Bianca Dal Bo
Si inizia con una storia. Da una data: 20 agosto 1945. Si inizia da un luogo: la città di Brno. A Brno il 20 agosto 1945 nasce Sylvie Richterová. Brno, la città natale del poeta Jan Skácel, del compositore Leoš Janáček, degli scrittori Antonín Kratochvíl e Věra Linhartová… e delle due più famose perle del romanzo ceco: Bohumil Hrabal e Milan Kundera. Sylvie Richterová lascia Brno nel 1963 trasferendosi a Praga, per frequentare il corso di Lingue e Letterature moderne alla Univerzita Karlova. Nel 1971 emigra in Italia, a Roma, dando inizio a una carriera di docente universitaria e, soprattutto, scrittrice di saggi, poesie e romanzi, o meglio, “poesie di romanzo”. L’esperienza dell’emigrare, dello spostarsi – nel suo caso, per scelta – in un altro posto in cui vigono differenti coordinate geografiche e mentali, si rivela per la scrittrice come la possibilità preziosa, e da alimentare di continuo, di vedere le cose in modo diverso. Sottolinea riguardo alla sua scelta di vivere in Italia, in una recente intervista: “È stata la fortuna e anche la scommessa della mia vita di poter cambiare continuamente la prospettiva, la distanza, la visuale. […]”, allo scopo di poter scorgere in modo più distaccato e consapevole le contraddizioni della sua patria. Il distacco con la Cecoslovacchia non è però una chiusura, un passato immagazzinato in una dispensa di cetriolini sottaceto in barattolo. Il dialogo con la propria casa, con la propria memoria, rimane per la scrittrice una porta sempre aperta.
Sono gli anni – quelli in cui Richterová riesce a emigrare in Italia – della Primavera di Praga, della scoperta di amare verità sui crimini del regime comunista, di un’entusiastica aria di libertà riconquistata, stroncata subito dopo dall’intervento militare. Da un lato, la fase della Normalizzazione – in cui ciò che veniva considerato “normale” durante il regime precedente alla Primavera di Praga, come la censura e i confini, viene ripristinato – si appoggia per bene come lastra d’acciaio sulle scoperte degli anni appena passati, una violenta lastra silenziosa che blocca le mani, la lingua e la gola alla gente, esercitando il proprio potere. Nessuna azione, nessuna parola, nessun respiro oltre a ciò che è “normale”, oltre a ciò che è consentito e non eccede rivelando una coscienza. D’altra parte, attorno agli anni ’70, sotto la lastra d’acciaio della soppressione, del contenimento, germoglia una cultura clandestina, non ufficiale, una comunità di intellettuali, di scrittori che creano e si scambiano letteratura, il fuori schema che bussa alla porta di un castello chiuso a chiave. E Richterová collabora, infatti, con questa letteratura altra della Cecoslovacchia – che prende il nome di samizdat – con la parola profonda, quella non schiavizzata da un superficiale sistema dell’utile, ma la parola che fa, liberamente. Continua la scrittrice nell’intervista sopraccitata:
“La letteratura fa crescere, mentre il potere è sempre in qualche misura rigido e costrittivo. Quando il potere tenta addirittura di ridurre lo spazio spirituale delle persone, non può non temere la letteratura. L’opposizione dei due principi diventa evidente. La grande letteratura crea realtà culturali estetiche ed etiche da condividere, offre spazi sociali e spirituali, aumenta il potenziale individuale e sociale. Mentre il potere contiene, domina, restringe. Può perseguitare lo scrittore fino a farlo scomparire fisicamente, ma mai potrà abolire il paradosso che fa sì che più il potere reprime la letteratura, più limitato, meschino e ridicolo apparirà alla luce della letteratura.”
La letteratura come creazione di uno spazio, uno spazio della coscienza, contro una riduzione di spazio (ormai limitatosi a un non-pensiero) circoscritto da un potere. Un potere che appare ridicolo sotto la leggera ma vera lampada da tavolo della scrittura, se cerca questo di spegner la sua luce. Letteratura contro potere. Letteratura e potere agli antipodi.
Sylvie Richterová cura numerosi studi e articoli letterari, scrive diverse raccolte poetiche e pubblica sei romanzi (di cui si occupa in parte della traduzione all’italiano): Ritorni e altre perdite (1978, da Sixty-Eight Publishers, la casa editrice fondata dallo scrittore ceco emigrato Josef Škvorecký a Toronto), Figure dissipate (1979), Topografia (1983), Sillabario della lingua paterna (1986), tutti usciti inizialmente in samizdat, Secondo addio (1994) e Che ogni cosa trovi il suo posto (2014), per due volte vincitore del Premio del Fondo Letterario Ceco e per una del Premio Tom Stoppard. È proprio in questo modo, attraverso le parole e in lingua ceca, che la scrittrice crea un polo positivo che libera e non stringe, uno spazio sulla carta. Scrive uno spazio. Il termine che si identifica con la configurazione di un luogo, con la rappresentazione grafica di una zona di terreno, è “topografia”. Nel 1983 – poi tradotto e pubblicato nel 1986 da Edizioni e/o in Italia – Sylvie Richterová intitola il suo libro proprio con il termine Topografia, un apparente romanzo suddiviso in cinque capitoli, definito da Milan Kundera, caro amico di Richterová, una “poesia di romanzo”.
