Pilinszky János. L’uomo sospeso nell’assenza di Dio

Traduzione di Richárd Janczer

Pilinszky János (1921-1981) è stato forse il più importante poeta del secondo Novecento ungherese.

Nato e morto a Budapest, frequenta la facoltà di Filosofia all’università Pázmány Péter, dove segue i corsi di storia dell’arte, letteratura ungherese e italiana, non farà però in tempo a laurearsi a causa della chiamata alle armi nell’autunno ’44. Non parteciperà ad alcun scontro diretto ma verrà relegato in un campo di prigionia americano, esperienza che lo segnerà a vita e che diventerà l’elemento topico di molti dei suoi migliori componimenti, tra cui il celebre Apokrif (Apocrifo). Farà ritorno a Budapest solo nel novembre ’45.

Dopo alcune pubblicazioni su rivista nel periodo bellico, esce nel 1946 la sua prima raccolta: Trapéz és korlát (Trapezio e barriera), per cui riceve il premio Baumgarten l’anno successivo. Fino all’instaurazione del regime di Rákosi, fa parte dei redattori di “Újhold” (Novilunio), rivista che raccoglie l’eredità di “Nyugat” (Occidente) e le migliori firme emergenti del periodo (Örkény István, Szabó Magda, Nemes Nagy Ágnes, Weöres Sándor, Karinthy Ferenc, Hubay Miklós e altri).

Già dal suo esordio, Pilinszky affronta spesso nei suoi versi la solitudine dell’uomo nell’assenza di Dio, l’incapacità di emanciparsi dal dolore e la condizione degli ultimi. Quest’esplorazione sarà condotta con notevole austerità linguistica, spesso forzando al loro limite semantico lessemi di uso comune.

Non sorprende dunque che la sua poesia, con il suo esistenzialismo intriso di cattolicesimo, non trovi posto tra i rigidi dettami del realismo socialista, negli ultimi anni del regime Rákosi, dal 1951 al 1956, gli sarà infatti interdetta la pubblicazione. In questo periodo lavora per prestigiose case editrici quali Szépirodalmi könyvkiadó e Magvető kiadó, per approdare infine, nel 1957, alla rivista cattolica “Új ember” (Uomo nuovo), alla quale collaborerà fino alla morte. Nel 1955 contrae un matrimonio civile, di breve durata, con Márkus Anna.

È solo nel 1959 che vede la luce Harmadnapon (Il terzo giorno), seconda raccolta di poesie che consta di soli 33 componimenti. Nonostante viva in patria l’emarginazione dalla vita letteraria ufficiale, negli anni Sessanta viene invitato numerose volte all’estero e la sua opera inizia a essere tradotta, tanto che nel 1976 uscirà l’edizione inglese di una sua antologia, versificata dallo stesso Ted Hughes a partire dalla traduzione di János Csokits. Sono sempre più frequenti i soggiorni a Parigi, città dove conosce la slavista tedesca Jutta Scherrer, con cui avrà una relazione fino al 1976.

Il 1976 è anche l’anno in cui abbandona la poesia per la prosa. I motivi della decisione sono ancora oggetto d’indagine ma un ruolo certamente importante fu giocato dalla depressione, causata o aggravata dal ritrovamento del corpo della sorella, suicida l’anno precedente.

Al momento della rinuncia ormai Pilinszky è un poeta affermato e il suo posto nel canone letterario saldamente riconosciuto; l’attrito ideologico con i vari regimi socialisti non gli ha infatti impedito di entrare gradualmente ma definitivamente nel canone letterario. A testimonianza di questo, nel 1980, oltre a contrarre matrimonio (questa volta religioso) con Ingrid Ficheux, riceve il premio Kossuth, il più prestigioso riconoscimento culturale ungherese. Morirà d’infarto l’anno seguente.

