Edith Bruck e il rifiuto dell’oblio. “Il pane perduto”

Marianna Kovacs

 

L’ultimo romanzo di Edith Bruck (Tiszakarád, 3 maggio 1931–), Il pane perduto, è stato pubblicato nel gennaio di quest’anno dalla casa editrice La nave di Teseo, ed è stato selezionato tra i dodici libri candidati alla LXXV edizione del Premio Strega 2021. È conosciuta come scrittrice, poetessa, regista e anche come traduttrice letteraria dall’ungherese. Nelle sue versioni si possono leggere in italiano le opere di Gyula Illyés, Attila József e Miklós Radnóti.

Link al libro:  http://www.lanavediteseo.eu/item/il-pane-perduto/

Il pane perduto di Bruck Edith - Bookdealer | I tuoi librai a domicilio


Nascere per caso
nascere donna
nascere povera
nascere ebrea
è troppo
in una sola vita

Edith Bruck, Versi vissuti – Poesie (1975-1990)

L’autrice di queste righe è una donna straordinaria, mitica, qualcuno la definisce la Anne Frank sopravvissuta. Si è posta come obiettivo nella vita quello di testimoniare in modo autobiografico almeno una parte degli orrori che ha sperimentato nella tempesta della storia del Novecento, di raccontare ciò che non si può immaginare, di raccontare anche a coloro che rifiutano di crederci. Edith Bruck lo fa attraverso i suoi libri, ma anche portando la sua esperienza ovunque trovi orecchie che la ascoltino. L’Ateneo di Padova l’ha ospitata in varie occasioni, l’ultima nel 2019. Il libro d’esordio che tratta la Shoah è stato pubblicato nel 1959 con il titolo Chi ti ama così. Da allora ha presentato molti altri testi e poesie, consapevole che con il passare del tempo i testimoni diretti dei campi di concentramento non ci saranno più ed il rischio di dimenticare o di sminuire i crimini è alto.

Tanto tanto tempo fa c’era una bambina che, al sole della primavera, con le sue treccine bionde sballonzolanti correva scalza nella polvere tiepida. Nella viuzza del villaggio dove abitava, che si chiamava Sei Case, c’era chi la salutava e chi no.” (p.11)

Già nelle prime righe del romanzo viene gettata un’ombra sulla quotidianità della bambina di nome Ditke, vezzeggiativo di Edith, che è la voce narrante. Tra gli amici c’è chi comincia a non salutarla, c’è chi aizza il cane contro di lei quando passa, c’è chi comincia a usare il gesto “Heil Hitler” quando incontra degli ebrei per strada. Insomma, qualcosa di spiacevole aleggia nell’aria, gli ebrei adulti percepiscono qualcosa di simile alla calma prima della tempesta. Corre l’anno 1944, in Ungheria ci sono già da tempo le leggi antiebraiche, ma nelle campagne lontane da Budapest, in mezzo a gente semianalfabeta, non vengono applicate alla lettera. Ditke, nonostante le sue origini, riesce ancora ad essere la prima della classe, l’alunna più brava e meritevole” (p.13) della maestra.

 

La narrazione inizia con la formula di una favola, come se la vita di Ditke fosse veramente immersa in un mondo incantato. Cosa può desiderare una bambina di dodici anni felice, spensierata, brava a scuola e amata da tutti? La famiglia è povera, in condizioni sempre più difficili, è vero, ma qualcuno tra amici e vicini è sempre pronto a dare una mano. Un po’ di farina arriva così nella casa di Ditke e, passata la Pasqua ebraica, la mamma si mette subito a impastare le pagnotte. Prima di poterle infornare però irrompono i gendarmi, il pane va perduto, la farina, la fatica, tutto invano. La deportazione, l’imprigionamento, le umiliazioni, i maltrattamenti vengono raccontanti in modo preciso, pacato, non si riceve nessun sentimento di odio nei confronti dei carnefici. È un aspetto che è percepibile anche in Imre Kertész, che in Essere senza destino (1999) descrive con sorprendente obiettività la vita nei campi. In entrambi i romanzi ci sono due bambini, Ditke tredicenne e Gyuri Köves quattordicenne, che non hanno idea di cosa stia succedendo attorno a loro, ma non lo capiscono nemmeno gli adulti. La mamma di Ditke continua a dispiacersi per il pane perduto, mentre Gyuri Köves si preoccupa per la matrigna che non lo vedrà tornare a casa. L’attenzione è ferma sul quotidiano e non viene proiettata sull’imminente deportazione. Non si ha la consapevolezza di andare incontro alla sofferenza e alla morte a causa di ideologie che nessuno ha potuto o voluto contrastare, combattere e annientare sul nascere. Sarà la fortuna a determinare chi sopravvivrà e chi no. La fortuna e, forse, un pizzico di forza interiore e tenacia, la voglia di credere che anche nelle pagine più nefaste e buie della storia ci sia un lumicino di speranza, che si incarna in quella guardia che getta addosso a Ditke la sua gavetta con l’ordine di lavarla e la bambina dentro ci trova un po’ di marmellata. Lei li chiama miracoli, e così sperimenta altri miracoli, come il cuoco che le chiede qual sia il suo nome e le porge un pettinino per i capelli che le stanno ricrescendo. Riesce a trarre forza da un guanto bucato e riesce a credere che forse l’umanità non è del tutto perduta. Lo stesso messaggio è presente, anche se espresso con strumenti artistici diversi, in Imre Kertész che fa pronunciare a Gyuri le seguenti parole:non c’è esperienza per quanto importante, non c’è rassegnazione per quanto assoluta, non c’è saggezza per quanto profonda che ci possa impedire di concedere un’ultima possibilità alla fortuna – premesso che si presenti l’occasione, è ovvio.” (p.155)

Kertész la chiama fortuna, Edith Bruck la chiama miracolo, ma in entrambi i casi si tratta di speranza a cui i protagonisti riescono ad appigliarsi per potere così sopravvivere.

