Sara Deon
“Nel suo inferno Dante non le vide, scene come queste.”
(L’inferno di Treblinka, p. 62)
Corre l’anno 1944. La guerra imperversa ancora in Europa, ma nella macchina nazista si fanno sempre più evidenti ed esasperanti le sconfitte. A gennaio avviene lo sbarco di un contingente degli Alleati ad Anzio. A marzo ha luogo l’Eccidio delle Fosse Ardeatine, ricordato ancora oggi come uno dei più brutali massacri perpetrati dalla follia nazista. Nei primi di giugno, gli Alleati sbarcano in Normandia. A delineare in primis la sempre più evidente caduta libera dell’hitlerismo è stata la precedente sconfitta a Stalingrado nel 1943, considerato punto di svolta cruciale del conflitto. In quanto città simbolo del regime sovietico, Hitler diede l’ordine di raderla al suolo: tuttavia, non solo Stalingrado resistette eroicamente all’assedio, dall’agosto del ’42 fino al febbraio del ’43, ma è proprio da questa vittoria sovietica che l’esercito tedesco non riuscì più a riprendersi sul fronte orientale. Corre ancora l’anno 1944, quando nei primi giorni di settembre il giornalista e scrittore sovietico Vasilij Grossman, già cronachista sul fronte stalingradese, entra con l’esercito in ciò che restava del campo di sterminio di Treblinka.
Osservando gli stessi pini e lo stesso cielo su cui hanno posato lo sguardo migliaia, milioni di ebrei, nei tredici mesi in cui il campo fu attivo ogni giorno, Vasilij Grossman inizia a elaborare il primo reportage sui campi di sterminio nazisti: L’inferno di Treblinka, uscito nel novembre dello stesso anno per la rivista “Znamja” (Bandiera). Due anni dopo, il testo di Grossman viene pubblicato in un’edizione tedesca e distribuito al collegio d’accusa in occasione del processo di Norimberga, come prova dei crimini nazisti.
L’antisemitismo e la sua concretizzazione nel Novecento, dalle leggi razziali fino alla soluzione finale, costituisce uno dei temi centrali del corpus di Grossman. Nato il 12 dicembre del 1905 in una famiglia di origine ebraica a Berdyčiv, considerata la capitale ucraina dell’ebraismo, cresce senza curarsi granché della sua appartenenza al credo ebraico. Abbandonata la carriera di ingegnere minerario, si pone al seguito dell’Armata Rossa come corrispondente di guerra per il periodico “Krasnaja Zvezda” (La Stella Rossa). Tra il ’41 e il ’45 trascorre più di mille giorni al fronte, probabilmente più di qualsiasi altro corrispondente di guerra fino ad allora. Dopo essere stato sulla linea del fronte a Stalingrado e avere assistito alla battaglia di Kursk, inizia ad attraversare l’Ucraina. Nel ’44 raggiunge Berdyčiv, sua città natale, nella speranza di potersi ricongiungere con la madre. Tre anni prima, la città era caduta sotto l’occupazione nazista, e la madre era stata una delle numerose vittime del secondo rastrellamento del ghetto di Berdyčiv. Grossman non ne aveva la certezza, ma la conferma arriva col suo ritorno a casa quell’anno, chiedendo informazioni su quel massacro avvenuto nel settembre del ’41. Il venire a conoscenza del tragico destino della madre e di quasi trentamila ebrei, i cui corpi furono gettati nelle fosse comuni, s’intreccia con la scoperta della diffusa collaborazione della popolazione locale al massacro nazista.
Sono queste due le tappe fondamentali in cui Grossman si ritrova a confrontarsi con l’identità ebraica: Berdyčiv prima, e Treblinka poco dopo. È l’essere stato testimone della persecuzione e sofferenza del popolo ebraico, il suo popolo, a ricondurlo alle radici ebraiche. Per Vasilij Grossman questa epifania si traduce in una duplice tragedia: quella in quanto russo, che ha creduto nel comunismo e negli ideali di libertà per tutti i popoli; e quella da ebreo, che a lungo aveva ignorato le sue origini finché, confrontandosi con lo sterminio di Berdyčiv, non ha più potuto esserne indifferente.
Dopo Berdyčiv in Ucraina, Grossman arriva in Polonia con un contingente dell’esercito sovietico. Alla fine dell’estate arriva a Treblinka, che fino al ’43 era stato, insieme a Bełżec e Sobibór, uno dei principali campi di sterminio nazisti.
Il campo era stato raso al suolo dai tedeschi tredici mesi prima del loro arrivo nel ’44, nella speranza che versasse nell’oblio della Storia. Tuttavia, nel suo reportage, Vasilij Grossman ricostruisce Treblinka: dalle sue fondamenta agli iter meticolosamente osservati da guardie e prigionieri. La ricostruzione del campo e della sua organizzazione è frutto delle numerose testimonianze raccolte dall’autore grazie a contadini, i pochi sopravvissuti e persino alcune guardie, lasciando quindi parlare i luoghi e gli individui coinvolti “nella principale fabbrica della morte delle SS, degna copia di Auschwitz, che surclassò Sobibór, Majdanek e Bełżec”. Allora è attraverso queste testimonianze che Grossman, come Dante, inizia la sua catabasi: girone dopo girone nell’inferno di Treblinka, ricostruendo passo dopo passo la prassi a cui erano soggetti i deportati: dall’arrivo in treno alla stazione di Ober-Majdan fino alle camere a gas.
Treblinka era un lager diviso in due campi: il I era affollato da prigionieri di varie nazionalità ma soprattutto polacchi, spesso lì per condanne brevi, anche dai quattro ai sei mesi. L’accusa più frequente era quella di avere contravvenuto alle leggi del Governatorato Generale. Treblinka I fu attiva dall’autunno del ’41 fino al 23 luglio del ’44: fu rasa al suolo quando in lontananza già si poteva sentire lo sferragliare dei carri armati sovietici. A tre chilometri dal campo I, a partire dal maggio del ’42, i tedeschi iniziarono a costruire un altro lager, questa volta per gli ebrei e pensato per lo sterminio: Treblinka II. Edificato per volere di Himmler, l’esistenza del campo doveva restare segreta, nemmeno gli aerei tedeschi avevano il permesso di volare sopra quella zona. Niente e nessuno doveva restare in vita, non potevano esserci essere testimoni nè sopravvissuti.
“Così viveva Treblinka, una sorta di Majdanek su scala ridotta, e si poteva pensare che al mondo non ci fosse nulla di più orrendo. La popolazione del campo n. 1, invece, sapeva bene che qualcosa di più tremendo, di cento volte più orrendo c’era eccome. A tre chilometri dal campo di lavoro, nel maggio del 1942, i tedeschi iniziarono a costruire un lager per gli ebrei, un patibolo.” (p. 16)
Grossman era prima di tutto un autore sovietico: non sorprende leggere, dunque, che a impedire a Himmler di mantenere il segreto su Treblinka sia stata proprio l’Armata Rossa, volgendo con questo commento la sua ammirazione agli eroi che combatterono a Stalingrado, resistendo all’assedio contro quei tedeschi che avevano già dato il via alla soluzione finale.
Girone dopo girone, Grossman ricostruisce la catena di montaggio dello sterminio e gli inganni che avevano luogo già nel momento della partenza: Treblinka, infatti, si trovava al crocevia tra la Polonia, la Bielorussia, la Germania, l’Austria, la Cecoslovacchia, la Bulgaria e la Bessarabia. I passeggeri provenienti dalla Polonia erano convinti di essere diretti in Ucraina, dove avrebbero zappato la terra; nella primavera del ’42 la maggiore parte della popolazione ebraica nei territori polacchi era già stata chiusa nei ghetti. Dai territori più occidentali la situazione era differente: nessuno aveva mai sentito parlare di Treblinka, e questo ha permesso ai tedeschi di tessere uno dei loro inganni più crudeli: i deportati da questi territori, infatti, non arrivavano a Treblinka in vagoni stipati, senza cibo o acqua, ma in vagoni con letti e carrozze ristorante; a volte si dovevano anche pagare il viaggio. Arrivati alla falsa stazione di Ober-Majdan (il nome in codice di Treblinka), i passeggeri assistevano all’ultima grande menzogna: nella banchina c’era una biglietteria, e diversi cartelli che indicavano le località vicine; c’era persino un’orchestra che suonava per accoglierli. Mentre venivano radunati a migliaia nella banchina, famiglie con i bambini in braccio e i bagagli pesanti in mano, anziani che facevano fatica a reggersi in piedi, iniziavano a mettere a fuoco alcuni elementi che destavano sospetto: c’erano cartelli per le diverse direzioni in treno, ma una sola rotaia; dispersi sul terreno ai loro piedi c’erano oggetti abbandonati, simili a quelli che anche loro avevano messo in valigia; la smorfia sorniona nelle labbra delle guardie tedesche.
Si stima che ogni giorno a Treblinka arrivassero ventimila persone. Il viaggio in treno era l’unica differenza tra gli ebrei provenienti dai territori più orientali e quelli provenienti dalle zone più occidentali: arrivati alla finta stazione di Ober-Majdan, erano tutti uguali. Scesi dai vagoni, le guardie urlavano ordini: lasciare i bagagli a terra, recarsi ai bagni con i documenti, i gioielli e un cambio indumenti. Perché la catena di montaggio continuasse a funzionare nei tempi previsti e con la meticolosità sovente attribuita al popolo germanico, il procedimento era sempre il medesimo: all’arrivo dei convogli a Treblinka, ai prigionieri erano già state negate la libertà e la propria patria, che anzi li aveva abbandonati e venduti alla stregua del bestiame; in quella banchina, immersi in un bosco lontano dalla civiltà, venivano loro strappati i bagagli, i vestiti, i documenti, le lettere e le foto di famiglia; prima di essere inviati nei bagni, venivano divisi: i mariti perdevano i figli, le mogli, le madri, e viceversa. Nudi, le donne con i capelli rasati e i bambini appresso, marciavano in direzione delle docce, ormai senza nome e senza storia, verso l’oblio – così volevano i tedeschi. Quando i corpi venivano gettati nelle fosse, e più tardi nei forni crematori, era già arrivato il nuovo convoglio alla stazione. Se il nazismo tentò di privare un intero popolo della sua umanità, Grossman – con una sensibilità che è manifestazione della sua identità e del tragico destino della madre – rivela la profonda umanità e dignità del suo popolo, anche di fronte alla morte, contrapponendolo alla bestialità delle guardie tedesche.
“Dopo aver tolto a quella gente la casa e la vita, l’hitlerismo avrebbe voluto cancellare anche i loro nomi dalla memoria del mondo. Ma tutte quelle persone – le madri che fecero scudo ai propri figli, i figli che asciugarono le lacrime dei padri, chi si batte col coltello in pugno, scagliò granate o morì in una notte di battaglia, o la ragazza nuda che come dea greca lotta da sola contro decine di nemici – tutti coloro che hanno lasciato questa vita conserveranno in eterno il migliore dei nomi, un nome che la banditaglia dei vari Hitler-Himmler non è riuscita a calpestare. Erano uomini. E nei loro epitaffi la storia scriverà: «Qui riposa un essere umano!»” (p. 45)
Dalla catabasi Grossman ritorna non cinico o pessimista, ma profondamente umano, perché è proprio l’umanità che mette sempre in primo piano e che funge da filo rosso di tutta la sua produzione, da L’inferno di Treblinka a Vita e Destino e Tutto scorre… Anche nella grande tragedia del Novecento, l’umanità e la libertà sopravvivono e non si spengono. Spinto dal dovere di raccontare la verità, sebbene tremenda, il monito di Vasilij Grossman è quello di conoscerla: è un vero dovere civile. La verità su Treblinka e l’orrore dell’Olocausto si evincono dalle descrizioni strazianti di Grossman, dalle numerose fotografie scattate dagli eserciti Alleati, ma lo scrittore sovietico la ritrova anche più tardi, nel marzo del 1955, contemplando il quadro di Raffaello La Madonna Sistina, che fu esposta a Mosca in una mostra memorabile prima di essere riconsegnata a Dresda. L’immagine della donna col bambino gli ricorda Treblinka, e le madri che stringevano a sé i figli nel percorso verso le camere a gas. Allora Grossman scrisse: “Non c’è mai stato un tempo duro come il nostro, eppure non abbiamo lasciato che morisse ciò che di umano c’è nell’uomo”, riflettendo su quel dipinto e sugli occhi della Madonna, che gli ricordavano quelli delle madri dei soldati mandati a morire al fronte, quelli della madre col cranio rasato di Treblinka, Auschwitz e Dachau e, forse, anche gli occhi di sua madre, uccisa dai nazisti in quel ’41 a Berdyčiv.
Bibliografia:
Vasilij Grossman, L’inferno di Treblinka, Milano, Adelphi, 2010
Vasilij Grossman, La Madonna a Treblinka, Milano, Medusa, 2007
Vasilij Grossman, Tutto scorre…, Milano, Adelphi, 2009
Vasilij Grossman, Vita e Destino, Milano, Adelphi, 2008
Apparato iconografico:
Immagine 1: https://www.holocaust.cz/en/history/concentration-camps-and-ghettos/treblinka-3/
Immagine 2: https://it.rbth.com/storia/79555-linferno-di-stalingrado-nelle-testimonianze
Immagine 3: http://www.pangea.news/raffaello-madonna-sistina/2