Sara Deon
“In tutti gli altri eventi, piena è la donna di paure,
e vile contro la forza, e quando vede un ferro;
ma quando, invece, offesa è nel suo talamo,
cuore non c’è del suo più sanguinario.”
(Euripide, Medea)
Fin dagli albori delle società classiche, la materia mitopoietica è stata oggetto di manipolazioni e rivisitazioni. Nella mitologia greca e latina l’esperienza femminile è stata a lungo distorta dall’ottica androcentrica che l’ha generata: nonostante siano state reinterpretate a più riprese, le figure femminili antiche di Circe, Cassandra e Medea sono state suggellate come archetipi negativi – la strega, la profetessa, l’infanticida. Mettendo in discussione l’idea diffusa che il mito riveli una realtà sempiterna e obliquamente valida, la teoria femminista del secondo Novecento è stata protagonista di un rinnovato interesse per il mito, atto a una reinterpretazione del suo carattere archetipico, a partire dalla rappresentazione femminile. Interrogare vecchi testi con nuove domande: così la scrittrice Lisa Tuttle ha definito il ruolo della teoria femminista, che deve dunque passare per la decostruzione del mito classico.
Dal punto di vista metodologico, secondo la definizione della poetessa e femminista Alicia Ostriker enunciata nel suo celebre saggio “The Thieves of Language: Women Poets and Revisionist Mythmaking”, la revisione del mito classico in chiave femminista consiste nello sfidare e correggere gli stereotipi di genere incorporati nel mito. Autrici e autori hanno implementato diversi espedienti narrativi a questo fine: l’adozione del punto di vista del personaggio femminile tradizionalmente antagonizzato, la presenza di una voce narrante che sardonicamente sbeffeggia la passività o demonizzazione delle figure femminili nel testo originale o, ancora, l’infusione di dinamicità a figure tradizionalmente statiche, in opposizione all’eroe maschile.
Tra le rivisitazioni del mito in chiave femminista più riuscite ci sono senz’altro Cassandra (1973) e Medea. Voci (1996) della scrittrice tedesca Christa Wolf. Se in Medea. Voci Wolf rivisita il mito riflettendo sulla sparizione della Storia, scritta dai vinti, all’indomani del crollo del Muro di Berlino, pur mantenendo una vicinanza con la forma originaria del mito, è in Russia che viene pubblicato uno degli esperimenti di reinterpretazione più radicali del mito euripideo. Infatti, nel 1997 viene dato alle stampe in Russia Medeja i eë deti, tradotto ed edito in Italia per la prima volta grazie all’editore Einaudi nel 2000 col titolo Medea; la scrittrice è la studiosa di genetica Ljudmila Ulickaja, a oggi celebrata come una delle figure più eminenti del panorama letterario russo contemporaneo.
La Medea di Ljudmila Ulickaja costituisce un esperimento fortemente innovativo sotto due profili: il primo ha a che fare con la possibile ascrizione dell’opera al cosiddetto “testo letterario di Crimea”, mentre il secondo concerne la risignificazione del mito, che qui si traduce in un vero stravolgimento formale e contenutistico della Medea classica.
A livello di trama, Medea è una saga familiare ambientata in Crimea, dove nella casa dell’omonima protagonista si riuniscono e dipartono i destini dei personaggi più svariati, rappresentanti delle diverse tendenze storiche della Russia del Novecento: tatari di Crimea esuli, bolscevichi e controrivoluzionari, donne dagli amori consumanti, teatranti e scienziati. I grandi eventi storici si fondono con le sorti individuali dei frequentatori della casa, tutto sotto lo sguardo della vigile Medea Mendes, nata Sinopli, “l’ultima discendente autenticamente greca di una famiglia che da tempi immemorabili si era stabilita sulle sponde della Tauride, una terra per molti versi affine alla natia Ellade.” (p. 3)
La Medea ulickajana si muove in uno spazio estraneo al mito classico, mantenendo però la dimensione di donna straniera: dalla Colchide alla Crimea, Medea è “altra” perché di origini greche, dunque emblema della stratificazione multietnica della Crimea, in un secolo di profonda russificazione e rimozione di questa pluralità culturale in nome dell’omologazione sovietica. Crocevia tra la cultura occidentale e quella orientale, nel corso della storia la Crimea ha visto il susseguirsi di diverse dominazioni: dai Cimmeri, ai Tauri, gli Sciiti, i Sarmati, i Peceneghi, i Kazaki, i Cumani, i Tatari, ma anche i Greci, gli Armeni, i Romani, i Veneziani e i Genovesi, e ciascun popolo ha lasciato un profondo solco nel suo substrato storico. Medea Mendes vive in un rapporto di profonda armonia e unione con la terra di Crimea: tanto che per gli abitanti della zona “era parte integrante del paesaggio” (p. 4). Proprio per questo, l’opera di Ljudmila Ulickaja potrebbe essere ascritta al mito di Crimea, un testo letterario – adottando la definizione che Vladimir Toporov applicò al “testo di Pietroburgo” – che vede la presenza egemonica del poeta-Ercole di Koktebel’ Maksimilian Vološin, la cui casa negli anni della Guerra Civile divenne un vero e proprio rifugio culturale.
