Federica Florio
Edito da Stilo Editrice nel 2020 grazie alla traduzione di Ljiljana Banjanin, Sabo si è fermato è il primo romanzo di Oto Horvat. L’opera, pubblicata a Novi Sad nel 2014, è stata definita da Miljenko Jergović come “il più bel romanzo” della sua generazione, e questo dovrebbe già far riflettere sulla bravura dell’autore serbo.
Libro: https://www.stiloeditrice.it/scheda-libro/oto-horvat/sabo-si-e-fermato-9788864792378-178.html
Nato a Novi Sad (Vojvodina) nel 1967, Horvat è narratore, poeta e traduttore in serbo dal tedesco, dall’ungherese e dall’italiano. Ha esordito giovanissimo come poeta: i suoi componimenti sono stati pubblicati in varie antologie e riviste letterarie, che gli hanno permesso di emergere a livello internazionale. In particolare, con la silloge Kao Celanovi ljubavnici (“Come gli amanti di Celan”) del 2016 si è aggiudicato il premio letterario Karoly Szirmai per gli scrittori di lingua serba e ungherese della Vojvodina. I risultati più importanti, tuttavia, sono quelli dovuti proprio a Sabo si è fermato (Sabo je stao, in lingua originale), che ha vinto il premio Biljana Javonović della Società letteraria serba e il premio croato Mirko Kovač come migliore romanzo dell’anno.
Sarebbe davvero riduttivo considerare Sabo si è fermato esclusivamente come un breve romanzo d’amore, anche se tutto è tenuto insieme dal filo sentimentale che lega il protagonista Saša Sabo alla moglie defunta, a cui si riferisce con l’iniziale simbolica A. L’opera, per utilizzare una frase dell’autore stesso, è “un pasticcio metafisico condito di cannella” (p. 130): l’io narrante si ferma, interrompe per un attimo l’inarrestabile scorrere degli eventi della sua vita e si consente di esplorare, con calma e ostinazione, i ricordi più profondi della sua esistenza.
La storia si presenta come una sequenza di memorie cronologicamente disordinate, ma di cui non è difficile ristabilirne l’ordine. Il protagonista descrive una moltitudine di micro-episodi, all’apparenza gli uni separati dagli altri, che riprendono la vita di Sabo e A. negli anni Novanta, ripercorrendo gli spostamenti della coppia in Serbia, Ungheria, Germania e Italia. La scrittura è ciò che lega gli eventi gli uni agli altri, dando coesione al testo. Essa è una vera e propria confessione,
“[…] un atto estremamente intimo. Un’intimità che si nutre di solitudine e dell’isolamento delle persone, potenziali lettori ai quali in seguito offriremo in pasto perlopiù in forma di libro e pornograficamente denudata la nostra propria anima, i nostri pensieri più celati, i sentimenti e le esperienze.” (p. 30)
Il protagonista intraprende un viaggio, pesante e complesso, verso l’introspezione: egli cammina lungo il muro sottile che separa presente e passato, realtà e ricordo, incrociando l’arte della scrittura e della fotografia. In altre parole, si tratta di una sorta di seduta psicoanalitica, a partire dal primo capitolo, che inizia con l’esortazione: “Inizi, signor Sabo!” (p. 17), fino all’ultima pagina, che termina con l’angusta domanda: “È tutto per oggi, signor Sabo?” (p. 146). Sono due frasi che si uniscono in un circolo vizioso, sottolineando la ripetitività e l’oblio che caratterizzano l’introspezione stessa.
Il filo conduttore che lega l’inizio e la fine del libro è visibile anche nella descrizione della vecchia e pesante valigia che Sabo porta con sé; fin dalle prime righe, infatti, il lettore comprende che il protagonista ha intenzione di lasciare la città dove ha vissuto con la moglie. Il medesimo bagaglio lo troviamo anche nell’ultimo capitolo dell’opera, come a sottolineare il peso gravoso dell’esistenza che l’io narrante si trascina dietro. Una valigia che può nascondere tanti significati: è il simbolo del suo passato? O forse indica la volontà di cambiare il proprio destino, partendo verso una meta sconosciuta? A questo proposito, Sabo si è fermato potrebbe quasi essere considerato come un racconto di viaggio; infatti, attraverso la macchina del tempo dei ricordi, il protagonista prende per mano il lettore e lo conduce in un viaggio attraverso l’Europa, visitando Novi Sad, Budapest, Erlangen, Berlino e Firenze.
