Cristiano Schirano
“Sapete perché esistono i poeti?
Perché non ci si vergogni a dire le cose più grandi.”
(Marina Cvetaeva, Sonečka)
Il teatro è il luogo d’amore per eccellenza: ogni storia – vera, genuina – nata in quell’ambiente è stata destinata a sopravvivere alle distanze, alle avversità, persino alla morte. Dovendo mandar giù il fatto di vivere sempre distanti, Čechov scriveva alla compagna e moglie, l’attrice Ol’ga Knipper: “Non è colpa di nessuno se il diavolo ha messo in te la passione del teatro e in me i bacilli della tubercolosi”. E Knipper, da parte sua, tenne un diario sotto forma di lettere al marito dopo la morte di lui. Affranta per la perdita, in una di queste pagine prova a consolarsi pensando: “Eppure la morte non esiste…”. Sono le stesse parole che Sof’ja Evgen’evna Gollidej – Sonečka – rivolgerà, anni dopo, a Marina Cvetaeva: “sapere che voi esistete è sapere che la Morte – non esiste.” (p. 185)
Sabato 15 maggio 1937 Marina riceve una lettera dalla Russia da sua figlia Ariadna (Alja), che le comunica l’esito della sua ricerca sul destino di Sonečka Gollidej, la “vostra Sonečka” – anche lei aggiungeva “una deferente aggiunta: «la vostra…»” (p. 29), come tutti quelli che conoscevano e volevano bene a Marina. Sonečka, le annuncia la figlia, era morta l’anno precedente, di cancro al fegato. La fedeltà di Marina la corregge: in realtà era morta tre anni prima.
“«Quando tornarono i marinai del Čeljuškin…». Era dunque l’estate del 1934. Era dunque – tre anni fa, non uno. Un anno – tre anni – tre giorni – che importa? Non la rivedrò mai più, cosa che ho sempre saputo, mentre lei non saprà mai quanto…
No! Lo sapeva – per sempre.
«Quando tornarono i marinai del Čeljuškin…» – suona un po’ come «Quando tornarono le rondini» – come un fenomeno della natura, e non è forse preferibile nella sua immensità e semplicità, persino nella sua popolana ingenuità, questa vaga indicazione – piuttosto che un’ora e una data precise?” (p. 234-235)
Quale fedeltà? È presto detto dalla stessa autrice: “La mia precisione, lo so, è noiosa. Al lettore sono indifferenti le date, con le date comprometto il valore artistico del racconto. Ma per me sono essenziali e addirittura sacre […] La mia precisione è la mia estrema, postuma fedeltà” (p. 18). La notizia si fa pretesto, per Marina Ivanovna, per rivivere e far rivivere, nel Povest’ o Sonečke (1937), più che i fatti, i sentimenti di circa vent’anni prima – addomesticati, dice Viktoria Schweitzer nella biografia Marina Cvetaeva. I giorni e le opere (2002, trad. it. 2006), “con il senno degli anni trascorsi” –, in cui “prendono forma le riflessioni della Cvetaeva sul passato, sulla generazione dei ‘padri’, sul ‘riesame dei valori’ vissuto negli anni Trenta.” (p. 395-396)
Cvetaeva ritorna agli anni della Rivoluzione, anni difficili, duri, di forti contrasti. La Rivoluzione, infatti, spezza la vita della poetessa in due metà perfette quanto antitetiche – ventiquattr’anni di vita facile e ventiquattr’anni d’incubo e miseria.