Ma attenzione, contro ogni forma di potere, di possessione o di contenimento, la Topografia di Richterová, più che una muraglia di confini convenzionali su una cartina geografica è piuttosto la scrittura di uno spazio, una scrittura senza trama fissa da seguire, una scrittura che lascia spazi al pensiero, una scrittura senza ordine preciso, ma ebbra di temi, motivi e parole che si riprendono e giocano ad appendersi ad un pendolo che oscilla avanti e indietro. E, in effetti, in Topografia il luogo, il topos, può essere anche ciò che nella retorica greca antica era un luogo comune, un motivo ricorrente, in un’opera, nella tematica di un autore o di un’epoca.
Si inizia con una storia, in Topografia, ma la storia, narrata con silenzioso umorismo verso le contraddizioni della propria patria, si rivela essere un mero pretesto per il dopo. La trama è quella di una famiglia che parte dalla Cecoslovacchia verso Daruvar, per un viaggio al mare. E questo è il primo capitolo, già ambiguo in alcuni punti, apparentemente scollegati al filo del discorso. Ma voltata pagina, in procinto di iniziare la seconda parte del libro, il lettore non si ritrova con la trama appena letta. Si scopre, invece, spaesato a leggere un libro senza paese, eppure così minutamente descritto, quasi maniacale, da suscitare nel lettore sensazioni sinestetiche. Tra una miriade di frammenti, un succedersi di frammenti riuniti con la colla, frammenti di realtà, di ricordo, di storie inventate, di sogni di personaggi maschili anch’essi inventati, il lettore fatica a capire il senso del discorso e ritrovarne il filo. Dove sta andando?
La verità si riflette nelle parole di Kundera che fa riferimento a come Jean Cocteau definiva i suoi romanzi: “poesie di romanzo”. Per Kundera stesso, “poeta del romanzo” è colui che non spiega, colui che non schiavizza parole e descrizioni per chiarire il filo di una trama complessa. “Poeta del romanzo” è colui che fa largo all’essenziale, lasciando affondare tutto il resto. Il lettore non viene intrappolato in un’unica isola conchiusa nel mare, ma può scegliere di aprire il libro a caso e iniziare a leggere dove lo sguardo gli si appoggia, perché ogni frammento è essenziale per il tutto ed essenziale nel suo essere autonomo, libero dal resto, come si trattasse di componimenti poetici.
Oltre all’importanza data a ogni singolo frammento, ad ogni singola parola, è dato valore anche a ogni singola lettura di ogni singolo lettore, alle innumerevoli prospettive, ai tanti ordini caotici con cui il romanzo si presta ad essere letto. Non è un mero tentativo, dunque, della scrittrice di affermare, tracciare per sempre su carta, il proprio ego, ma un viaggio di andata e di ritorno, di continuo, dal proprio io verso l’essenza di ciò che l’io ha vissuto, dove l’individualità dell’io si perde per rendersi conto di esser trapassata da decine e decine di vite.
“Mi manca ormai solo la parola che non ho mai udito. Solo le parole che non so. Non sai che non sai che non sai. Non sai ciò che non sai, ciò che non sai non sai, non sai che non sai. Arrivò per caso proprio mentre stavo per prendere l’autobus, ma era chiara sopra ogni cosa. Non è più quell’ordine terribile: vai là, dove-non-so, porta la cosa-che-non-so. È l’unica strada che valga la pena.” (p. 126)
Non si può raccontare questo romanzo, ma allora solo dirne, accennarne in parte la forma, una cesta di rami intrecciati. Dall’inizio canonico, provvisto di trama, si forma come un’esperienza raffinatamente disordinata, che non porta a nessun senso e nessun posto, ma meglio ancora: un luogo lo crea. Un elegante luogo di coscienza e libertà, uno spazio che vale la pena di attraversare, in cui se si vuole si può tornare sul già letto per leggerlo di nuovo in modo diverso e magari con altri ordini rispetto a quelli adottati in letture precedenti. In altre parole, una non finita attività di coscienza che si traversa, si trasforma e in cui ci si trasforma, come si dovrebbe fare con la vita.
“Il luogo al quale le persone e le cose potessero tornare anche quando non ci sia più né la casa né l’infanzia. Può essere la coscienza. Deve essere la coscienza. La coscienza delle cose che sono successe e potevano succedere a me e a chiunque altro. La memoria presente e la memoria lasciata nelle pagine ingiallite e dimenticate, che sono a volte più vive dei ricordi vivi, perché si rianimano. Sorgono di nuovo alla coscienza, si creano dalla coscienza e creano la coscienza.” (p. 117)
Leggendo Topografia di Richterová, si comincia con una storia, come esploratori convinti di iniziare un viaggio verso un’unica isola. Ma si inciampa nei vuoti e con sguardo più aperto ci si accorge di trovarsi in un attraente arcipelago.
Bibliografia:
Sylvie Richterová, Topografia, Roma, Edizioni e/o, 1986.
Sitografia:
Slovník české literatury (slovnikceskeliteratury.cz)
Apparato iconografico:
Foto 1. Cyklus Oči Brna pokračuje | Duha (mzk.cz)
Foto 2. Scansione della copertina.