dei protagonisti, spesso impacciate e inadatte ad ostacolare il corso degli eventi.
L’attenzione dell’autrice è quasi interamente dedicata alla psicologia dei personaggi, spesso di sesso femminile. Le protagoniste dei suoi racconti sono solitamente istruite e indipendenti, con carriere di successo. Il racconto breve Mara (1994) non fa eccezione.
Pubblicato in Russia nel 2001, Mara vide la luce in Italia nel 1994 grazie alla casa editrice La Tartaruga. Il titolo dell’opera sembra suggerire che la protagonista sia solo una: Mara, appunto. Fin dalle prime pagine, tuttavia, il lettore fa la conoscenza di una seconda persona, Larisa, la voce narrante che fa da cornice alle vicissitudini della protagonista. L’opera, che altro non è che una biografia di Mara, è dunque frutto della visione di una donna che osserva – e giudica! – un’altra donna.
Mara, come la stessa Tokareva, racchiude dentro di sé tutte le peculiarità della realtà socialista; nata sotto Stalin e adolescente durante il governo di Chruščëv, diventa una donna matura e indipendente all’epoca di Brežnev. Lasciata in balia di se stessa fin da bambina, la protagonista inizia a scoprire come imporre la propria volontà alle persone che la circondano. A partire dai primi anni della sua vita, Mara cresce sviluppando una certa indipendenza, che le insegnerà a dosare le proprie forze e ad affrontare le prime ingiustizie da sola. Assaggia per la prima volta il potere, trovandolo incredibilmente dolce, insostituibile; è così inebriante e delizioso da surclassare qualsiasi altro tipo di dolcezza. A risentirne sono l’amicizia e l’amore, entrambi stravolti dalla visione alterata della donna.
Mara si trasforma in una persona spregiudicata, cinica. Conscia del potere che esercita sugli altri, sia uomini che donne, diventa sfacciata e senza scrupoli. La voce narrante, Larisa, nel tentativo di descriverla, la paragona ai semini di girasole: “C’era in lei un potere magnetico […]. Come capita con i semini di girasole: fanno schifo, ma non puoi smettere di mangiarli.” (pp. 13-14)
L’amicizia che si sviluppa tra le due è torbida e frastagliata. Non si tratta di un rapporto sereno, né di fiducia; al contrario, la coesione avviene per contrasto. Il carattere forte e piccante di Mara è complementare a quello più insipido di Larisa: l’uno evidenzia l’altro, consentendo alle due di avvicinarsi. A lungo andare, tuttavia, Larisa si rende conto di non essere attratta da Mara, bensì dalla promessa dell’amicizia e dall’esigenza di un qualcosa di “super” – come lei stessa lo definisce – che possa aiutarla a superare la normalità in cui si sente imprigionata. Larisa comprende fin da subito che Mara è velenosa, capace di provocare infelicità negli altri attraverso la sfacciata messa in mostra della propria gratificazione personale. Il modo in cui descrive il rapporto morboso che ha con la protagonista è, nella sua lucidità, disarmante:
“Quando Mara non c’è, vivo bene. Per dirla telegraficamente, tutto a posto: salute, lavoro e felicità nella vita privata. Appena compare lei, eccomi schiava: mi circuisce, divento dipendente, con i paraocchi. La mia felicità consiste in una sola cosa: non sapere come vivo male. Poi lei scompare e tutto va di nuovo bene. Si va avanti.” (p. 43)
L’amicizia, per Mara, è artificiale, priva di quella naturalezza che dovrebbe rendere un legame duraturo. Lo stesso vale anche per l’amore, uno dei desideri più intensi della protagonista. Pur trovando diversi compagni, le relazioni con il sesso opposto non hanno mai un lieto fine: il primo matrimonio si regge su una danza di litigi e riappacificazioni, il secondo è privo di qualsiasi sentimento. È innegabile che Viktoria Tokareva tenda, in quasi tutte le sue opere, a ritrarre forti figure femminili, in netto contrasto con quelle maschili; gli uomini sono spesso mostrati come insicuri e deboli. Infatti, riguardo al terzo compagno – che i lettori conoscono con il soprannome di Micetto – la voce narrante commenta: “[Mara] Lo portava sempre con sé, come una conferma del suo potere di donna. Era un trofeo, un segno vivente di vittoria.” (p. 35)
Mara sembra usare gli uomini per scopi personali, approfittando della loro presenza per chiudere con la vecchia vita e voltare pagina. La storia d’amore con Micetto finisce con una sconfitta per la protagonista, che viene cacciata di casa. Ritrovandosi con l’orgoglio brutalmente ferito, Mara decide di cambiare tattica. Non desidera più sostenere gli uomini, né crearli o modellarli per il proprio piacere, in modo tutt’altro che disinteressato; al contrario, vuole essere lei ad appoggiarsi a loro. L’amore diventa un concetto privo di significato, inesistente, che la spinge a cercare un nuovo compagno, con l’unico fine di raggiungere una posizione sociale solida e il successo professionale.