Negli anni tra il 1917 e il 1919 Cvetaeva scopre il teatro e le sue possibilità, la polifonia insita in quest’arte (dirà, infatti, “alla mia voce non bastava più la poesia”), l’arte del dialogo – che influenzerà la sua poesia rendendola dialogica, necessitante di un tu al quale riferirsi –, e le combinazioni di toni diversi: romantico e sublime, popolare e rozzo. Ciò la spinge a scrivere delle drammaturgie in versi, le cui letture presso lo Studio III del Teatro d’Arte di Mosca riscuotono grande successo, sebbene non saranno mai messe in scena. Marina scopre il teatro e si invaghisce degli allievi di Evgenij Vachtangov, del loro brio, della loro giovinezza, allegria e determinazione – qualità che la colpiscono in alcuni di loro, in particolare: Pavlik (Pavel Antokol´skij), Jura (Jurij Zavadskij), Volodja (Vladimir Alekseev) e Sonečka (ammessa allo Studio II di Mčeledov). Il racconto ruota principalmente attorno a questi attori. Che potrebbero anche definirsi personaggi del racconto, perché in esso compaiono; personaggi, perché interamente consacrati (chi con più, chi con meno talento) al teatro; personaggi, perché attori. Cvetaeva, sul finire del racconto, raccoglie i loro nomi come nell’elenco delle dramatis personae sul programma di sala d’uno spettacolo. Per poi spiazzare il lettore rivelando che, nel racconto, ad agire e muovere gli attori – fra i quali è inclusa la stessa Cvetaeva – è l’amore “tremendamente pieno, insopportabilmente pieno” (p. 16). Gli attori “[a]rrivano, parlano, se ne vanno – alcuni per sempre”, e sono funzionali all’autrice per “mettere a nudo l’essenza umana di ognuno nel rapporto con le altre persone, con il tempo, con se stessi”, secondo Schweitzer (p. 395).
“Davanti a me – un vivo incendio. Brucia tutto, brucia – tutta. Bruciano le guance, bruciano gli occhi, nel falò della bocca bruciano senza prender fuoco i denti bianchi, bruciano – la fiamma sembra arricciarle – le due trecce nere, una sulla schiena, l’altra sul petto, quasi spinta dalle fiamme. E da questo incendio, uno sguardo così estatico, così disperato, così – ho paura! così – vi amo!” (p. 20)
È così che Marina descrive Sonečka al loro primo incontro: vivo incendio. Una forza straordinaria, impetuosa, travolgente, in “quell’attrice piccolina” – così i più si rivolgevano a Cvetaeva, conoscendo il suo legame con la giovane attrice il cui nome non ricordavano. Anche in questo testo vive la poetica del paradosso presente in tutta l’opera di Cvetaeva. Il ritratto di Sonečka è un affascinante paradosso. Tutto il suo essere: una giovane, promettente attrice, amata e apprezzata dal pubblico come Nasten’ka nelle Notti bianche di Dostoevskij, ma incredibilmente capricciosa, poco accomodante, intrattabile agli occhi di molti dei suoi compagni di lavoro, “per la sua singolarità: per il pericolo che la singolarità costituisce.” (p. 75) Eppure, stimata e ben voluta dai maestri Vachtangov, Stachovič e dallo stesso Stanislavskij. Ancora, Marina la descrive come “l’immagine più assoluta, perfetta, della maternità – maternità verginale, verginità materna: di una fanciulla, no – di una bambina-Madre di Dio.” (p. 82) Tutto il suo sentire: Sonečka ama sinceramente Marina, nonostante segua, poi, “il suo destino di donna” (p. 216); Sonečka è destinata a piangere lacrime più grosse degli occhi; Marina vive la separazione da lei come una grande manifestazione d’amore, riconoscendo che il suo amare “voleva dire – essere: annientarsi nell’altro – per compiersi.” (p. 47) Il ritratto di Sonečka, fedele a quello che è stato il loro vissuto condiviso, è anche debitore verso tanta letteratura frequentata da Cvetaeva nel tempo. C’è un po’ di Cvetaeva stessa nel ritratto di Sonečka: nel suo dipingerla come una creatura anacronistica, fuori dal tempo, una donna del Sette-Ottocento – lo stesso periodo cui appartengono alcuni dei punti di riferimento letterari spesso citati da Cvetaeva (le memorie di Napoleone, le Pensées di Pascal, le Memorie di Casanova, opere di paraletteratura). Marina è l’unica a vedere, in quella “Donna – Attrice – Fiore – Eroina” (così recita la dedica dell’Angelo di pietra), una creatura bella, eroica: qualità che emergono dalla sua incommensurabile bontà e generosità, dalla sua capacità di sacrificio e dalla sua dedizione, che sa amare e desidera essere amata; qualità che nessuno, a parte Marina, riusciva a scorgere in lei.
