Martina Mecco
“Intrecciamo una corona
qualcuno ha viole di tuono
io un filo d’erba soltanto
colmo del linguaggio silenzioso
che qui fa vibrare l’aria.”
Lettera del 5/9/1962 di Nelly Sachs a Paul Celan
Riflettere sull’Olocausto non significa solo fare i conti con la sua tragicità, ma anche porsi degli interrogativi la cui risposta implica, talora, uno sconvolgimento dei valori tradizionali. Sono moltissimi i problemi che gli intellettuali si trovano costretti ad affrontare, da quelli di carattere politico, ad altri di carattere religioso, come la celebre questione di Hans Jonas sulla reale onnipotenza di Dio all’interno del suo scritto Il concetto di Dio dopo Auschwitz (1987), dove afferma:
“Dio permise che ciò accadesse. Ma quale Dio poteva permetterlo? […] per l’ebreo che vede nell’al di qua il luogo della creazione, della giustizia e della salvezza divina, Dio è in modo eminente il signore della storia, e quindi “Auschwitz”, per il credente, rimette in questione il concesso stesso di Dio che la tradizione ha tramandato Come ho cercato di dimostrare, Auschwitz rappresenta quindi per l’esperienza ebraica della storia una realtà assolutamente nuova a inedita, che non può essere in compresa e pensata con le categorie tradizionali.” (pp. 32-33)
Uno degli interrogativi più spinosi riguarda, invece, l’ambito estetico. I poeti si domandano se sia ancora possibile una forma poetica dopo un evento in grado di scuotere e inorridire tutto il continente europeo e, qualora la risposta sia affermativa, secondo quali modalità debba avvenire la sua realizzazione. In altre parole, è ancora possibile costruire un paradigma estetico? Come deve rapportarsi la poesia al passato recente? Rispondere a questi interrogativi implica, in parte, negare una tradizione ancorata nei secoli, svalutare artificiosamente tutti quei principi da sempre associati al fare poetico. Il verso, all’indomani del primo conflitto mondiale, si è indubbiamente dimostrato il luogo ideale in cui raccontare l’orrore delle carneficine e delle trincee, basti pensare a Grodek (1914), l’inno agli orrori della guerra di Georg Trakl o ai versi ungarettiani nel contesto italiano. Di fronte, invece, alle incalcolabili morti causate dall’ideologia antisemita nei confronti dei “Figli di Israele”, di cui non rimane altro che cenere, il poeta ammutolisce. Una delle risposte più famose a questa questione è quella data nel 1949 da Theodor Adorno all’interno del saggio Critica della cultura e della società:
“La critica della cultura si trova dinnanzi all’ultimo stadio della dialettica di culture e barbarie. Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie, e ciò avvelena la stessa consapevolezza perché è divenuto impossibile scrivere oggi poesie.” (p. 22)
Questa affermazione, particolarmente forte, viene in parte mitigata da Adorno in un altro passaggio, contenuto questa volta nel saggio Note per la letteratura (1958):
“Il dire che dopo Auschwitz non si possono più scrivere poesie non ha validità assoluta, è però certo che dopo Auschwitz, poiché esso è stato possibile e resta possibile per un tempo imprevedibile, non ci si può più immaginare un’arte serena. Essa degenera obiettivamente in cinismo, per quanto presa in prestito la bontà dell’umano comprendere.” (p. 334)
Senza entrare in quelle che sono le complesse dinamiche del pensiero adorniano, è necessario tenere ben presente questo timore condiviso dagli intellettuali tedeschi. Riguardo alla possibile fine della poesia, in realtà, si è discusso anche in molte altre occasioni, estranee al contesto dell’Olocausto; se ne discute tutt’ora e se ne discuteva già ai tempi di Baudelaire. Nonostante ciò, la poesia tedesca riesce a sopravvivere alle conseguenze e agli orrori perpetuati dal Nazionalsocialismo. Molte sono infatti le voci che emergono oppure riemergono dopo gli anni della censura nazista, tra cui il verso alienante di Gottfried Benn, le note spezzate dei flauti di ossa di Nelly Sachs o il grido del silenzio di Paul Celan.