Di tutte le dominazioni che si sono succedute sul territorio della penisola, Ulickaja attraverso la sua eroina loda i Tatari, che costituiscono il modello più elevato di colonizzazione del territorio: lavorarono la terra con grande ingegno e furono i primi a ideare un sistema d’irrigazione che permise la fioritura di fiori e piante laddove in precedenza c’erano solo terre aride. Medea è greca della Tauride, ma i suoi coetanei greci o sono morti o sono stati deportati; pertanto, il suo popolo condivide con quello tataro il triste destino della persecuzione e della deportazione, che nel caso tataro in questi territori ha avuto risvolti estremamente violenti. Infatti, i russi non solo costrinsero all’emigrazione in Turchia la popolazione tatara, ma diedero inoltre il via a una massiccia deforestazione del paesaggio naturale, con l’eliminazione dei precedenti sistemi d’irrigazione, e sfruttarono la penisola come ospedale per curare i pazienti affetti da tubercolosi nel XIX secolo, diffondendo il morbo tra la popolazione locale. L’iniziale entusiasmo tataro verso le rivoluzioni russe del 1905 e 1917 fu presto smentito: la vittoria bolscevica comportò ulteriori atrocità e disastri per i Tatari di Crimea, senza considerare il tragico impatto della carestia degli anni Venti. In epoca staliniana, la repressione della popolazione tatara si è acuita, emblematizzata nella deportazione di massa ordita nel ’44 come punizione per il presunto collaborazionismo con il regime nazista tra il 1942 e 1943. Il ritorno dei Tatari alla loro terra è stato possibile solo a partire dal 1989, quando grazie a Michail Gorbačëv vennero ufficialmente riconosciuti come popolo represso. Ancora oggi il popolo tataro chiede il riconoscimento delle deportazioni come atto di genocidio. È un’accusa ai russi quella che Medea muove contro la deturpazione di quell’Eden mediterraneo che i Tatari per primi avevano contribuito a dare vita, tanto che a proposito della deforestazione della vegetazione tatara in Crimea, Medea racconta nel libro:
“Ti ricordi, Eleonočka, della Crimea orientale all’epoca dei Tatari? E della Crimea centrale? Che giardini c’erano a Bachčisaraj! Ora invece non c’è più neanche un albero sulla via di Bachčisaraj: hanno disboscato e distrutto tutto…” (p. 11)
Non sorprende, dunque, che nel suo testamento la protagonista abbia deciso di affidare la sua casa al tataro Ravil’, membro di un movimento per il ritorno dei Tatari in Crimea, conscia dell’impossibilità per i Tatari di acquistare case nella penisola a causa di un decreto che risaliva all’epoca staliniana. Nel gesto di lasciargli in eredità la casa, si evince la forza insita nella Medea ulickajana: una donna razionale e assetata di giustizia, che non ha timore a mettere in luce le disuguaglianze sociali e i danni dell’omologazione, proprio perché profondamente legata al volto composito e multietnico della sua amata terra. Una figura quindi opposta alla matricida e vendicativa Medea del mito classico, seppure le accomuni l’orrore e lo sdegno per l’avidità e la violenza arbitraria del potere, che è sempre appannaggio maschile.
Ulickaja, dunque, apporterebbe una componente profondamente femminile al testo letterario di Crimea: come la casa del poeta Vološin a Koktebel’, anche la casa di Medea è il centro nevralgico del suo tempo, ma la sua topografia è quella di un anfiteatro matriarcale: un luogo fertile, pulsante di vita, che ogni primavera apre le porte alla sua famiglia allargata.
Riprendendo l’archetipo di Medea nel mito classico come donna infanticida, vendicativa, brutalmente irrazionale quando contrapposta alla razionalità patriarcale della civiltà greca, la Medea di Ljudmila Ulickaja è, per contrasto, tutto ciò che la Medea euripidea non è: matriarca anche se sterile, giusta e coraggiosa di fronte alle ingiustizie e alla brutalità, altruista fino all’estremo anche quando viene tradita. Medea di Ulickaja è un’opera femminista, erede della rivisitazione antecedente di Christa Wolf, dove l’io femminile, naturale e quasi pagano, vivace e protettivo, si contrappone a una società patriarcale bieca, meccanica e artificiosa.