Qui la storia potrebbe concludersi perché il mondo finalmente si è ribellato e sono stati liberati i prigionieri superstiti dei campi di concentramento. I sopravvissuti ora possono sperare a pieno diritto. Con Judit non osavamo ancora parlare del futuro, pur essendo piene di futuro.” (p.60) Ma un’altra doccia fredda arriva nel momento del ritorno delle vittime. L’accoglienza non è quella che ci si aspettava: La gente era respingente ovunque, frettolosa, impaurita, sospettosa, snervata e desiderosa di liberarsi di noi al più presto.” (p.63) Già, la visione di queste persone scuoteva forse fin troppo le coscienze. Nemmeno i parenti le accoglievano volentieri. Tra me e Judit scambiammo un dialogo muto come per dire che tra noi e chi non aveva vissuto le nostre esperienze s’era aperto un abisso, che noi eravamo diverse, di un’altra specie.” (p.67)

È la stessa esperienza che vive anche Gyuri Köves di Kertész quando, tornando dai campi di concentramento, sale sul tram a Budapest e il controllore gli chiede il biglietto. È ovvio che il ragazzo non ha nulla, è sofferente, ma la gente preferisce voltare la testa dall’altra parte. Quando poi torna a casa, i vicini gli consigliano di dimenticare gli orrori per poter continuare a vivere.

Ma davvero è possibile dimenticare? Soprattutto, si deve dimenticare? Edith Bruck da più di sessant’anni lotta con gli strumenti a sua disposizione affinché queste pagine del Novecento non cadano nell’oblio.

Ditke nel romanzo non vede futuro nel suo paese e decide di emigrare in Israele, ma nemmeno lì riesce a mettere radici. Scappa ancora e non si arrende. Troverà quella che chiama casa in Italia, dove adotterà anche una nuova lingua per raccontare. Ci vorrebbero parole nuove, anche per raccontare Auschwitz, una lingua nuova, una lingua che ferisce meno della mia, natia.” (p.106)

Il dolore si manifesta anche attraverso la lingua, ma in misura diversa. Edith Bruck racconta che per lei pronunciare la parola kenyér in ungherese suscita un’emozione completamente diversa rispetto alla parola pane in italiano. Se lo dice in ungherese ripensa a sua madre, ripensa alla povertà, al pane perduto in quel lontano giorno. Attraverso un complicato processo linguistico e, probabilmente, anche psicologico è riuscita a raccontare il proprio dolore e, in un certo senso, a liberarsene usando una lingua straniera, custodendone al tempo stesso il nucleo nella sua forma integra.

Sia in questo romanzo sia in quelli precedenti, la scrittrice non si limita a raccontare l’esperienza dell’Olocausto, ma descrive anche la vita antecedente alla guerra, quella di una famiglia ebrea in miseria, e le condizioni successive alla liberazione.

Il libro si conclude con una toccante lettera a Dio. La scrittrice gli chiede di non toglierle la memoria perché “ […] ho ancora da illuminare qualche coscienza giovane nelle scuole e nelle aule universitarie dove in veste di testimone racconto la mia esperienza da una vita. Dove le domande più frequenti sono tre: se credo in Te, se perdono il Male e se odio i miei aguzzini. […] Solo alla terza ho una risposta certa: pietà sì, verso chiunque, odio mai, per cui sono salva, orfana, libera e per questo Ti ringrazio, nella Bibbia Hashem, nella preghiera Adonai, nel quotidiano Dio.” (p.123)

C’è bisogno di persone come Edith Bruck come dell’aria che si respira perché, come Kertész afferma nel suo discorso per il premio Nobel: l’Olocausto nei miei scritti non è mai riuscito a comparire nella forma del passato.”

Bibliografia e sitografia:

Edith Bruck, Il pane perduto, Milano, La nave di Teseo, 2021.

Imre Kertész, A stockholmi beszéd, Budapest, Magvető, 2002.

Imre Kertész, Essere senza destino, Milano, Feltrinelli, 2004.

https://letturesparse.blogspot.com/2013/01/discorso-per-il-nobel-di-di-imre-kertesz.html

Apparato iconografico:

https://www.ilmessaggero.it/spettacoli/eventi/edith_bruck_auschwitz_laurea_honoris_causa-4818629.html

Immmagine 1:  https://premiostrega.it/PS/il-pane-perduto-2/

Immagine 2: https://www.artribune.com/report/2014/05/il-grande-nord-a-rovigo-in-una-grande-mostra/attachment/021-casorati-le-due-bambine/