Paul Celan (1920-1970) viene definito da Adorno come “il più importante lirico di lingua tedesca dopo Rilke” e rappresenta una delle voci ebraiche di lingua tedesca più conosciute, a causa della fortuna che ebbe la sua Todesfuge (“Fuga di morte”). Il vero nome del poeta è Paul Antschel, difatti “Celan” è solo uno dei tanti pseudonimi impiegati in occasione delle sue prime pubblicazioni bucarestine, che divenne poi non solo il prediletto dall’autore, ma anche quello con cui viene universalmente ricordato. Egli nasce in una cittadina nella regione storica della Bucovina che in tedesco viene chiamata Czernowitz, in ucraino Чернівцi e in romeno Cernăuți. Questa cittadina fece parte, nel corso della storia, di contesti politici diversi, essa viene infatti definita in termini di “piccola Vienna” o “piccola Gerusalemme dell’Est”, ma anche “piccola Babele”, a dimostrazione della grande varietà etnica e sociale presente, una policromia culturale poi sfigurata prima dal nazismo e successivamente dall’occupazione comunista. Celan nasce in questo crocevia di culture due anni dopo l’annessione alla Grande Romania (avvenuta nel 1918) e cresce all’interno della borghesia ebraica della città. Fin da giovane, grazie alla madre, si appassiona ai grandi classici tedeschi e i suoi primi tentativi poetici sono molto precoci. Gli studi di Celan si alternano tra la Romania e la Francia, sebbene presto inizino ad essere ostacolati a causa delle sue origini ebraiche e del suo impegno all’interno dei gruppi comunisti e delle iniziative antifasciste.
Durante il governo del conducător Ion Antonescu le pressioni nei confronti degli ebrei di Bucovina si fanno sempre più drammatiche ed è proprio nel giugno del 1942 che, durante lo shabbat, i genitori di Celan vengono deportati oltre il Dniestr, nel campo di sterminio di Michajlovka, dove perdono entrambi la vita. Egli stesso viene deportato poco dopo in Moldavia, dove rimane ai lavori forzati fino al febbraio del 1944. L’esperienza dell’Olocausto segna in modo indelebile la vita del poeta, caratterizzata dal senso di colpa e dalla necessità di trovare, all’interno del verso poetico, un veicolo attraverso cui rendere immortale il ricordo e il carattere doloroso delle persecuzioni.
Prima di stabilirsi definitivamente a Parigi, Celan vive a Bucarest e poi a Vienna, città in cui si sente soffocare. La sua vita è sempre stata contrassegnata da un sentimento di angoscia e dolore, lo ricorda infatti con queste parole Emil Cioran all’interno dei suoi Quaderni (1957-1972):
“Un uomo affascinante e impossibile, feroce, ma con accessi di mitezza, che amavo molto e che evitavo per paura di ferirlo, poiché tutto lo feriva. Ogni volta che lo incontravo stavo in guardia e mi controllavo a tal punto che dopo mezz’ora ero estenuato.” (p. 890)
Questa instabilità e la fragilità psichica non impediscono però a Celan di sviluppare una poetica che ha come scopo quello di vanificare quanto affermato da Adorno. Egli dedica la propria esistenza a dimostrare che è ancora possibile produrre poesia, senza che essa sia mera barbaria. In una lettera afferma di essere “l’ultimo cui è toccato vivere fino in fondo il destino della spiritualità ebraica in Europa”, ed è proprio questa Geistigkeit – spiritualità – che il poeta rappresenta, delineandola come spazio concreto e tangibile. Di questa spiritualità dopo la Shoah non è rimasto nulla e questa assenza viene interpretata da Celan come una sorta di omissione, da cui però sostiene sia possibile generare memoria. Se il nulla è l’unica genesi possibile del fare poetico, allora il verso si inscriverà nelle pause e negli spazi vuoti, rovesciando il concetto tradizionale di “poetica dello spazio”. Il rapporto dell’io lirico col mondo non viene più a realizzarsi con un possesso, ma con una perdita, identificata nel silenzio. Di fronte a questi temi, difatti, si preferirebbe abbandonarsi al silenzio, Celan invece decide di farsi carico di una sfida maggiore, ovvero di trasformare proprio questo silenzio in poesia.