La Medea di Crimea è una grande madre nutrice, depositaria della memoria collettiva che dalla sua famiglia, composta da numerosi fratelli e sorelle e da altrettanti nipoti (come si evince dall’albero genealogico presente all’inizio dell’opera), si dipana nelle pagine della storia nazionale. La sua casa è come un tempio aperto ai suoi discepoli, più vicina a un’idea di comunità estesa che famiglia nucleare tradizionale.
“Era un rituale. Tutti i visitatori portavano dei doni e Medea li accettava non a nome proprio, ma a nome della casa.” (p. 15)
La virtù di Medea come figura materna che si prende cura degli altri è ulteriormente emblematizzata dalla sua occupazione lavorativa: quella di infermiera, che durante la Seconda Guerra Mondiale si ritrova a gestire autonomamente un ospedale di campo. Naturalmente madre, ma senza mai scadere in una visione biologico-essenzialista, Medea non ha figli propri, ma si prende cura di tutti indiscriminatamente come se fossero suoi. È una madre sterile, a simboleggiare un rapporto materno indissolubile anche laddove il legame non è strettamente consanguineo.
“Molti anni dopo Medea, che non aveva avuto figli, riuniva nella sua casa di Crimea numerosi nipoti e pronipoti e li osservava in silenzio traendone empiriche conclusioni. Era opinione comune che li amasse tutti e molto. Difficile dire quale sia il tipo di affetto che le donne senza figli nutrono per i bambini, ma lei provava per loro un vivo interesse che in vecchiaia era persino aumentato.” (pp. 7-8)
Se gli uomini della Storia hanno vissuto e perpetrato il motto latino “divide et impera”, Medea è una forza unificatrice, che cerca riappacificazione anche quando è lei a essere tradita, come avviene con la sorella Sandra, diversa da lei perché istintiva e passionale. Infatti, sebbene il Giasone originario qui sia assente e possa anzi trovare impersonificazione in senso più ampio nella classe politica russa, è presente un uomo che è l’oggetto dell’amore di Medea: il marito, Samuil, un dentista con dieci anni in più. È proprio con la sorella Sandra che Samuil tradisce Medea, da cui avrà una bambina, Nika. Ciò nonostante, Medea non cede al risentimento, è disposta a sacrificare anche la felicità per il mantenimento dell’armonia famigliare. Non c’è spazio per la gelosia primordiale nella Medea ulickajana, né per quella stereotipata competizione femminile che nella letteratura occidentale ha sempre generato discordia e risentimento.
Assumendo in definitiva la visione barthesiana del mito non come concetto o idea, bensì come “un modo di significare, una forma”, la Medea di Ljudmila Ulickaja costituisce uno degli esempi più straordinari e sperimentali di rivisitazione del mito classico: da un lato perché nell’effettuare lo slittamento geografico dalla Grecia alla Crimea sovietica rivitalizza l’immagine letteraria della penisola come un locus amoenus di armonia e magia (sebbene non esente dalla violenza del potere sovietico), dall’altro perché restituisce un’immagine di Medea inedita – quella di una nuova donna, un’antica madre mediterranea, la cui casa anche dopo la sua morte, affidandola al tataro Ravil’, si staglia nel paesaggio come un luogo senza tempo di protezione e libertà.
Bibliografia:
Alicia Ostriker, The Thieves of Language: Women Poets and Revisionist Mythmaking, in: “Signs”, vol. 8, n. 1, 1982, pp. 68–90.
Christa Wolf, Medea, Roma, Edizioni e/o, 2019.
Lisa Tuttle, Encyclopedia of Feminism, Cambridge, Longman, 1986, p. 184.
Ljudmila Ulickaja, Medea, Torino, Einaudi, 2000.
Maksimilian Vološin, Kul’tura, iskusstvo, pamjatiniki Kryma, Litres, 2017, Edizione Kindle.
Maksimilian Vološin, Versi sulla Crimea, Rimini, Aracne Editrice, 2016.
Neal Ascherson, Mar Nero: Storie e miti del Mediterraneo d’Oriente, Torino, Einaudi, 1999.
Roland Barthes, Miti d’oggi, Torino, Einaudi, 2016.
Vladimir Toporov, Peterburgskij tekst russkoj literatury: Izbrannye trudy, San Pietroburgo, Isskustvo-SPB, 2003.
Apparato iconografico:
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Immagine 1: https://it.wikipedia.org/wiki/Medea_(Euripide)
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