“Avrà anche un’anima bella, ma il carattere… Tremendo! Non arrabbiatevi, Marina Ivanovna, voi non la conoscete, la conoscete solo poeticamente, umanamente, a casa vostra, da voi e con voi, ma esiste una vita professionale, di gruppo. […] Conoscete la formula di Stanislavskij ‘entrare nel cerchio’? Ecco, la nostra Sonečka è tutta un ‘uscire dal cerchio’.” (p. 72)
Pur essendo un’attrice non vi è nulla di falso, di apparente, di teatrale in quello che fa: è spontanea, originale, singolare. Cvetaeva l’ammira e l’ama perché è come lei. E così si abbandona alla passione per Sonečka, a una passione senza margini né freni, raccontata con un trasporto tale da farvi partecipare lettrici e lettori. Come incendio, Sonečka è fonte di calore umano, di cui Marina ha disperatamente bisogno per sopravvivere a quanto sta accadendo attorno a lei. Ammetterà di non aver amato mai alcun altro essere femminile, dopo Sonečka, “né mai, certamente, lo farò: amo sempre meno, conservando il poco calore che mi resta per quelli che ormai non può più riscaldare.” (p. 222) La loro amicizia dura pochi mesi: quanto basta per lasciare una traccia indelebile. Scompare allo stesso modo in cui era apparsa nella vita di Marina: all’improvviso. Un altro paradosso: un amore di breve durata che vive ancora indomato (e indomabile) in lei. La promessa di un incontro, l’incapacità di reggere il dolore:
“Il non-venire di Sonečka: amore. […] Sonečka non venne perché – sarebbe morta, si sarebbe sciolta in lacrime e di tutta lei sarebbe rimasta soltanto una piccola pozzanghera. Oppure il suo cuore si sarebbe fermato di colpo sull’ultima sillaba del mio nome. […] Sonečka non venne – perché non poteva dirmi addio. E ancora per un altro motivo: non venne – perché era già morta.” (pp. 218-219)
Serena Vitale ci rivede il destino di Nina nell’atto quarto del Gabbiano di Čechov: Sonečka, infatti, non fa carriera, recita in teatri di provincia, sposa un uomo al quale resterà fedele fino alla fine. Così, come Nina, segue il suo «destino di donna»… Un finale annunciato. Marina la saluta e la benedice citando il finale del testo che, in teatro, la rese celebre: le Notti bianche.
Nell’insieme si coglie una duplice – ancora, paradossale – intenzione dell’autrice: quella – dettata dalla necessità – di liberarsi di Sonečka, della sua presenza in questa vita, in questo mondo, ora che ha appreso della sua morte. Avendola conosciuta come vivo incendio, per Cvetaeva è impensabile che ora sia cenere (Sonečka, infatti, era stata cremata, le scrive Alja). Il fuoco, ancora vivo in Cvetaeva – “[b]rucia che Sonečka non ci sia più – completamente” (p. 236) –, è l’elemento che l’ha accompagnata dal principio alla fine. Marina dice che, se fosse dipeso da lei, ne avrebbe sparse le ceneri dalla vetta della montagna più alta, verso tutti gli esseri amati – amati da quella creatura che benediceva chi ha inventato il mappamondo, “perché con queste due braccia posso abbracciare subito tutta la terra – e tutti quelli che amo!” (p. 33). L’altra intenzione, presa a prestito dall’ambiente teatrale, è di farla risorgere, in una veste non poi tanto insolita: come personaggio. Si potrebbe parlare di reviviscenza, secondo l’accezione che ne dà il maestro Stanislavskij: quella “fase […] di creazione della fisionomia interiore ed esteriore del personaggio e di coincidenza tra vita interiore dell’attore e del personaggio”, secondo la definizione di Fausto Malcovati (p. 140). Così Cvetaeva sembra cercare, a dispetto di ogni filtro, di far coincidere la Sonečka da lei ricostruita (il personaggio), con quella vera (l’attrice), così da rendere assolutamente autentici tanto lei quanto il racconto. Come il personaggio di una pièce Sonečka torna a vivere, e vivrà per sempre.