Il componimento più conosciuto di Paul Celan è Todesfuge, una metafisica del male in cui riesce in ciò che Adorno dichiara impossibile. Questa lirica viene composta mentre il poeta si trova a Bad Niendorf nel maggio del 1945 e confluisce successivamente nella raccolta Mohn und Gedächtnis (“Papavero e memoria”, 1952). In Todesfuge il poeta affronta il tema del genocidio, riuscendo nel comunicare tanto il dolore, quanto la necessità di radicare saldamente l’evento dell’Olocausto nella memoria collettiva. La possibilità del silenzio di farsi memoria è realizzabile anche grazie al fatto che l’io lirico scompare, il soggetto diventa un noi che scava una tomba nell’aria, dove chi vi giace non sta stretto. Nella costruzione di questo “noi” l’io lirico espande la sua soggettività, al tempo stesso negandola, creando una collettività indefinita ed assente, ma in cui è possibile riconoscersi. Nel discorso Il Meridiano Celan afferma infatti che il poema “parla, sempre e soltanto, rigorosamente in prima persona. […] Ma io ritengo che da sempre tra le speranze del poema vi sia quella di parlare in tal modo anche per conto di estranei […] di parlare per conto di un Altro.” (p. 14) Allo stesso tempo, però, egli riconosce anche l’innegabile tendenza del poema ad ammutolirsi, a farsi silenzio – ed è a partire da questo silenzio che occorre estrapolare la materia del verso.
Celan riesce, citando Hans Holthusen, a “trattare un tema che va oltre ogni controllo umano, ogni limite dell’immaginazione”, ogni confine e precetto estetico, impiegando un linguaggio trascendente in grado di insinuarsi senza esitazioni nell’orrore della Storia, per poi fuggire nella dimensione dell’etere poetico. A rendere ancora più penetrante il messaggio della lirica è la sua struttura, in cui la morte è coniugata ad una riproduzione metrica della fuga musicale (il titolo iniziale doveva essere TodesTango, “Tango di morte”). Ciò che rimane alla fine di questa fuga è una mera nota di silenzio, all’interno della quale si può individuare il germoglio di una poesia nuova, che riesce con esiti incredibili a confrontarsi con il tema della Shoah. Se però il silenzio da cui parte Celan è l’horror vacui, quello che invece viene restituito da Todesfuge è un silenzio sacro. L’esito della ricerca poetica messa in atto da Celan può essere riassunto con alcuni versi del poeta polacco Adam Zagajewski tratti da Venerdì Santo nei corridoi della metropolitana:
Ho letto la “Passione secondo Matteo”
che tramuta in bellezza il dolore
Ho letto la ‘Fuga di morte’ di Celan
che tramuta in bellezza il dolore.