Nemes Nagy Ágnes, brillante poetessa appartenente alla stessa stessa generazione, gli rende omaggio con queste parole (dal ritratto “Valaki más”, contenuto nella raccolta Az élők mértana):

“Egy dimenziót csatolt hozzá Pilinszky az életünkhöz (most már mindnyájunk életéhez, a költészet életéhez), meggazdagított a hiánnyal, elveszettséggel, az egzisztencia csontig, képletig letisztított ínségével. Költői hatalmának kivételes katarzisa ilyen ínségre boltozódott. Most volna jó benézni oda, ahova ő nyitott rést, benézni az előszoba bentebbi ajtaján, most volna jó oda, ahol a pusztulás úgy terül el, mint egy égbolt.”

Pilinszky ha allegato una nuova dimensione alla nostra vita (oggi ormai alla vita di ognuno di noi, alla vita della poesia stessa), ci ha arricchito con la mancanza, lo smarrimento, la miseria dell’esistenza ridotta all’osso, a formula. L’eccezionale catarsi della sua potenza poetica si è edificata su una simile miseria. Ora sarebbe il caso di gettare lo sguardo lì, dove ha aperto una fenditura, gettare lo sguardo nella porta più interna dell’anticamera, ora sarebbe il caso di gettarlo lì, dove lo sfacelo si estende come un firmamento.”

 

PDF della traduzione scaricabile: Traduzione_Pilinszky


Halak a hálóban

Csillaghálóban hányódunk
partravont halak,
szánk a semmiségbe tátog,
száraz űrt harap.
Suttogón hiába hív az
elveszett elem,
szúró kövek, kavicsok közt
fuldokolva kell
egymás ellen élnünk-halnunk!
Szívünk megremeg.
Vergődésünk testvérünket
sebzi, fojtja meg.
Egymást túlkiáltó szónkra
visszhang sem felel;
öldökölnünk és csatáznunk
nincs miért, de kell.
Bűnhődünk, de bűnhődésünk
mégse büntetés,
nem válthat ki poklainkból
semmi szenvedés.
Roppant hálóban hányódunk
s éjfélkor talán
étek leszünk egy hatalmas
halász asztalán.

1942

Pesci nella rete

Ci dibattiamo nella rete stellare
pesci spiaggiati,
boccheggiamo nel nulla,
le nostre bocche mordono spazio secco.
Chiama invano, con un sussurro,
l’elemento smarrito,
tra pietre affilate e sassi
è necessario soffocando
vivere-morire l’uno contro l’altro!
Il cuore rabbrividisce.
Il nostro dibatterci ferisce, soffoca
i nostri fratelli.
Alla parola urlata che copre la parola altrui
nemmeno l’eco risponde;
non abbiamo motivo di ammazzarci e lottare
eppure è necessario.
Ci castighiamo, ma il nostro castigarci
non è castigo,
non può redimerci dai nostri inferni
alcuna sofferenza.
Ci dibattiamo in una rete immensa
e a mezzanotte, forse,
saremo vivanda sull’enorme
tavola imbandita di un pescatore.

“A mélypont ünnepélye”, una delle “poesie murali” di Leiden (Olanda)

A mélypont ünnepélye

Az ólak véres melegében
ki mer olvasni?
És ki mer
a lemenő nap szálkamezejében,
az ég dagálya és
a föld apálya idején
útrakelni, akárhová?

Ki mer
csukott szemmel megállani
ama mélyponton,
ott, ahol
mindíg akad egy utolsó legyintés,
háztető,
gyönyörü arc, vagy akár
egyetlen kéz, fejbólintás, kézmozdulat?

Ki tud
nyugodt szívvel belesimúlni
az álomba, mely túlcsap a gyerekkor
keservein s a tengert
marék vízként arcához emeli?

1971

Cerimonia del fondale

Nel caldo sanguinoso dei porcili
chi osa leggere?
E chi osa,
al calar del sole tra campi di schegge,
nel flusso del cielo e
al tempo del riflusso della terra,
incamminarsi verso una qualunque meta?

Chi osa
con gli occhi chiusi arenarsi
in quel fondale,
lì, dove
capita sempre un ultimo cenno,
tetto di una casa,
volto meraviglioso, o almeno
il gesto di una mano, un cenno del capo,
il muoversi di una mano?

Chi sa
a cuore sereno adagiarsi
nel sogno, il quale travolge le amarezze
dell’infanzia e solleva
il mare come una manciata d’acqua al viso?


Ravensbrücki passió

Kilép a többiek közűl,
megáll a kockacsendben,
mint vetitett kép hunyorog
rabruha és fegyencfej.

Félelmetesen maga van,
a pórusait látni,
mindene olyan óriás,
mindene oly parányi.

És nincs tovább. A többi már,
a többi annyi volt csak,
elfelejtett kiáltani
mielőtt földre roskadt.

1959

Passione di Ravensbrück

Emerge dal resto
si ferma nel silenzio quadrato,
come immagine proiettata sbatte le palpebre
vestiti da prigioniero e testa di carcerato.

È spaventosamente a sé,
gli sono visibili i pori,
tutto di lui è così gigante,
tutto di lui è sì minuto.

E non c’è più oltre. Il resto ormai,
il resto era soltanto quello,
si dimenticò di gridare
prima di crollare a terra.


Mielőtt

A jövőről nem sokat tudok,
de a végítéletet magam előtt látom.
Az a nap, az az óra, mezítelenségünk
fölmagasztalása lesz.

A sokaságban senki se keresi egymást.
Az Atya, mint egy tüskét, visszaveszi
a keresztet, s az angyalok, a mennyek
állatai, fölütik a világ utolsó lapját.

Akkor azt mondjuk: szeretlek. Azt mondjuk:
nagyon szeretlek. S a hirtelen támadt
tülekedésben sírásunk még egyszer fölszabadítja
a tengert, mielőtt asztalhoz ülnénk.

1971

Prima di

Del futuro non so molto,
ma il giudizio universale lo vedo innanzi a me.
Quel giorno, quell’ora, sarà la glorificazione
della nostra nudità.

Nella moltitudine nessun reciproco cercarsi.
Il Padre, come una spina, si riprende
la croce, e gli angeli, gli animali
del paradiso, scoprono del mondo l’ultima pagina.

Allora diciamo: ti amo. Diciamo:
ti amo tanto. E nella mischia
sorta all’improvviso, il nostro pianto ancora una volta affranca
il mare, prima di sederci a tavola.


“In memoriam F. M. Dosztojevszkij”, letta da Pilinszky: https://www.youtube.com/watch?v=qPrP08Si-XA

In memoriam F. M. Dosztojevszkij

Hajoljon le. (Földig hajol.)
Álljon föl. (Fölemelkedik.)
Vegye le az ingét, gatyáját.
(Mindkettőt leveszi.)
Nézzen szembe.
(Elfordúl. Szembenéz.)
Öltözzön föl.
(Fölöltözik.)

1973

In memoriam F. M. Dostoevskij

Si chini. (Si china a terra.)
Si alzi. (Si solleva.)
Si tolga la camicia, i pantaloni.
(Li toglie entrambi.)
Mi guardi negli occhi.
(Si volta. Guarda negli occhi.)
Si rivesta.
(Si riveste.)

 

Bibliografia:

Pilinszky János, Összes versei, Budapest, Osiris kiadó, 2003.

Sitografia:

https://pim.hu/hu/dia/dia-tagjai/pilinszky-janos#eletrajz

https://reader.dia.hu/document/Nemes_Nagy_Agnes-Az_elok_mertana-2577

Apparato iconografico:

Immagine in evidenza: https://contextus.hu/wp-content/uploads/2019/11/pilinszky-j%C3%A1nos4.jpg

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