Questa opera può definirsi, di fatto, memorialistica intessuta di grande poesia. Marina ricostruisce una storia personale, un racconto del ricordo di Sonečka, filtrato attraverso la mutata sensibilità verso il passato e l’immutato sentimento verso le persone che hanno accompagnato la sua vita. Cvetaeva è spesso apparsa, a molti, come una persona dura ed egoista. Le sue poesie e la sua prosa testimoniano il contrario: ella ha sempre conservato profondo affetto e gratitudine verso chi ha ricambiato positivamente i suoi sentimenti. L’autrice controlla perfettamente la struttura del racconto, nonostante la sfilata di anime e di riflessioni che vi compaiono.
Per una donna che considerava la creazione poetica, nelle parole di Lev Losev, “ontologica, equivalente alla vita stessa” (pp. 143-144), l’ibridazione tra due espressioni della scrittura creativa che, di base, hanno fini molto diversi, nonché l’importanza del tema trattato, hanno avuto quale naturale conseguenza una evoluzione del linguaggio e dello stile. Il testo è enormemente influenzato dalla lirica; non solo, come si sarebbe portati a credere, per i continui rimandi alle poesie (anche inedite) della stessa Cvetaeva, come a quelle di Puškin, di Blok, di Goethe, di Scheffel ecc., ma “per il ritmo, le figure del linguaggio, le subitanee vampe provocate dallo scontro tra parole di suono affine, l’ipertrofia dei trattini che scandiscono il tempo della mente e del cuore, la naturalezza con cui il sublime si coniuga al quotidiano”, come precisa Vitale nella nota che chiude il testo (p. 286), che lo rendono a tutti gli effetti un connubio di prosa e poesia. Elementi che ne fanno un testo impegnativo – il sublime in prosa. Impegnativo, anche date le condizioni in cui è stato scritto: l’estate del 1937, a Lacanau-Océan, “una breve pausa di serenità nella vita di una famiglia ormai divisa, dove i rapporti erano da tempo tesi e non si discuteva altro che dell’opportunità del ritorno nella Russia sovietica” (p. 285). Ritorno che avvenne l’anno seguente: un’altra scelta rovinosa. Marina farà esaurire il poco calore che ancora le restava la mattina di domenica 31 agosto 1941.
Bibliografia:
Anton Čechov, Ol´ga Knipper, «Lo scrittore Čechov non ha dimenticato l’attrice Knipper». Lettere 1902-1904, Genova, Il Melangolo, 1989.
Fausto Malcovati, Stanislavskij. Vita, opere, metodo, Roma-Bari, Laterza, 2011.
Lev Losev, Marina Cvetaeva, in Storia della letteratura russa. III. Il Novecento: 2. La rivoluzione e gli anni Venti, a cura di E. Ėtkind, G. Nivat, I. Serman, V. Strada, Torino, Einaudi, 1990, pp. 135-161.
Marina Cvetaeva, Sonečka, a cura di Serena Vitale, trad. it. Luciana Montagnani, Milano, Adelphi, 2019.
Serena Vitale, Storia di Sonečka, in Marina Cvetaeva, Sonečka, cit., pp. 267-287.
Viktoria Schweitzer, Marina Cvetaeva. I giorni e le opere, trad. it. Claudia Zonghetti, Milano, Mondadori, 2006.
Apparato iconografico:
Foto 1:
https://www.poesiarandagia.it/archivio-di-poesie/marina-cvetaeva/
Foto 2:
https://laurabzz.home.blog/2019/04/02/marina-cvetaeva-il-racconto-di-sonecka/
Foto 3: La foto è tratta dal volume di Viktoria Schweitzer, vedi Bibliografia.