Nella stesura delle sue liriche Celan impiega il tedesco, la lingua di Margarete, della morte, che in Todesfuge è un “Maestro di Germania”:
[…] ein Mann wohnt im Haus dein goldenes Haar Margarete
dein aschenes Haar Sulamith er spielt mit den Schlangen
Er ruft spielt süßer den Tod der Tod ist ein Meister aus Deutschland
er ruft streicht dunkler die Geigen dann steigt ihr als Rauch in die Luft
dann habt ihr ein Grab in den Wolken da liegt man nicht eng
[…] nella casa vive un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith egli gioca colle serpi
Egli grida suonate più dolce la morte la morte è un Maestro di Germania
grida cavate ai violini suono più oscuro così andrete come fumo nell’aria
così avrete nelle nubi una tomba chi vi giace non sta stretto
(trad. Giuseppe Bevilacqua)
Questo utilizzo del tedesco non deve essere concepito come una scelta stilistica, nemmeno in termini di necessità, ma come l’unica lingua in cui a Celan è concesso esprimersi. Sebbene il poeta conosca molto bene anche il romeno, egli si vede condannato ad impiegare il tedesco, che si rivela essere al tempo stesso lingua della sofferenza e unico mezzo possibile per superarla. La lingua impiegata non è più qualcosa che il poeta può possedere, non è nemmeno un porto sicuro, ma un elemento continuamente minacciato e instabile.
Le radici ebraiche e gli eventi tragici vissuti negli anni del Nazionalsocialismo condannano Celan a vivere una Zerrissenheit (un conflitto sconcertante) nei confronti della Germania, simile a quella provata da un altro poeta tedesco del Vormärz, Heinrich Heine. Questa frattura tra l’appartenenza ebraica e l’impossibilità di recidere il legame con la lingua tedesca viene in parte superata in Todesfuge, dove le due componenti si fondono per trasformare l’orrore della Shoah in prodotto estetico. Celan viene consacrato come poeta tedesco in occasione dell’assegnazione, nel 1960, del prestigioso Premio Büchner. La permanenza a Parigi, nonostante un primo periodo di serenità, diviene presto insostenibile per Celan. La vita del poeta si spezza soffocata dalle acque della Senna un anno dopo il suo primo viaggio in Israele, avvenuto nel 1969. Quando a Emil Cioran viene chiesto se la morte di Celan fosse stata causata da questa sua visita in Terra Santa, egli risponde con le parole che seguono:
“Credo sia un’idea interessante […] ma la relazione di Celan con Israele non era così profonda. Per Celan, ciò che è stata particolarmente profonda e tragica, fino alla fine, fu la sua relazione con la lingua tedesca. Questo è certo. A Cernăuți, in famiglia, parlavano il tedesco. Il tedesco era la sua lingua. Un cambiamento della lingua sarebbe stato impensabile. Ma allo stesso tempo, Celan ha sofferto per essere stato onorato in Germania; per lui era una posizione imbarazzante. Era tragica. Una volta mi disse, dopo aver ricevuto il premio Büchner, di essere infelice a causa di esso.”
Nella notte compresa tra il 19 e il 20 aprile Celan decide di mettere fine a quel suo silenzio troppo rumoroso, al tempo stesso origine e materia del suo verso.
Bibliografia:
Adam Zagajewskij, Dalla vita degli oggetti. Poesie 1983-2005, Milano, Adelphi, 2012.
Camilla Miglio, Vita a fronte. Saggio su Paul Celan, Macerata, Quodlibet, 2005.
Emil Cioran, Al di là della filosofia, Milano, Mimesis, 2014.
Emil Cioran, Quaderni (1957-1972), Milano, Adelphi, 2001.
Hans Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz: una voce ebraica, Genova, Il Nuovo Melangolo, 2005.
Paola Gnani, Scrivere poesia dopo Auschwitz. Paul Celan e Theodor W. Adorno, Firenze, Giuntina, 2010.
Paul Celan, La verità della poesia. “Il meridiano” e altre prose, Torino, Einaudi, 2008.
Paul Celan, Poesie. Testo tedesco a fronte, Milano, Mondadori, 1998.
Theodor W. Adorno, Critica della cultura e della società, in Prismi, Saggi sulla critica della cultura, Torino, Einaudi, 1972.
Theodor W. Adorno, Note per la letteratura, Torino, Einaudi, 2012.
Apparato iconografico:
Immagine 1: https://c.nau.ch/i/bDmw3/1024/paul-celan.jpg
Immagine 2: https://m.day.kyiv.ua/sites/default/files/main/articles/04092013/2paul_celan_0.jpg