La protagonista, grazie all’influenza dell’ultimo amante, un facoltoso settantenne, inizia a lavorare in un ente prestigioso presso l’Accademia di Scienze Pedagogiche. Comincia a scrivere una tesi di ricerca e a scalare la piramide gerarchica dell’istituto, diventando prima capo reparto e successivamente capo dell’istituto stesso. Così facendo, scopre un potere ancor più grande e totale, dato dal pieno controllo sulle persone e sui loro lavori. Quello della protagonista è un successo incredibile, ma temporaneo, che si erge esclusivamente sulle spalle dell’amante. Nel momento in cui quest’ultimo va in pensione, Mara si sente crollare il mondo addosso; non solo il successo professionale viene surclassato dall’arrivo di una nuova brillante collega, ma vi è anche la terribile scoperta del cancro.
La malattia è devastante sia dal punto di vista fisico che mentale. Mara è costretta ad accomiatarsi dalla propria bellezza, che non è altro che la principale ragione del suo successo professionale e personale. La scomparsa dei seni – asportati immediatamente nel tentativo inutile di fermare il tumore – e dei capelli determina la fine del suo ruolo di femme fatale. Tokareva approfitta della malattia della protagonista per dedicarsi a una brevissima quanto pungente analisi della condizione della donna in Unione Sovietica: “Dei conoscenti le portarono la protesi del seno dalla Francia, dove, al contrario che da noi, hanno il culto della donna e si occupano di lei e dei suoi bisogni in ogni evenienza.” (p. 61)
È questa, tuttavia, una critica troppo veloce, che non viene approfondita: il ritmo febbrile del racconto non permette un’osservazione più strutturata. Nel giro di poche pagine, il decorso della malattia trascina Mara verso la morte. Si tratta di un addio veloce, senza fronzoli né rimpianti, in perfetta armonia con la protagonista:
“Mara non lasciò una tomba dietro di sé. Sospettava che nessuno sarebbe andato a visitarla e decise di avere l’ultima parola: sono io che a non volere che veniate, ho deciso così io, non voi.” (p. 69)
La donna non lascia nulla dietro di sé; di lei rimane solo il nome sull’agenda di Larisa. Un finale drammatico che, ricongiungendosi con l’inizio del racconto, crea una simmetria capace di far rivalutare al lettore il destino della protagonista. Infatti, nonostante la conclusione a cui va incontro, Mara appare vittoriosa, coraggiosa e fedele a se stessa fino alla fine.
Bibliografia:
Lyubov Popov, Introduction to Viktoria Tokareva’s Life and Works, University of Nebraska – Lincoln, 2006.
Richard Chapple, A Note on Viktoria Tokareva and Anton Chekhov in “Journal of the Australian and New Zealand Slavists’ Association and of the Australasian Association” / 6, 1992.
Viktoria Tokareva, Mara, Milano, La Tartaruga edizioni, 1994.
Apparato iconografico: