Imre Kertész e il destino negato

Marianna Kovács

In Diario completo 1943-1944 (2006) lo scrittore Sándor Márai parla di alcuni ragazzini che passano davanti alla sua finestra e che procedono verso quella fine che tutti conosciamo:

“Nulla aiuta: bisogna vivere tutto di persona, sul nostro corpo, nella realtà, per capire. Tutto ciò che abbiamo sentito sul destino degli ebrei polacchi, austriaci e tedeschi in questi anni era solo un’idea vaga. Ma quando ho visto per la prima volta, in piazza Vörösmarty a Budapest, come due soldati Gestapo conducevano un uomo verso il camion, ho capito la verità. E ora, quando davanti alla finestra passano questi uomini, donne e bambini, con la stella gialla […] ora finalmente capisco. Tutto questo deve essere visto, di persona […]. È una vergogna vivere. È una vergogna camminare al sole. È una vergogna vivere.”

Nel libro Essere senza destino Imre Kertész racconta la storia di uno di questi ragazzi. La trama è semplice, quasi banale. Il narratore protagonista, un ragazzo di quattordici anni, Gyuri Köves, vive con il padre e la matrigna a Budapest. Il padre, ebreo, è obbligato a partire per un campo di lavoro. Il ragazzo viene invece arruolato nella fabbrica della Shell, convertita in industria bellica. Un giorno, mentre si reca al lavoro, viene fatto scendere dall’autobus assieme ad altri ebrei e portato via. Si fermano prima a Auschwitz-Birkenau, dove Gyuri, dichiarando un’età maggiore, evita la camera a gas e, risultando abile al lavoro, prosegue per Buchenwald. Come tutti, anche Gyuri è sbalordito, non sa cosa stia succedendo attorno a lui.

“[…] quindi si rivolse subito ai gendarmi e con una voce che risuonò nell’intero piazzale ordinò di portare “tutta questa marmaglia ebrea” là, dove secondo lui doveva stare, ovvero nella stalla dei cavalli… Ad un tratto non sapevo più dove avevo la testa e ricordo solo che per tutto quel tempo mi veniva quasi da ridere, da un lato per lo stupore, l’imbarazzo e per l’impressione di trovarmi improvvisamente in una commedia dell’assurdo senza conoscere la parte che dovevo recitare…” (p. 51)

Gyuri finisce quindi ai lavori forzati, dove i prigionieri lavorano dalla mattina alla sera, patisce la fame come gli altri, si ammala gravemente e rischia di morire. Riesce miracolosamente a sopravvivere e a tornare a Budapest. Il padre è morto, nel loro appartamento vivono degli estranei. L’esperienza vissuta non si può dimenticare ed è difficile da gestire. Dopo la liberazione e il ritorno alla vita è quasi impossibile esternare come sia stato quell’anno terribile. È un’incomunicabilità che i sopravvissuti si porteranno dentro per sempre, e che li condurrà, vedi Primo Levi, anche a gesti estremi. Gyurka incontra sia quelli che non credono alle camere a gas che quelli che parlano di Auschwitz come se fosse stato “un errore, un incidente” (p. 217) che ha comportato qualche “atrocità”. (p. 208) Invece, è stata una scelta operata da uomini a cui nessuno è riuscito ad opporsi.

Il titolo originale del libro, Sorstalanság, sottintende una condizione in cui si è privati del destino. Il titolo ha varie interpretazioni. Destino potrebbe significare libertà di scelta. Essere senza destino significa quindi che si è privati di questa libertà di scelta o, come lo formula Gyuri Köves, che un destino lo dovette subire:

“Anch’io ho vissuto un destino dato. Non era il mio destino, eppure l’ho vissuto, e non capivo come potessero non concepire che io, adesso, volevo farne qualcosa di questo destino, che dovevo ancorarlo, agganciarlo a qualcosa, che non potevano dirmi semplicemente che era stato un errore, un incidente, una specie di sbandata o magari che non era affatto accaduto.” (p. 217)

Attraverso le parole di Gyuri, Kertész vuole raccontare l’inenarrabile e dimostrare che il suo destino in realtà era la perdita di destino.

Nelle parole del protagonista non ci sono frasi di disprezzo, odio, immagini crude o rabbia verso i carcerieri che hanno fatto vivere a lui e a tutti gli altri le pene dell’inferno. Si appella alla ragione e non ai sentimenti, non alla compassione, ma al distacco emotivo, all’obiettività. Non vuole farci piangere e straziarci, ma indurci a pensare, a sbalordirci e a sovrascrivere le convenzioni di lettura. Le opere che trattano l’olocausto e in generale i campi di lavoro forzato in qualche modo creano delle aspettative nel lettore che si immagina una narrativa autobiografica, che vuole vedere e percepire autenticità, realismo, e che per qualche oscuro motivo si vuole scandalizzare, indignare e piangere, vuole leggere brutalità e sofferenza. E poi arriva Kertész e ci spiazza completamente: Köves spiega tutto, ogni cosa per lui è ovvia, anzi naturale, non poteva essere altrimenti e accenna perfino alla felicità dei lager.

“[…] non esiste assurdità che non possa essere vissuta con naturalezza e sul mio cammino, lo so fin d’ora, la felicità mi aspetta come una trappola inevitabile. Perché persino là, accanto ai camini, nell’intervallo tra i tormenti, c’era qualcosa che assomigliava alla felicità. Tutti mi chiedono sempre dei mali, degli “orrori”: sebbene per me, forse, proprio questa sia l’esperienza più memorabile. Sì, è di questo, della felicità dei campi di concentramento che dovrei parlare loro, la prossima volta che me lo chiederanno. Sempre che me lo chiedano. E se io, a mia volta, non l’avrò dimenticata.” (p. 220)

È significativo il dialogo di Gyuri con il giornalista che vuole sapere dal ragazzo come abbia vissuto l’inferno di Auschwitz, visto che “le atrocità solo adesso vengono realmente alla luce” e il giornalista aggiunge che “al momento il mondo si trova sconcertato davanti all’interrogativo di come, in che modo, tutto questo sia potuto accadere.” (p. 208)

Quando il giornalista paragona il campo di concentramento all’inferno Gyuri non sa cosa rispondergli perché conosce il campo di concentramento, ma non l’inferno. Ma se proprio dovesse, lo immaginerebbe come un luogo dove non ci si annoia, mentre nel campo di concentramento questo era possibile, “persino ad Auschwitz – a certe condizioni, è ovvio.” (p. 209) Secondo il ragazzo il tempo ad Auschwitz aiuta:

[…] e ho cercato di spiegargli come è, arrivare in una stazione […], dove solo lentamente, col succedersi del tempo… si chiarisce tutto. Quando hai superato la prima tappa, quando sai di averla passata, già ti si presenta la prossima. Quando poi sei arrivato a conoscere tutto, allora hai anche compreso tutto. E mentre comprendi tutto, non rimani certo inattivo: già sistemi le cose nuove, vivi, agisci, ti muovi, soddisfi le continue richieste di ogni tappa successiva. Se però non ci fosse questa successione nel tempo e tutte queste conoscenze si riversassero su di noi in una sola occasione, forse la nostra testa non riuscirebbe a sopportarle, e nemmeno il nostro cuore – così cercavo di spiegargli.” (p. 209)

Felix Nussbaum, Autoritratto con Carta di Identità Ebraica, 1943

Risulta evidente il senso di devastazione che un’esperienza simile produce, irreversibilmente, nella persona che l’ha vissuta. Allo stesso tempo però è emblematico il distacco critico con cui essa stessa viene raccontata a chi, non avendola vissuta, non potrà mai capire davvero fino in fondo la realtà del mondo concentrazionario. Le continue parole “ovvio” e “naturale” del protagonista turbano il lettore e spiazzano anche il giornalista, suo interlocutore, che ad un certo punto scoppia:

“Giovanotto (…) perché dici sempre che è naturale, e soprattutto per cose che non lo sono affatto!» Gli dissi che nel campo di concentramento tutto questo era naturale. «Sì, certo», mi rispose, «là è vero, ma…» e qui si bloccò, esitò un attimo, «ma… voglio dire, il campo di concentramento in quanto tale non è naturale!» finalmente aveva quasi azzeccato la parola giusta e, infatti, io non replicai, perché un po’ alla volta cominciavo a capire: di certe cose non si può discutere con gli estranei, con gente ignara, in un certo senso con dei bambini, diciamo così.” (p. 208)

Attraverso le parole di Gyuri Köves, Kertész cerca di mostrare che non è possibile rendere l’esperienza dei lager con un linguaggio quotidiano a beneficio di coloro che non l’hanno vissuta, nemmeno se si tratta di ebrei scampati all’olocausto. Come lo scrittore ha più volte dichiarato, con questo romanzo ha voluto traumatizzare il lettore. L’originalità del libro si concretizza nel trasferimento della paura e dello spaesamento dal narratore protagonista al lettore che tanto li aveva reclamati.

Memoriale dell’Olocausto (2005), Gyula Pauer e Can Togay

Tuttavia, nulla è evidente, nulla è ovvio in questo romanzo, al contrario, ciò che il protagonista vive e come vive nascondono una strana dualità: il lettore conosce la storia dei campi di sterminio e la loro dimensione, ma il narratore no. In questo senso la storia non è quella dell’olocausto, ma piuttosto quella delle condizioni individuali e sociali che hanno permesso l’esistenza dell’olocausto e, perciò, il romanzo potrebbe anche essere considerato come una critica a tutte le dittature che opprimono i meccanismi sociali che si basano sul rispetto dell’individuo.

Kertész, rifiutando volontariamente la prospettiva multipla, lascia che sia il tono impassibile del narratore, adolescente e immaturo, a definire la narrazione:

“Qui, per esempio, eravamo in un “Vernichtungslager”, ossia un campo di sterminio, così venni a sapere. Una cosa completamente diversa, aggiunsero subito, era l’“Arbeitslager”, ovvero il campo di lavoro: in quest’ultimo la vita è facile, le condizioni e l’approvvigionamento alimentare sono incomparabilmente migliori come, del resto, è più che naturale visto il diverso scopo.” (p. 98)

Con ciò Kertész vuole colpire e scioccare il lettore, vuole indurlo a riempire il vuoto narrativo dello sdegno morale. Nel 2002 l’opera Essere senza destino vinse il premio Nobel per la letteratura. Tra le motivazioni possiamo leggere le seguenti parole: “Per una scrittura che sostiene la fragile esperienza dell’individuo contro la barbarica arbitrarietà della storia.

Nel corso della cerimonia di consegna del premio Nobel a Stoccolma, Kertész concluse così il suo discorso, a mo’ di monito:

“Perché, a mio avviso, quando affronto l’effetto traumatico di Auschwitz, vado a toccare le questioni di fondo della capacità di vita e di energia creativa dell’uomo di oggi; vale a dire che, nel momento in cui rifletto su Auschwitz, forse paradossalmente il mio pensiero verte, piuttosto che sul passato, sul futuro.” (traduzione di Beatrice Töttössy)

Paradossalmente, le opere di Kertész sono più conosciute e lette all’estero che in patria, in Ungheria. Tant’è che all’indomani della scomparsa dello scrittore una giornalista affermò che c’era una domanda che non le dava pace: “l’abbiamo amato abbastanza?

 

Bibliografia:

Imre Kertész, A stockholmi beszéd, Budapest, Magvető, 2002.

Imre Kertész, Essere senza destino, Milano, Feltrinelli, 2004.

Imre Kerész, Sorstalanság, Budapest, Magvető, 2009.

Sándor Márai, A teljes napló 1943-1944, Budapest, Helikon, 2006 (la traduzione di brani tratti da questo testo sono stati fatti per l’occasione da me M.K.)

 

Sitografia:

http://arkadiafolyoirat.hu/index.php/2-a-holokauszt-tema-az-irodalomban/112-a-holokauszt-mint-esztetikai-problema-kertesz-imre-sorstalansag-cimu-regenyenek-ertelmezesehez

https://epa.oszk.hu/00000/00012/00031/szirak.html

http://epa.niif.hu/00900/00997/00015/pdf/EPA00997_Letunk_2010_04_118-125.pdf

https://letturesparse.blogspot.com/2013/01/discorso-per-il-nobel-di-di-imre-kertesz.html

https://magyarnarancs.hu/konyv/nem_erzem_magam_teves_helyen_amikor_nemetorszagban_olvasok_fel_kertesz_imre_iro-63485

https://magyarnemzet.hu/archivum/vezercikk/egy-befejezett-eletmu-3958013/

 

Apparato iconografico:

Immagine 1: https://www.infogyor.hu/hirek/olvas/permalink:2017-11-08-172057

Immagine 2: https://konyvescsajszis.cafeblog.hu/2016/03/31/minden-mas-szervezes-kerdese-gyermekek-nelkul-halt-meg-kertesz-imre/

Immagine 3: https://www.agoravox.it/Un-opera-per-questi-giorni-Felix.html

Immagine 4:

https://hu.wikipedia.org/wiki/Cip%C5%91k_a_Duna-parton#/media/F%C3%A1jl:Shoes_Danube_Promenade_IMGP1297.jpg

2 Replies to “Imre Kertész e il destino negato”

  1. Non deve più succedere.
    Non bastano lacrime al mondo per piangere le vittime del olocausto ed è vero ,bisogna pensare al futuro perché questa parte della storia è un passato pieno di dolore.

  2. Tutti i libri di Imre Kertész propongono una visione delle cose che stimola la riflessione. Consiglio questo autore!

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