“In culo oggi no”. L’erotismo eversivo di Jana Černá

Michele Maltauro

In culo oggi no è uno smilzissimo libello (111 pp.) il cui paratesto eguaglia, se non addirittura supera, il testo in sé. Compare in Italia, stampato dalle Edizioni e/o nella traduzione di Alessio Cobianchi, nel 1992, a due anni dalla prima stampa ceca. Non è un’edizione controllata dalla sua autrice, la sfortunata Jana Černá che muore nel 1981 in un incidente stradale, bensì un atto d’amicizia e d’amore intellettuale per colei che può essere considerata come la musa-sotto-il-piedistallo dell’underground praghese. Sono infatti Egon Bondy, Bohumil Hrabal, Ivo Vodseďálek, compagni d’esistenza e subcultura, a comporre la raccolta con poesie e prose brevi che compaiono precedentemente in pubblicazioni samizdat o rimangono inedite fino ad allora.

Occorrerebbe sostare, a questo svolgersi del discorso, su quel che fu l’esperienza dell’underground ceco, sulle sue radici negli anni Cinquanta con le azioni urbane del Vladimír Boudník protagonista di Un tenero barbaro di Hrabal, sul “realismo totale” e sui Fratelli invalidi di Egon Bondy, compagno storico di Jana. Per questioni di spazio, rinviamo però all’esaustivo numero di “eSamizdat” dedicato alla parabola creativa di Bondy (2008), limitandoci a collocare questi personaggi dal fascino così precario in una cultura dissidente e sperimentalista, contraltare artistico-letterario del realismo socialista ufficiale prima (direzione culturale imposta dopo il colpo di stato comunista del 1948 e dominante nel decennio seguente) e della letteratura della Normalizzazione poi (dopo la brusca fine della Primavera di Praga, nel 1968).

In tali circoli di amicizie e incontri si muove Černá, che nella sua vita e nella sua opera si firma con molti nomi. Il cognome appena citato è assunto dal secondo marito, da nubile porta invece quello del padre Jaromír Krejcar, importante architetto costruttivista e membro del movimento Devětsil, che muore in esilio nel 1950. La madre, cui la figlia dedica il libro Vita di Milena (Adresát Milena Jesenská. In italiano sono disponibili due edizioni: Vita di Milena, tradotta da Anna Martini Lichtner per Garzanti e Lettera a Milena, trad. Ivana Oviszach per Forum), è la giornalista Milena Jesenská. Jesenská è conosciuta oggi per essere stata l’amante di Kafka, ma è stata soprattutto una giornalista e scrittrice impegnata in battaglie sociali, morta nel campo di concentramento di Ravensbrück. L’ambiente familiare medioborghese di provenienza è, quindi, già vocato alla ribellione. Jana la incarna in maniera del tutto peculiare: rifiuta la noiosa serenità di una vita agiata, dilapida l’eredità del nonno, si sposa quattro volte e dà al mondo cinque figli – negli anni Sessanta sarà anche condannata alla detenzione per abbandono di minori –, abbandona l’idea di vivere di letteratura “ufficiale”, produce piccolo artigianato (cucito, casacche e camicette batik), non ha mai fissa dimora. Si fa chiamare Honza, diminutivo del maschile Jan. Altre volte Jana Fischlová, altre ancora si firma J. Ladmanová; chissà quanti pseudonimi le sono appartenuti!

Riprendendo il più famoso Černá e tornando al libro, il suo titolo italiano è frutto di strategie commerciali: quello dell’edizione originale del 1990 si tradurrebbe semplicemente con Clarissa e altri testi, scelta più calibrata per celare sotto la copertina una carica erotico-pornografica tanto forte da risultare eversiva. È questa una cifra stilistica propria dell’autrice, evidenza lampante e fil rouge del numero sparuto, ma vario nelle forme letterarie, dei testi. L’erotismo può essere qui vezzoso, morboso, bambinesco, così come può raggiungere vertiginose oscenità pornografiche. Non è mai, tuttavia, un parlar sporcaccione fine a sé stesso, perché la dimensione dell’eros ha un valore centrale sia da una prospettiva letteraria che da un’angolatura filosofica. Il risultato è perciò assai interessante.

Clarissa è la prosa in prima persona che apre la raccolta, seguita dai Ricordi di Janina, che si compone di due corte lettere fittizie. Ivo Vodseďálek, che ha trascritto i testi dal manoscritto originale, in una nota a margine del volume lascia intendere che vi sia un collegamento stretto fra le due sezioni, anche se trovare un senso non è un fatto semplice per il lettore. Nelle lettere, indirizzate a una tale Janička, un’amica dalla firma illeggibile chiede perdono alla destinataria per aver sfogliato il diario di quest’ultima. E come uno scritto di memorie trasfigurate potrebbe, in effetti, essere letto Clarissa, che Vodseďálek considera con convinzione come “i pensieri più intimi” di Jana (p. 89). Clarissa condivide in effetti molti aspetti della vita di Černá e nulla vieta di pensare che anche il suo personaggio s’avvalga di pseudonimi, fra cui proprio Janička, magari. Quale che siano falso e vero, letterario e reale, un gioco di specchi autobiografici è comunque innegabile.