È lodevole, inoltre, il carattere icastico delle descrizioni; Horvat riesce a rappresentare i luoghi in modo nitido e colorato, delineandone le atmosfere con brevi e intense pennellate. Il narratore scannerizza, tramite l’uso di tutti e cinque i sensi, ciò che lo circonda, focalizzandosi sui particolari nel tentativo di rimanere ancora aggrappato alla realtà, o forse per perdersi del tutto. Il desiderio di concentrarsi sulle piccole cose, un fotogramma alla volta, potrebbe essere dettato dall’incapacità di riuscire a vedere il presente nel suo insieme. A questo proposito, nel romanzo è onnipresente la sensazione di essere intrappolati nei ricordi, imprigionati in una vecchia vita che si trasforma in un incubo grigio e monotono. Il senso di claustrofobia è così intenso che Sabo stesso si paragona a un calabrone che sbatte ripetutamente contro il vetro della finestra nel vano tentativo di recuperare la libertà:
“Il calabrone e il vetro della finestra. Anche questa è una frustrazione con la quale ho imparato a convivere in modo più o meno armonico. L’impressione che mi porto dietro da tempi immemorabili è imbattermi di continuo contro il vetro di una finestra che non mi permette di essere quello che realmente sono o non sono.” (pp. 60-61)
La frustrazione è senza dubbio dovuta alla percezione snaturata del tempo: presente e futuro cessano di esistere e vengono rimpiazzati dall’onnipresente passato, che priva Sabo di uno scopo o di una meta da raggiungere. Perfino il linguaggio stesso viene travolto dal grigiore del lutto:
“Con la morte di A. si è spento il linguaggio nella sua totalità. […] Si sono ristrette le possibilità reali che esistevano soltanto grazie alla lingua che le creava. È svanita la possibilità di usare il tempo grammaticale presente e futuro. In questo modo anche il passato è diventato definitivo e onnipresente. E soprattutto immutabile.” (p. 54)
Il passato viene trasformato dalla memoria in un tempio sacro, un luogo di culto dove potersi rifugiare quando il presente diventa insostenibile. Si converte in una sorta di paradiso perduto, fatto di nostalgia, desiderio e rimpianto; una gabbia di vetro, attraverso la quale Sabo riesce a vedere la donna amata, ma senza poterla raggiungere. Vi è, tuttavia, anche una flebile speranza, dettata dal condizionale: “Certo, esiste anche il condizionale, ma anch’esso si colloca nello spazio del passato e persino quando lo pronuncio al presente tende sempre all’indietro (o forse, comunque in avanti?) nel passato.” (p. 54)
È simile a uno specchietto per le allodole che, invece di liberare Sabo dalla prigione dei ricordi, lo tortura con ipotesi insensate, inapplicabili e amare: ciò che è accaduto si ripete all’infinito e nulla può essere cambiato.
Horvat non si limita ad analizzare solo il senso di abbandono e di perdita, ma si concentra anche sul desiderio di rincorrere se stesso, al fine di recuperare uno scopo che lo spinga a continuare a vivere. Importantissime, a tal proposito, le riflessioni sulla scrittura soggettiva intesa come terapia contro il dolore dell’anima. Sembra, infatti, che la scrittura sia necessaria per rivivere il dolore, o per mantenerlo a una certa intensità: “Come vorremmo che ci facesse male. Perché solo in quel caso ci sentiremmo meglio? Perché solo allora avremmo sopportato meglio il fatto di aver continuato a vivere?” (p. 87)
Sarebbe errato credere, tuttavia, che lo stile di Horvat sia cupo e drammatico. Nonostante siano presenti descrizioni emotivamente pesanti – soprattutto quelle riguardanti la malattia della moglie A. – non mancano toni più speranzosi. Egli riesce a mischiare leggerezza e dramma, evitando però situazioni tragicomiche. Uno stile che va a coronare, senza dubbio, ogni scelta narrativa dell’autore, regalando ai lettori un’esperienza logorante e corroborante al tempo stesso.
Apparato iconografico:
Immagine di copertina: https://traduki.eu/wp-content/uploads/2020/07/oto_horvat.jpg
Immagine 1: https://stiloeditrice.mediabiblos.it/copertine//stilo-editrice/sabo-si-e-fermato-178.jpg