 

Jana Černá con Egon Bondy nel 1949

Clarissa appare per la prima volta nel 1951, all’interno della collana “Půlnoc” (“Mezzanotte”), proto-samizdat di circolazione limitatissima, che si ispira all’attività letteraria clandestina delle Éditions de Minuit durante l’occupazione tedesca della Francia – ed è un romanzo brevissimo in tredici capitoletti. La protagonista ripercorre fumosamente alcune esperienze sentimentali e sessuali dell’adolescenza come la perdita della verginità, dando ampio spazio a riflessioni fra serio e faceto. Quell’età di avvio alla vita è letta da una narratrice cresciuta, tediata “dall’insoddisfazione e dalla masturbazione” (p. 19), come frutto di una scelta che si potrebbe chiamare corsara, in contrapposizione alla mediocrità borghese: vale a dire, in luogo della strada più ovvia del rinnegamento dalla borghesia, una critica agli squallori di essa dal suo cuore, sguazzandoci dentro e solcandone i vizi più celati. Primo fra tutti la sessualità, che si sbizzarrisce fra conoscenze in senso biblico prima del matrimonio, triangoli amorosi e ombre di incesto. Tutto ciò in maniera più o meno velata.

Il sesso si dimostra da subito, infatti, una scelta radicale nell’affermazione di se stessi, la propria arma personale di azione politica. In Clarissa l’eversione sessuale si lega a un discorso di intertestualità. Il titolo richiama infatti con evidenza una delle opere cardinali della letteratura inglese, il romanzo fiume omonimo di Samuel Richardson (1748). La citazione di una storia infinita di salvaguardia della virtù da parte di una ragazza borghese – l’eroina di Richardson ha diciannove anni, l’antieroina di Černá uno in meno – che fugge dalla famiglia per morire poi come una santa, è qui parodicamente rovesciata. Non solo perché la Clarissa praghese si spoglia del fardello della verginità senza sensi di colpa, ma anche da un punto di vista formale: da un lato una delle opere più lunghe del mondo anglofono, dall’altro appena dodici facciate. La caratteristica di romanzo epistolare propria dell’opera di Richardson è inoltre recuperata, forse, dall’appendice delle due lettere a Janina, a mo’ di sberleffo.

Nella prefazione al volume, Bondy parla di studio indiretto del marchese de Sade (p. 13). Se si segue questa scia, notiamo l’ennesima parodia: la storia della Clarissa di Černá assomiglia molto di più alla Justine sadiana che alla sua omonima inglese. D’altra parte, la celebre opera di de Sade è essa stessa un rovesciamento di quella di Richardson, basti ricordare che come sottotitolo riporta Les Malheurs de la vertu. Per Černá, con i dovuti ridimensionamenti, un’educazione al sesso è la vera virtù. Mentre quest’ultima, nel senso tradizionale del termine, è castrazione, rinuncia alla consapevolezza, all’autoaffermazione.

La terza sezione del libro è, in breve, una raccolta di cinque poesie datate 1948 e pubblicate per la prima volta quarant’anni dopo su “Revolver Revue”, rivista samizdat riferimento dell’underground ceco della seconda metà degli anni Ottanta, che nel 1990, oltretutto, nomina Jana Černá vincitrice del Cena Revolver Revue (Premio Revolver Revue). Il titolo di questa parte è Nel giardino del padre mio, che, scrive Bondy, “è una citazione da una canzone popolare francese (Au jardin de mon père, N. d. R.) – doveva ricordare l’incesto col padre.” (p. 12) È sospettabile che in questo caso si tratti di un topos della letteratura erotica, trovando conferma in una poesia i cui personaggi assumono ruoli genitoriali nel gioco sessuale. A ogni modo, pur non fugando completamente l’ombra, l’erotismo è in queste poesie giocato scanzonatamente, donando qua e là rime sconce a forme metriche libere.

Notevole è la quarta e ultima sezione, Lettera. Recuperata dall’archivio di Zbyněk Fišer (nome al secolo del solito Egon Bondy), a lui dedicata, è stata stesa all’incirca nel 1962 ed è una grande dichiarazione d’amore. Pur discorrendo di vulnerabilità della vita interiore, l’epistola non è certo concepita per rimanere privata, spesso infatti l’autrice strizza l’occhio a un ipotetico lettore. La circostanza in cui essa trova la luce è un breve periodo di assenza e astinenza, perciò di fragilità emotiva, in cui Černá attende il prossimo incontro con Zbyněk, cercando nella scrittura un diversivo. Questa posizione le permette una visione distaccata, che le porta obiettività sulla felicità del compagno e sulla propria: lo sprona a non sentirsi avvilito se incompreso, a trovare il coraggio di seguire una ricerca filosofica e poetica lontana dalla ciarlataneria accademica, dove essa diventa esercizio mnemotecnico e ideologia funzionalista portatrice di orrori. Černá scrive in un passaggio:

“[…] Si vuole dalla filosofia che giustifichi e sopporti tutto il peso dell’imbecillità umana, sulla sua base vengono costruiti gli Stati e viene utilizzata come scopetta per la pulizia delle latrine, deve servire da giustificazione per l’arresto di ministri e per l’aumento del prezzo del burro, e lo deve fare con persone che non sono capaci né disposte a comprendere uno solo dei suoi postulati.” (p. 50)

Nello svilupparsi di un discorso libero, anche linguisticamente, senza sforzo la scrittrice passa dal rassicurare Bondy sui suoi complessi allo spiegare i concetti cattolici di grazia e di speranza calati nella loro vita di miseria, arriva addirittura a disquisire – e senza ironia alcuna – sulle virtù di Dio. In questo contesto, ciò che sorprende è l’intercalarsi del tono serio a una scrittura tanto oscena “da lasciar a bocca aperta anche i lettori più spregiudicati” (recita così la quarta di copertina). Ancora una volta, più di ogni altra volta, l’eros rivendica il proprio spazio, fondendosi senza soluzione di continuità con riflessioni che normalmente figurerebbero in un testo saggistico. D’altra parte, Bondy stesso diventa l’incarnazione emblematica di questa compresenza:

“[…] Posso parlare con Te di filosofia a letto e mi si mette la fica sull’attenti se ne parliamo a tavola, non è proprio possibile separare e astrarre una cosa dall’altra.” (p. 55)

Il testo livella i cliché proprio nella misura in cui riflessioni sull’arte, considerate comunemente come elevatissimi voli dello spirito, si intervallano alle più profonde voragini pornografiche. Il sesso si realizza di nuovo come eversione, elemento corrosivo del pensiero comune e delle alte scienze, che imponendosi con tal vigore dà dignità a Černá e, al contempo, partecipa alla creazione della nuova forma letterario-filosofica che l’autrice si augura di veder sbocciare dal suo compagno.

Se c’è una reale e concreta possibilità che Tu maturi un frutto (e c’è), succederà solo se in esso sarai contenuto tutto intero, con i calzini; il rifiuto per le biblioteche, la barba, la birra, la fantasia, l’intelletto, l’uccello, con tutto quanto. Niente mi eccita più della speranza in un’opera che nascerà in diretta dipendenza da tutte queste cose, la speranza in un’opera dalla quale niente verrà eliminato, la speranza in un’opera non censurata, cruda, crudele e mostruosa, ma assoluta. Un’opera che non sarà non dannosa alla salute, che dopo averla consumata farà vomitare e farà cacare, che dopo averla consumata farà venire allo stesso tempo un senso di felicità e un senso di terrore, un’opera che non avrà limiti e che non permetterà che limiti le vengano imposti, mai e da nessuno.” (p. 54)

Tutto ciò suona come una dichiarazione programmatica anche per sé stessa. Ma, sfortunatamente, troppo pochi sono i frammenti che Černá ha lasciato dietro di sé per verificare se queste sue parole si siano realizzate totalmente.

Troppo pochi sono i frammenti anche per rintracciare in lei una critica e una pratica del femminismo. Senz’altro, ha ragione però Peppe Mauro Notturna quando parla di “erotismo proto-femminista” (p. 110), che non attacca il maschio in sé, quanto piuttosto una cultura intera. Un sentire che rende l’autrice consapevole del proprio valore, nonostante già all’epoca sia associata alla figura di Bondy; fruitrice senza complessi del proprio corpo, pur essendo cattolica; cultrice di un individualismo scomodo, da persona e donna libera, in una società buia. E, infine, anche molto disincantata e risoluta:

Forse un giorno arriveremo al punto che staremo veramente insieme in tutto e per tutto, e sarà più che felicità, ma scapperò immediatamente non appena si perderà questo unico senso vero e concreto, scappo via e mi prendo per marito un ingegnere con la Škoda perché a quel punto sarebbe esattamente lo stesso.” (p. 55)

 

 

Bibliografia:

Egon Bondy, Prefazione, in Jana Černá, In culo oggi no, trad. Alessio Cobianchi, Roma, Edizioni E/o, 1992, pp. 11-13.

Jana Černá, Clarissa a jiné texty, Praga, Concordia, 1990 (in it. In culo oggi no, cit.).

“eSamizdat”, vo. 6, n. 1 (2008), scaricabile al link: http://www.esamizdat.it/ojs/index.php/eS/issue/view/10/10 [06.03.2021].

Peppe Mauro Notturna, Beatnik a Praga, in Jana Černá, In culo oggi no, cit., pp. 101-111.

Ivo Vodsed’álek, A proposito di “Clarissa”, in Jana Černá, In culo oggi no, cit., pp. 89-90.

Apparato iconografico:

Immagine 1: https://cs.wikipedia.org/wiki/Jana_Krejcarov%C3%A1#/media/Soubor:Jana_%C4%8Cern%C3%A1_Krejcarov%C3%A1_1964.jpg

Immagine 2: https://www.zpravyzmnisku.cz/wp-content/uploads/2020/01/fotoEB.jpg